Si parla molto oggi di superamento della vecchia dicotomia fra sinistra e
destra, ma non sempre si portano argomenti convincenti per rendere realmente
credibile questo superamento. Chi sostiene che la dicotomia è ancora valida fa
in genere riferimento al valore dell’eguaglianza e della solidarietà, dicendo
che la destra non pratica questi valori, mentre la sinistra sostiene i
salariati in nome dell’eguaglianza e gli immigrati in nome della solidarietà.
Chi invece sostiene che la dicotomia è ormai obsoleta, e viene mantenuta
artificialmente per creare una contrapposizione fittizia puramente elettorale,
fa riferimento soprattutto al recente allineamento della cosiddetta "sinistra"
(o almeno della sua parte largamente maggioritaria sul piano elettorale,
sindacale ed intellettuale) all’imperialismo americano ed alle sue guerre di
dominio geopolitico del mondo (Irak 1991, Serbia 1999, Afganistan 2001-2002).
In questo breve testo non vorrei semplicemente ripetere queste polemiche, in
cui tutto è già stato detto e ridetto. Preferirei esporre le cose in modo più
rigoroso e sistematico, seguendo un filo del discorso maggiormente
convincente.
Per onestà verso il lettore, dico subito di essere convinto sostenitore
del sostanziale esaurimento di questa dicotomia, e del fatto dunque che un
sostanziale superamento sarebbe ormai possibile ed utile. Una simile
affermazione non è però sufficiente, bisogna argomentarla sul piano prima
storico e poi teorico e culturale. E’ quello che cercherò di fare. Farò prima
una brevissima premessa autobiografica per spiegare i due momenti della mia
vita in cui ho maturato questa convinzione, un primo momento in modo puramente
teorico e culturale ed un secondo momento in modo anche emotivo. Dopo questa
breve premessa autobiografica prenderò la stradadella esposizione storica e
teorica. In primo luogo sosterrò perché, a mio avviso, la dicotomia fra
sinistra e destra, formalmente iniziata con la rivoluzione francese e la
collocazione dei parlamentari nel 1791, ha però il suo vero inizio
contemporaneo dopo la Comune di Parigi del 1871 e con la seconda rivoluzione
industriale. Da questa data hanno inizio le tappe della vera e propria
formazione progressiva delle identità di sinistra e destra, identità che
strutturano fisiologicamente anche delle appartenenze. In secondo luogo
affronterò il problema centrale di queste brevi note, e cioè se si possano
classificare tranquillamente il fascismo e il nazismo come fenomeni
storicamente di destra, ed il socialismo e il comunismo come fenomeni storici
di sinistra. Una simile domanda può sembrare ovvia e retorica, ma in realtà
non è così. Per quanto riguarda il fascismo ed il nazismo ritengo che
nell’essenziale abbia ragione lo storico israeliano Zeev Sternhell, e cioè che
si tratta di fenomeni la cui natura non è veramente né di destra né di
sinistra. Personalmente, tenderei però a sfumare la tesi di Sternhell, nel
senso che mi sembra piuttosto che si sia trattato di fenomeni storici la cui
natura profonda è proprio il superamento della dicotomia, ma la cui ideologia
(e la falsa coscienza che la accompagna) è invece stata il tentativo di
egemonia e di integrazione di tutte le precedenti tradizioni della destra. Per
quanto riguarda il socialismo e il comunismo ritengo invece che il solo
socialismo sia stato a tutti gli effetti un fenomeno di sinistra per così dire
storicamente fisiologico, mentre il comunismo ha avuto certamente una matrice
storica di sinistra, ma il suo sviluppo ha comportato la creazione di una
sinistra talmente anomala da superarne di fatto i vecchi confini. La logica
della mia riflessione è quella di applicare anche al comunismo lo stesso
ragionamento che Sternhell ha applicato al solo fascismo, ma non però in base
alla nota teoria del totalitarismo, che anzi respingerò con alcuni sintetici
(ma spero chiari) ragionamenti. In terzo luogo, sulla scorta di una
periodizzazione del Novecento sviluppata recentemente da Massimo Bontempelli,
sosterrò che la dicotomia fra sinistra e destra, che era stata precedentemente
reale, comincia ad esaurirsi intorno alla metà degli anni Settanta (almeno in
Europa), e questo esaurimento ha un salto qualitativo nel triennio 1989-1991,
in cui si dissolve rapidamente il comunismo storico novecentesco come sistema
economico, ideologico, politico e geopolitico. Paradossalmente questo fatto
viene oscurato dalle corporazione degli intellettuali, dei politici e dei
giornalisti, che interpretano la fine del fascismo e del comunismo (Grecia e
Portogallo 1974, Spagna 1975, paesi dell’Est europeo 1989, Russia 1991) come
la vera restaurazione della dicotomia "pulita" fra sinistra e destra dopo la
fine dell’equivoco anomalo del fascismo e del comunismo. Definirò quest’idea,
senza alcun malanimo, ma anzi con stima verso Norberto Bobbio una vera e
propria "illusione bobbiana". Questa illusione bobbiana rappresenta a mio
avviso, sul piano teorico almeno, l’ultima trincea filosofica per il
mantenimento di una dicotomia che a mio avviso ha smesso di rappresentare in
modo efficace la realtà presente. Nel contesto culturale italiano, si tratta
del proseguimento dell’egemonia dell’azionismo, passato dal vecchio azionismo
antifascista, al nuovo azionismo antiberlusconiano. In quarto luogo, infine,
sosterrò che è proprio l’avanzato esaurimento storico della dicotomia a fare
da premessa materiale al suo superamento anche filosofico e culturale.
Ovviamente, non mi nasconderò riserve ed eccezioni, perché non esiste modo
peggiore di difendere una tesi di quello che non riesce neppure a vedere i
punti deboli della propria argomentazione.
In questo e nei prossimi due paragrafi svolgerò alcune considerazioni
personali sulla ragioni che mi hanno progressivamente portato ad abbandonare
radicalmente la dicotomia fra sinistra e destra come criterio di orientamento
e bussola per gli avvenimenti storici e politici contemporanei. Faccio questo
non perché creda all’autobiografismo (sono d’accordo con Hegel, che scrisse
che tutto ciò che nei miei scritti c’è di personale è falso), ma perché il
lettore ha diritto di conoscere non solo il prodotto ma anche il processo di
produzione. In questo paragrafo toccherò soltanto cinque punti telegrafici. In
primo luogo, con la stragrande maggioranza dei cosiddetti intellettuali
comunisti e marxisti, ho dato per scontato per almeno un ventennio che la
sinistra fosse l’unico luogo storico e culturale possibile non solo per la
rivoluzione, ma anche per la razionalità e il progresso dell’umanità. Si
trattava di un presupposto di autosufficienza che conteneva un aspetto
parzialmente narcisistico, evidente oggi nella crociata antiberlusconiana di
personaggi che approvano tutte le guerre imperiali americane, ma poi credono
che il problema dei problemi sia il cattivo gusto delle televisioni private o
il conflitto di interessi. Questo presupposto di autosufficienza mi spingeva
ovviamente a condividere il "tabù dell’impurità" verso chiunque si dichiarasse
di destra o di estrema destra. Non mi era chiaro, e non poteva esserlo ai miei
coetanei ingannati, che il prolungamento di questa guerra civile simulata
serviva soltanto a riprodurre un sistema politico consociativo (ancorché
migliore di quello nato dopo il 1992 ad opera del colpo di stato giudiziario
di Mani Pulite). In poche parole, per dirla in termini cartesiani, non ero
stato ancora investito né dal dubbio metodico né tantomeno dal dubbio
iperbolico. In secondo luogo, ripeto quanto già scritto in molte altre sedi, e
cioè che considero gli esiti storici del Sessantotto un episodio della storia
dell’individualismo radicale contemporaneo (chi ha sostenuto con migliori
argomenti questa tesi è stato il francese Lipovetsky). Il Sessantotto, almeno
in Italia e Francia, si caratterizza per la compresenza di una spinta
irresistibile alla modernizzazione post-borghese dei costumi, da un lato, e di
una falsa coscienza ideologica che mascherava questa modernizzazione
post-borghese con l’assunzione di una utopia comunista e libertaria, vissuta
peraltro in buona fede in quasi tutti i casi. In quanto tale, il Sessantotto
non è dunque la matrice dei partitini rivoluzionari del periodo 1969-1977 e
neppure della lotta armata brigatista in Italia. L’ideologia di destra che fa
questa equazione è del tutto fuori strada. In terzo luogo, se si studia
l’ideologia italiana dei micropartitini erroneamente detti estremistici degli
anni 1969-1977 (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, partitini
marxisti-leninisti, eccetera), si deve sapere che il loro riferimento a Marx
ed a Lenin era del tutto formale, astratto ed infondato. Il marxismo era
assunto nella forma dell’operaismo italiano, ed il leninismo nella forma del
populismo pauperistico. Questo spiega perché vediamo oggi il populista
pauperistico Aldo Brandirali nell’area politica di Berlusconi, e l’operaista
Adriano Sofri fra gli apologeti del sionismo, delle guerre americane e
dell’imperialismo più totale. Non si è dunque trattato di un "tradimento".
Nessun moralismo serve a capire il fenomeno. Questa gente non ha mai avuto in
nessun momento il minimo rapporto con Marx o con Lenin, e si tratta allora di
avventure della dialettica del tutto specifiche. In quarto luogo, se si
esamina l’ideologia della lotta armata in Italia (sia sul versante Brigate
Rosse che in quello Prima Linea) si vede che si tratta semplicemente dell’uso
delle armi da fuoco a partire dal precedente demenziale paradigma teorico e
politico dell’operaismo e del populismo pauperistico. Marx e Lenin non
c’entrano niente. Marx è il teorico del lavoratore collettivo cooperativo
associato, e Lenin è il teorico delle larghe alleanze di classe. Tutto questo
era del tutto estraneo agli allucinati pistoleros, che erano mossi da tre
presupposti del tutto onirici. Primo, una concezione paranoica del capitalismo
mondiale come meccanismo unitario e pianificato, il cosiddetto SIM, lo Stato
Imperialista delle Multinazionali (e questa concezione unitaria e non
concorrenziale resta oggi nell’idea di impero senza imperialismo di Toni
Negri). Il capitalismo diventa l’organizzazione Spectre di James Bond.
Secondo, una concezione che definirei di operaismo mistico, per cui la classe
operaia di fabbrica continua ad essere vista come il gigante buono da
svegliare con azioni esemplari, alla faccia delle leniniane alleanze di
classe. Terzo, una concezione che definirei di antifascismo mitico, per cui ci
si sentiva eredi ed emuli di Pesce, il partigiano dei GAP, e di Kamo, il
rapinatore di banche armeno del tempo di Lenin, e si vedeva un fascista in
ogni poliziotto democristiano ed in ogni ingegnere FIAT (questo antifascismo
mitico permane ancora oggi in chi continua a vedere Bossi, Berlusconi e Fini
dei semplici eredi del fascismo metafisico). Come si vede questi tre
presupposti non hanno nulla a che vedere con il marxismo e con il leninismo.
Chi li ignora può ripetere questo luogo comune infondato, ma chi sa chi sono
stati e che cosa hanno scritto Marx e Lenin (ed io lo so) non si farà prendere
per il naso. In quinto luogo, devo dire che l’avvento del gorbaciovismo nel
1985 mi fece cadere in una comprensibile schizofrenia, che peraltro condivisi
con molti intellettuali marxisti del mondo. Da un lato, sulla scorta di
analisti marxisti come Paul Sweezy e Charles Bettelheim, ero convinto da tempo
che il socialismo reale fosse diretto da una nuova ed inedita classe
sfruttatrice, formatasi con il consolidamento delle burocrazie dispotiche
della fusione tra partito e stato (più esattamente, fra partito comunista e
stato socialista), e perciò nessuna riforma potesse partire dall’alto in una
direzione di emancipazione socialista. Dall’altro, continuavo pascalianamente
a sperare nell’autoriforma della burocrazia, e che il baraccone potesse essere
salvato all’ultimo momento, perché mi era già chiaro che il crollo geopolitico
del baraccone burocratico avrebbe comportato il sorgere da incubo di un impero
americano unilaterale. cOn questi sentimenti schizofrenici affrontai il
fenomeno Gorbaciov, e ci misi molto per capire ciò che avrebbe dovuto essere
marxianamente chiaro, e cioè che la classe sfruttatrice dei burocrati di
stato, resasi conto di non poter continuare con il vecchio meccanismo
statalista e pianificato di sfruttamento, si sarebbe infine riciclata come
nuova borghesia compradora e speculativa del più solido e collaudato
capitalismo occidentale. Il che ovviamente avvenne, insieme con l’affermazione
dell’odioso ed ipocrita unilateralismo geopolitico americano. Meno Pascal e
più Marx, meno scommessa e più analisi, eccetera, mi avrebbe forse fatto
capire meglio le cose. Ma come disse il saggio proverbio, meglio tardi che
mai.
Sul piano intellettuale, cominciai a capire che la dicotomia di sinistra e
destra era del tutto inservibile per mettere a fuoco i problemi di un
eventuale rinnovamento del marxismo nel triennio 1991-1993, quando per
l’editore Vangelista di Milano scrissi una serie di libri, fra cui una
trilogia dedicata ai rapporti rispettivi del marxismo con il nichilismo,
l’universalismo e l’individualismo. Mano a mano che approfondivo l’analisi, mi
rendevo conto che la dicotomia non era solo inservibile, ma addirittura
fuorviante, e dava luogo a ciò che nel Seicento Bacone chiamava "idola", cioè
pregiudizi devianti. Per quanto riguarda il nichilismo moderno, la sinistra ne
era stata addirittura il luogo privilegiato con la sua evoluzione dal
precedente storicismo progressistico al disincanto post-moderno della fine
della storia. Per quanto riguarda l’universalismo, la sinistra era stata
storicamente il vettore principale del suo scioglimento nei particolarismi non
universalistici della classe (operaia) e del partito (socialista e poi
comunista). Ma l’universalismo della classe e del partito era stato sempre e
solo astratto, aprioristico e formale, mentre nella realtà storica non aveva
mai funzionato come tale. Per quanto riguarda l’individualismo, infine, la
sinistra non aveva ripreso la preziosa indicazione di Marx sulla libera
individualità sociale (che per Marx avrebbe dovuto essere la base
dell’antropologia comunista, dopo la dipendenza personale precapitalistica e
l’indipendenza personale borghese), ma era caduta in forme di identità e di
appartenenza di tipo organicistico e tribale (il cosiddetto "popolo di
sinistra"). Insomma, non posso farla lunga per ragioni di spazio. Basti
concludere che fu proprio il processo di ripensamento personale a farmi
prendere atto del fatto che finché ragionavo in termini di opposizione polare
fra sinistra e destra non ne sarei mai venuto fuori.
Sul piano teorico avevo già dunque rotto con la dicotomia fino dai primi
anni Novanta. Ma restava ancora un radicamento emotivo di appartenenza, duro a
morire come tutti i radicamenti identitari ad origine biografica. La rottura
emotiva per me risale al marzo 1999, quando i bombardieri americani e dei loro
servi europei della NATO (con la lodevole eccezione della Grecia, patria della
filosofia) cominciarono a cospargere di uranio radioattivo la Jugoslavia. Da
vecchio conoscitore dei Balcani, sapevo perfettamente che non c’era in corso
nessun genocidio e neppure nessuna pulizia etnica (cioè espulsione etnica di
massa da un territorio), ma solo una repressione armata di un movimento armato
indipendentista (una situazione comune ad almeno cinquanta paesi al mondo).
Sapevo anche che il movimento armato indipendentista albanese UCK perseguiva
la pulizia etnica dei serbi, mentre Milosevic non perseguiva quella degli
albanesi. Sapevo anche che gli americani erano del tutto indifferenti ai
cosiddetti "motivi umanitari", e volevano invece un insediamento militare
geopolitico nei Balcani (l’odierno Camp Bondesteel). Sapevo anche che i
cosiddetti colloqui di Rambouillet erano stati una trappola pianificata dalla
Albright. Bene, tutto questa era largamente noto, ed invece vidi la sinistra
che appoggiava la guerra americana, Veltroni che sfilava in suo appoggio,
Sofri che inneggiava sulle colonne del giornale-partito "La Repubblica",
Bobbio che prestava il suo nome alla cosiddetta Operazione Arcobaleno,
eccetera. In quel momento in me si ruppe qualcosa. Poi lessi che la rivista
"Diorama Letterario" di Tarchi si era invece impegnata contro la guerra con
contributi pacati ed equilibrati, ed allora decisi che il "tabù dell’impurità"
avrebbe dovuto essere rotto proprio per preservare la mia salute mentale e la
mia dignità personale di studioso. E l’ho fatto.
Dopo questi tre paragrafi dedicati ad una ricostruzione necessariamente
autobiografica, possiamo finalmente passare alla parte teorica. Inizierò
allora sostenendo che la dicotomia contemporanea fra sinistra e destra non
inizia a mio avviso nel 1789, come si tende a dire, ma si costituisce
veramente solo a partire dal 1871, ed ha una significativa accelerazione solo
dopo il caso Dreyfus in Francia, in cui si costituisce per la prima volta il
gruppo degli "intellettuali di sinistra" come gruppo identitario di
appartenenza stabile. Certo, questo riguarda solo l’Europa Occidentale, non
l’Inghilterra, l’America o la Russia, ma è egualmente interessante.
A proposito del periodo storico che va dal 1789 al 1871 so bene che molti
utilizzano ampiamente la dicotomia tra sinistra e destra per classificare le
posizione politiche contrapposte. Tutto questo è legittimo, ma non sono del
tutto d’accordo, perché c’è il pericolo di confondere queste categorie con il
loro uso attuale, che è diverso e talvolta opposto. Ad esempio la parola
"patria" nasce a sinistra, e ci mette quasi un secolo per transitare a destra
(e sta oggi tornando lentamente a sinistra . vedi il caso Chevènement in
Francia – proprio per la nuova situazione imperiale americana). Mazzini e
Garibaldi sono indubbiamente più a sinistra di Cavour, ma questo ci dice
veramente molto poco sul nostro risorgimento. Alcuni parlano di tre tipi
diversi di destra francese (la destra borbonica legittimista e
tradizionalista, la destra orleanista speculativa, liberale e faccendiera, ed
infine la destra bonapartista, populistica e plebiscitaria). Tutto vero, ma
anche tutto inutile per capire il presente. I nordisti erano chiaramente più a
sinistra dei sudisti, perché volevano liberare gli schiavi, ma erano poi i
portatori del capitalismo più selvaggio, oligarchico, banditesco e piratesco
della storia universale. Potrei continuare al lungo, ma questo mi basta per
chiarire come prima del 1871 preferirei non usare questa delicata dicotomia.
Fra il marzo e il maggio 1871 si sviluppò e fu sanguinosamente repressa la
Comune di Parigi. Un evento storico reale, ma anche un evento simbolico. Dal
punto di vista storico, la Comune chiude una fase, e non ne apre assolutamente
un’altra. Si tratta dell’ultima grande rivolta popolare ottocentesca, prima
della nascita del socialismo e del movimento operaio organizzato, partitico e
sindacale. Ma da un punto di vista simbolico, la Comune è l’occasione di uno
schieramento ideale. L’atteggiamento di Nietzsche verso la Comune di Parigi mi
sembra assolutamente sintomatico, ed è questa fra l’altro la ragione
principale per cui, a differenza dei post-moderni alla Gianni Vattimo,
considero Nietzsche un pensatore fondamentalmente di destra, e non un
pensatore dell’Oltreuomo posteriore alla dicotomia sinistra/destra. La Comune
di Parigi appare subito non solo come una comune insurrezione urbana popolare,
ma come il sintomo di una crisi di civiltà. Ed infatti è proprio così. Il
terreno filosofico della dicotomia fra sinistra e destra è proprio quello
dell’interpretazione corretta e della diagnosi della crisi di civiltà.
Ogni crisi di civiltà, o quella che si ritiene tale, viene giudicata in
base a parametri di classificazione teorica, che a sua volta traggono spesso
origine da reazioni emotive primarie. La distinzione fra destra e sinistra
richiede questi parametri di classificazione. Essi non sono sempre in qualche
misura arbitrari. Non esistono parametri storiografici definitivi. Ogni
generazione ne riscrive di nuovi. I parametri oggi più usati in Italia in
filosofia politica sono quelli proposti da Norberto Bobbio, ma questo avviene
proprio perché viviamo in un’epoca di egemonia liberale e neoliberale, ed i
parametri bobbiani sono particolarmente adatti a fondare questa egemonia,
perché sono stati programmaticamente costruiti sulla base della separazione
netta fra politica ed economia e fra forme e contenuti della decisione
politica. I contenuti economici classisti della decisione politica sono per
Norberto Bobbio analoghi al noumeno di Kant. Essi sono pensabili, ma non
conoscibili. Sono una cosa in sé, non una cosa per noi. La uniche forme
modellizzabili sono le procedure formali della decisione politica, e questo
formalismo politologico è particolarmente affine alla riproduzione
capitalistica, che infatti tende a limitare il fattore politico a questo ruolo
subalterno e secondario. Occorre dunque prestare una certa attenzione ai
parametri di classificazione usati. E dico subito che vi sono due coppie di
parametri molto usati, che io però sconsiglio vivamente.
Una prima coppia di parametri da sconsigliare è quella fra conservazione e
progresso. In generale si classifica automaticamente la destra dalla parte
della conservazione e la sinistra dalla parte del progresso. Questo era
probabilmente vero alle origini del processo storico della modernità
illuministica, ma nel frattempo le cose si sono fortemente ingarbugliate. Non
vi sono dubbi sul fatto che il concetto di progresso è stato una creazione
dell’illuminismo (o meglio della sua corrente maggioritaria, perché c’è anche
un Rousseau che non vi credeva ed anzi lo avversava), è poi passato al
positivismo ottocentesco ed ha poi abbondantemente intriso l’ideologia prima
socialista e poi comunista. E’ anche vero che il moderno conservatorismo ha
spesso come matrice storica la critica alla rivoluzione francese prima e dopo
il 1815, ma è anche vero che esiste anche una seconda matrice, la tradizione
liberale inglese antirivoluzionaria "whig" di Burke (destinata a rifiorire
nella critica anticomunista di Isaiah Berlin e di Hannah Arendt). In
definitiva, mi sembra che il modello non tenga molto. Quando le anomalie e le
eccezioni cominciano a diventare troppo numerose, allora è bene che la
dicotomia venga prima criticata e poi decisamente abbandonata. A lungo la
sinistra ha accusato il capitalismo di conservatorismo, ed ha addirittura
etichettato come "conservatori" i suoi sostenitori. Questa etichetta è priva
di fondamento storico, e si applica soltanto (parzialmente) ai residui
nobiliari e alle classi legate alla rendita fondiaria ed in parte finanziaria.
Marx sapeva perfettamente che il capitalismo è la forza meno conservatrice che
esista, e che fa saltare in aria tutto ciò che sembra solido. Il gruppo
sociale più conservatore che esista in Occidente è forse la piccola borghesia
urbana di origine operaia ed impiegatizia. In compenso, il progresso è
divenuto nel Novecento una parola d’ordine legata all’innovazione tecnologica
connessa con il mercato capitalistico e con il suo allargamento, ed i suoi
maggiori critici provengono tutti da una matrice politica di sinistra. Ricordo
qui solo la rivendicazione della cosiddetta "antiquatezza" dell’uomo da parte
di Gunther Anders. L’ecologismo, e non solo il cosiddetto ecologismo
"fondamentalista", è oggi prevalentemente una forza di sinistra (o di
centro-sinistra), anche se molti suoi presupposti filosofici furono elaborati
nella prima metà del Novecento dalla cosiddetta "destra". In ogni caso,
dovunque ci voltiamo, appare del tutto chiaro che la dicotomia
conservazione/progresso non è più, ammesso che lo sia mai stata veramente, un
utile parametro di classificazione fra la sinistra e la destra.
Una seconda coppia di parametri, generalmente usata per classificare due
tipi diversi di sinistra (ma anche di destra), è quella che separa i
riformisti dai rivoluzionari. Nella polemica politica i riformisti vengono
talvolta chiamati moderati, ed i rivoluzionari estremisti. Si tratta di una
dicotomia pretestuosa e pigra, che in realtà non funziona assolutamente. E’
bene metterne in luce la matrice teorica, che è la concezione storicistica del
tempo. Se concepiamo infatti il tempo storico come un "medium" omogeneo ed
orientato, simile ad una strada lunga e diritta (e così lo concepivano le
ingenue ideologie del progresso), gli agenti storici possono essere pensati
come automobili che corrono più lente, e dunque più sicure, oppure più veloci,
e dunque più efficienti ma anche più insicure. I moderati riformisti sono
quelli che vanno piano, mentre i rivoluzionari estremisti sono quelli che
vanno forte, e dunque rischiano di andare fuori strada perché non rallentano
in curva. Ma questa concezione della storia è assurda. Il tempo storico non è
per nulla una linea dritta con un prima e un dopo omogenei, e neppure una
strada a curve con gli stessi requisiti direzionali stabili. Il tempo storico
apre ogni tanto delle "finestre" di opportunità, che nessuno potrebbe mai
creare arbitrariamente con un puro atto di volontà, e queste sono appunto le
rivoluzioni che possono riuscire. in quanto alle cosiddette riforme, il guaio
è che molto spesso vengono battezzate "riforme" delle incredibili
controriforme peggiorative (riforma della scuola, riforma delle pensioni,
riforma della sanità, eccetera). Il termine riforma ha perduto oggi qualunque
significato connotativo, e viene usato esclusivamente in un contesto di
mistificazione ideologica. Nello stesso modo il termine estremista è ormai
usato arbitrariamente per connotare qualunque comportamento ostile all’impero
americano ed ai suoi alleati, ed è diventato come il termine "terrorista". Bin
Laden lo è, mentre Bush guarda caso non lo è. Il massacratore Sharon non lo è,
mentre il povero Arafat lo è. I coloni razzisti israeliani non lo sono, mentre
gli eroici partigiani palestinesi lo sono. Non si tratta di semplice
confusione semantica, ma di vera e propria degradazione semantica. La
degradazione semantica è un segnale sicuro di corruzione sociale, ed allora
l’etimologia deve lasciare spazio alla politica rivoluzionaria.
Messo in guardia il lettore dall’uso di parametri inutili, bisogna però
pur sempre utilizzare dei parametri. Devo ammettere che non ne conosco di
veramente soddisfacenti. Qualunque parametro venga scelto, anziché distinguere
con chiarezza destra e sinistra, taglia diagonalmente sia il campo delle
destre che il campo delle sinistre. E’ infatti questa una buona ragione per
consigliare l’abbandono della dicotomia, ormai di tipo rigidamente
identitario. In modo del tutto provvisorio userò qui solo due coppie
classificative. Per quanto concerne la sinistra, distinguerò fra sinistra
dell’immanenza sociale e sinistra del trascendimento sociale. Per quanto
riguarda la destra, distinguerò fra destra capitalistica e destra
tradizionalistica. Ma sia chiaro che anche questi parametri sono del tutto
insoddisfacenti.
Dal 1871 al 1914 si costituisce la sinistra nel senso contemporaneo del
termine. Sarà poi la guerra del 1914-1918 a dividerla fra socialisti e
comunisti, perché sono sempre e solo le guerre i veri "momenti della verità"
in cui chiacchiere e traccheggiamenti non sono più possibili, ed allora o si è
per o si è contro. Lo stesso atteggiamento verso la rivoluzione russa del 1917
è in un certo senso una derivazione secondaria di un precedente atteggiamento
verso la guerra. Chi ha imparato ad odiare veramente il capitalismo è stato
poi anche psicologicamente incline ad accettare la rottura del comunismo. Chi
invece non aveva consumato psicologicamente questa rottura è rimasto quasi
sempre socialista. Gli anni 1871-1914 non sono stati soltanto gli anni del
marxismo della Seconda Internazionale (fondata nel 1889, cento anni esatti
prima della caduta del muro di Berlino). Sono stati anche gli anni in cui si è
costituita la sinistra intellettuale radicale, attraverso le battaglie del
caso Dreyfus in Francia, attraverso l’antimilitarismo soprattutto tedesco, ed
infine attraverso le prime critiche al colonialismo ed al razzismo. In questo
contesto è emerso a mio avviso quel dualismo che intendo connotare con le mie
espressioni (forse un po’ improprie) di sinistra dell’immanenza sociale e
sinistra del trascendimento sociale. La sinistra dell’immanenza sociale si
adatta all’integrazione della nuova società capitalistica della seconda
rivoluzione industriale, esalta le conquiste salariali e normative che le
lotte sindacali effettivamente riescono a conseguire per i lavoratori dei
campi e delle officine, ed accompagna gradualmente l’uscita dei lavoratori da
quella miseria nera che prima ne scandiva le dure condizioni di vita. Questa
sinistra dell’immanenza sociale adotta una filosofia gradualistica del
progresso del tutto fasulla ed inesistente, che però rispecchia con ideologica
esattezza la propria natura compromissoria. La politica estera non gli
interessa, se non come sorgente di tasse e di leve militari. I popoli
colonizzati gli interessano poco, e così finisce con il condividere i
pregiudizi razzisti degli stessi piccoli coloni europei. La cultura le
interessa soltanto come divulgazione popolare e come strumento di promozione
sociale. Tutti gli elementi della sua futura subalternità sono già
massicciamente presenti. Questo "terzo stato" marcia verso i futuri
supermercati e verso futuri stadi di calcio e non se ne accorge nemmeno. La
sinistra del trascendimento sociale si rende invece perfettamente conto del
fatto che nessuna conquista sotto il capitalismo è irreversibile e garantita.
Non si tratta dunque di semplice massimalismo o di semplice populismo. Si
tratta invece di un lodevole sforzo per comprendere l’insieme dei rapporti
sociali, e di qui nasce quella critica all’imperialismo che a mio avviso è il
punto più alto ed il massimo contributo di questa sinistra nel periodo
1871-1914. Vorrei insistere su questo punto per il fatto che oggi siamo di
fronte allo stesso problema di allora, con la differenza (in peggio) che la
maggior parte della cosiddetta sinistra istituzionale e parlamentare (D’Alema,
Rutelli, Jospin, Blair, Schroeder, ed in più tutti gli scagnozzi ex-comunisti
dell’Est addomesticato) è ormai schierata a fianco del nuovo imperialismo, e
con la differenza (in meglio) che questo fatto scandaloso comporta un
rimescolamento benefico delle categorie di sinistra e di destra che annuncia
un periodo storico del tutto nuovo, duro e faticoso ma anche promettente.
Fra il 1871 e il 1914 si sviluppa l’intreccio fra la destra
tradizionalista e la destra capitalistica. La destra tradizionalista protesta
contro la cosiddetta massificazione democratica in nome di una gerarchia
sociale non fondata sul semplice possesso e sulla pura ostentazione del
denaro. In modo molto acuto questa destra tradizionalista capisce bene che il
denaro di per sé è un principio democratico ed egualitario, cui tutti possono
accedere purché accettino le semplici regole dell’accumulazione capitalistica.
Il regno del denaro, gli Stati Uniti d’America, sono anche il regno della
democrazia. Questa destra tradizionalista sogna gerarchie metafisiche (come
Julius Evola), oppure lotte contro l’usura nemica dei popoli (come Ezra
Pound). La destra tradizionalista è anche sempre estremamente attirata dalla
religione (l’esempio di Guénon è sintomatico), perché effettivamente solo la
religione offre un vero quadro atemporale in cui le gerarchie possano essere
messe al riparo dall’attività corrosiva del progresso. E tuttavia l’impotenza
politica di questa destra tradizionalista è addirittura patetica e pittoresca.
Nel campo della destra essa assomiglia moltissimo a ciò che per la sinistra è
la scuola di Francoforte di Horkheimer e Adorno. In entrambi i casi si ha una
critica della società programmaticamente non politica perché priva di
soggetto, e la denuncia sostituisce così la mobilitazione, diventando una
pratica intellettuale fine a sé stessa. La destra capitalistica è invece fin
troppo in grado di trovare il suo soggetto storico, e cioè l’unione fra il
mandato della grande borghesia e la militanza attiva della piccola borghesia.
Il denaro di per sé non è né di destra né di sinistra, in quanto "non olet",
non odora, come dice il grande precursore del pensiero borghese Vespasiano. Ma
se il denaro è indipendente dalla dicotomia, la mobilitazione in difesa della
libera accumulazione di denaro è invece sicuramente di destra. Questa desta è
anti-socialista, ed anzi rimprovera la borghesia (l’esempio di Pareto è
illuminante) perché non è abbastanza determinata e cattiva. Questa destra
capitalistica riesce a conseguire l’egemonia politica sulla sognante destra
tradizionalista in nome dell’antisocialismo. Sulla scorta di Nietzsche, il
socialismo è appunto interpretato come rivolta plebea mossa dall’invidia e dal
risentimento, e questa semplice idea, unita all’antisemitismo come denuncia di
complotto dei banchieri ebrei per conquistare il mondo, riesce ad essere
straordinariamente egemonica, così come tutte le grandi semplificazioni.
La guerra 1914-1918 è il grande spartiacque, dopo il quale emergono i due
grandi fratelli nemici del fascismo e del comunismo. Sono contrario a definire
questi regimi con l’etichetta di "totalitari", perché non conosco nessun
sistema più abile a "totalizzare" il consenso passivo del normale capitalismo
liberale. L’educazione politica "totale" delle masse nel fascismo e nel
comunismo fallisce sistematicamente, perché non riesce a stabilizzarsi dopo i
primi anni di mobilitazione capillare. E’ forse meglio usare il termine
neutrale e descrittivo di regimi "dispotici". Il rapporto che questi regimi
instaurano con le vecchie tradizioni di destra e di sinistra precedenti è
estremamente problematico.
Secondo alcuni studiosi, fra cui è emblematico l’israeliano Zeev
Sternhell, i fascismi non sono a rigore né di destra né di sinistra. Essi
presentano ovviamente elementi strutturali provenienti da entrambe le
tradizioni, ,a poiché li mescolano insieme in modo inestricabile è ugualmente
possibile dire che sono una cosa nuova, e meritano un’analisi nuova che non
ricorra ai vecchi parametri. Io sono d’accordo nell’essenziale con
un’importante specificazione. Mi pare infatti che la matrice culturale del
fascismo (ed anche del nazismo tedesco, che resta il fascismo perfetto ed
idealtipico) sia chiaramente di destra (antisocialismo, colonialismo,
militarismo, eccetera), ma l’organizzazione politica capillare delle lasse
proviene dall’esperienza organizzativa dei partito socialdemocratici e
comunisti, e non ha dunque nulla a che fare né con la destra tradizionalista
né con la destra capitalistica (e dunque individualistica e conservatrice).
Nonostante l’uso di miti agresti e campagnoli il nazismo resta un fenomeno
urbano, tecnico, futuristico e moderno, e lo stesso fascismo italiano confina
lo "strapaese" in recinti ben protetti. Una volta crollati, nel 1943 e nel
1945, il fascismo e il nazismo liberano masse enormi che si dividono in
sinistra e destra, ed è questa a mio avviso una chiara indicazione del loro
carattere ibrido. E’ comunque interessante, e deve far pensare, che invece i
movimenti neofascisti e neonazisti dopo il 1945 si collochino tutti
all’estrema destra, e fra il 1945 ed il 1991 si mettano a disposizione del
nuovo imperialismo americano in funzione anticomunista. Questo è sicuramente
un argomento contro Sternhell. Ma non è un argomento decisivo, perché i
piccoli movimenti neofascisti dopo il 1945 sono qualcosa di radicalmente
diverso dai grandi movimenti fascisti e nazisti fra le due guerre. In Spagna
(Franco) ed in Portogallo (Salazar) si ha invece un interessante fusione
perfettamente riuscita fra destra tradizionalistica e destra capitalistica, ad
opera probabilmente non solo delle tradizioni locali ma anche e soprattutto
della mediazione della Chiesa cattolica (che poi in Argentina dopo il 1975
appoggerà la giunta militare responsabile del massacro di trentamila
desaparecidos). Il 1936 spagnolo è per me gemello del 1975 argentino, e questo
dimostra che i cosiddetti cattolici "buoni" possono diventare belve feroci
ancor più dei nichilisti paganeggianti tedeschi ed ungheresi.
Mentre sono in molti a sostenere che il fascismo è un fenomeno storico al
di là della dicotomia sinistra\destra, non conosco nessuno che sostenga
seriamente che anche il comunismo è un fenomeno al di là di questa dicotomia.
Che il comunismo sia stato un fenomeno di sinistra sembra un’ovvietà assoluta.
Ma io ci andrei piano. Il comunismo dei Fronti Popolari, e cioè dopo il 1936
ed ancor più dopo il 1945, è indubbiamente un fenomeno di sinistra. Ma il
comunismo che diventa stato, e più esattamente stato-partito, finisce con
l’assumere anche altre tradizioni. La mummificazione e l’adorazione della
mummia di Lenin in URSS non è affatto un fenomeno di sinistra, ma un fenomeno
di culto religioso popolare. Il culto della personalità di Kim il Sung in
Corea e di Mao Tze-Tung in Cina non è assolutamente di sinistra, ma è di
origine confuciana (anche se secondo alcuni maoisti cinesi era piuttosto di
origine legista). La persecuzione degli omosessuali a Cuba non è sicuramente
di sinistra, ma è ispirata al machismo sudamericano. Il nazionalismo di
Ceausescu in Romania non era assolutamente di sinistra. Potrei continuare a
lungo (fino al ripescaggio della tradizione nazionale russa fatto da Stalin
dopo il 1929), ma non mi interessa in questa sede polemizzare
retrospettivamente contro il comunismo, quanto far notare un’importante
elemento storicamente trascurato. Il comunismo, infatti, quando si trasforma
da affabulazione utopica in potere politico strutturato, deve necessariamente
sorpassare i confini ristretti della sinistra (ed ovviamente anche della
destra) per aderire alle tradizioni nazionali e popolari di lunga durata, che
se ne infischiano ovviamente della recente dicotomia fra sinistra e destra.
Gli anni fra il 1945 ed il 1975, il trentennio dorato di cui parla Erich
Hobsbawm nel suo "Secolo Breve", sono stati anche gli anni d’oro della
contrapposizione dicotomica tra sinistra e destra. La polarità ha strutturato
in questo trentennio, almeno in Europa, forze politiche, passioni collettive,
programmi alternativi, identità ed appartenenze durature. Non è un caso che
coloro che si sono formati in questo trentennio sono anche i più restii ad
abbandonare questa dicotomia, per il fatto che essa struttura non solo il loro
universo simbolico, ma la loro ragione di vita. In Italia questo trentennio
vede attizzare la guerra civile simulata (e non solo) fra fascisti ed
antifascisti, guerra civile di cui approfitta il robusto estremismo di centro
democristiano. La permanenza di questa dicotomia ormai ineffettuale e
stupefacente, se pensiamo che la modernizzazione innescatasi economicamente
dopo il 1958 la svuotava in realtà di ogni vero significato politico. Ma
questa guerra di posizione era dovuta proprio al blocco del sistema politico,
che mascherava la sua staticità e la sua grande stabilità con un’apparenza
cinematografica di guerra civile simulata fra camicie rosse e camicie nere.
Non parlo qui dei servizi segreti e della stagione degli attentati, in quanto
considero quelle bombe come bombe di centro, e non come bombe figlie della
dicotomia. Ma certo questa "guerra dei trent’anni" sembrerà curiosa ai nostri
posteri, come del resto sembra già curiosa ai nostri ricordi.
A metà degli anni Settanta del Novecento cominciano ad esaurirsi
storicamente le ragioni che avevano portato un secolo prima alla dicotomia
sinistra/destra. Di questo sono ormai certissimo, e condivido le motivazioni
di chi lo dice da tempo proveniendo da "sinistra" (Gianfranco La Grassa) e da
"destra" (Marco Tarchi). Tuttavia, mi rendo conto che questa situazione
storica è oscurata da chi si ostina a vedere il ventennio 1970-1990 come un
periodo storico in cui ad un primo momento di attacco della cosiddetta
"sinistra" (1967-1979) è succeduto un vittorioso contrattacco della "destra"
(1979-1990). Dal momento che questa visione storiografica è diffusa, vale la
pena ricordarne le ragioni.
Il 1968 è l’anno internazionale della contestazione studentesca, ed appare
ovviamente come un anno di sinistra. Dipende ovviamente da come lo si
interpreta. Personalmente, in accordo con il francese Lipovetsky, tendo a
vedere globalmente il Sessantotto come un episodio cruciale della storia
dell’individualismo moderno, in cui una contestazione nichilista ed anarcoide
della morale vetero-borghese fu scambiata erroneamente (Marx avrebbe detto
"con falsa coscienza necessaria") per un attacco utopico complessivo
all’intero modo di produzione capitalistico. Balle. Più serie furono le lotte
operaia italiane (ma anche europee) del periodo 1967-1974, che non ebbero però
in nessun momento un carattere rivoluzionario antisistemico se non nelle
affabulazioni oniriche degli operaisti pazzi. Si trattava di oneste lotte
sindacali di tipo socialdemocratico di "integrazione" nella normale società
dei consumi piccolo-borghese europea. Ancora più serie furono le transizioni
di paesi fascisti o semi-fascisti (Grecia 1974, Portogallo 1974, Spagna 1975)
verso la normale democrazia pluralistica, il migliore involucro possibile che
il capitalismo possa augurarsi. Poi ci furono una serie di vittorie comuniste
vere e proprie (Vietnam, Laos e Cambogia 1975, Etiopia 1976, Afganistan 1978,
Nicaragua 1979), che portarono ad una sovraesposizione militare dell’URSS in
incipiente crisi economica. Infine ci fu il sorgere del fondamentalismo
islamico rivoluzionario (Iran 1979) che mi permette di inserire fra le forze
storiche anti-sistema. E’ del tutto normale che avvenimenti storici di questo
tipo (ed altre che non elenco per ragioni di spazio) possono essere
interpretati come episodi di un ciclo politico di "sinistra" (ma fra di essi
non cito episodi minori ridicoli, come il cosiddetto "compromesso storico"
italiano).
A questo ciclo politico di sinistra (che ora appare comunque l’ultimo
canto del cigno di una fase storica morente, e non l’alba di una nuova ondata
di lotte rivoluzionarie per il comunismo) si sostituì a partire da metà degli
anni Settanta una controffensiva politica di destra. Una data per me
importante, ed anzi decisiva, è il 1976, in cui in Cina ad un mese dalla morte
di Mao Tze-Tung la direzione politica maoista (la cosiddetta "banda dei
quattro") fu abbattuta, e la Cina iniziò un riaggiustamento economico in
direzione privatistica e capitalistica di importanza strategica. Ovviamente,
colgo l’occasione per dire che io non ho assolutamente nulla da eccepire,
anche perché ciò che qualunque persona bennata può chiedere alla grande Cina
non è certo di fare il comunismo per noi che ne siamo pateticamente incapaci
(ed era ciò che a quei tempi le chiedevano i maoisti populisti e salmodianti),
ma semplicemente di opporsi strategicamente all’impero americano. Per questo
tutto mi va bene in questo momento, compreso Attila Re degli Unni. Dal 1975 in
America Latina comincia la strategia del massacro sistematico degli oppositori
(desaparecidos non solo argentino), ed è questo un capitolo storico che viene
quasi sempre solo affrontato in chiave umanitari e giudiziaria, mentre si
tratta di una scelta storica di guerra totale da parte degli USA e dei suoi
alleati (in primo piano la Chiesa cattolica latinoamericana, connivente e
conservatrice). Dal 1975 in Africa gli USA alleati strategici del Sudafrica
dell’apartheid e con il capillare aiuto dei boia israeliani esperti in
controguerriglia, inizia una guerra strategica contro i movimenti di
liberazione africani (Angola e Mozambico in primo luogo, con l'a’poggio armato
degli assassini dell'UNITA e della RENAMO). Poi arrivano ovviamente Reagan e
la Tatcher insieme con la rivoluzione neo-liberista, che è però soltanto
l’aspetto sovrastrutturale di una più profonda modificazione della produzione
capitalistica complessiva, che il termine di post-fordismo connota in modo
economicistico e del tutto insufficiente. Si tratta infatti di qualcosa di più
radicale e profondo di semplici mutamenti tecnologico di processo e di
prodotto.
Il crollo, o meglio la dissoluzione implosiva del comunismo storico
novecentesco non può essere a mio avviso interpretata come una semplice
vittoria della destra contro la sinistra. In Occidente tutto il cato
intellettuale corrotto e stravolto vede con vero giubilo il crollo dell’URSS,
senza rendersi conto che il vero problema tragico non è la perdita del potere
da parte di burocratici cinici e corrotti (e comunque velocemente riciclati in
intermediari economici della finanza mafiosa interna ed esterna), ma lo
sprofondamento nella miseria di massa di milioni di sudditi privati di
rappresentanza politica e soprattutto il venir meno di un contraltare
strategico all’impero americano armato. Ho fatto notare in un paragrafo
precedente che personalmente non considero il comunismo storico novecentesco
(nel senso di socialismo reale statualmente garantito) come un fenomeno di
sinistra, ma come un dato storico che nasce a sinistra geneticamente, ma
appena preso il potere deve allargare la sua base ideologica oltre i confini
della sinistra stessa (nazionalismo in URSS, confucianesimo in Cina,
bolivarismo a Cuba, eccetera).
Ritengo che oggi l’avversario principale dei popoli del mondo sia l’impero
americano potentemente armato, che non trova purtroppo alcun contrappeso
economico, politico, culturale, militare e geopolitico sufficiente. In questo
non c’è da parte mia nessun antiamericanismo, anzi. Amo la cultura americana e
la lingua inglese, ed in generale non penso che esistano popoli cattivi. Mi
ripugna il sionismo, ma mi ripugna anche l’antisemitismo di ogni tipo. Essere
contro Hitler non significa essere contro i tedeschi, così come essere contro
Pol Pot non significa essere contro il popolo cambogiano. Non credo
assolutamente che la categoria scientifica da cui partire per interpretare lo
stato attuale del mondo sia quella di globalizzazione neoliberista, come
ritiene Vittorio Agnoletto, ma resti quella di imperialismo, nel significato
datole soprattutto nei più recenti scritti di Gianfranco La Grassa. Ma
l’attuale sinistra non è più in grado di capire cosa sta accadendo, ed è
allora necessario ristrutturare radicalmente il nostro modo di vedere le cose.
Mi avvio alla conclusione. Tuttavia, il lettore ha diritto ad una
conclusione chiara ed univoca da parte mia, in cui dica chiaramente perché la
dicotomia è obsoleta, e perché siamo giunti all’esaurimento ed al superamento
di una tradizione che fissava la contrapposizione di identità e appartenenze
rigide. In estrema sintesi, si tratta di due punti essenziali intorno a cui il
resto gira intorno: il problema del comunitarismo moderno come filosofia
politica migliore dell’individualismo liberale, e la difesa di uno
stato-nazione indipendente concepito in modo nazionalitario e non
nazionalista, razzista ed imperialista.
Esaminiamo brevemente questi punti programmatici, che sono appunto al di
là della dicotomia tra sinistra e destra. In primo luogo, il comunitarismo
moderno è oggi in grado, a mio avviso, di correggere radicalmente l’errore
mortale del vecchio comunitarismo ottocentesco e primonovecentesco, e cioè
l’organicismo (in altre parole, la "Gemeinschaft" contro la "Gesellschaft").
Oggi il comunitarismo, correttamente inteso ed elaborato, è in grado di
accogliere le buone ragioni del migliore individualismo, e cioè la tolleranza
degli stili di vita minoritari, il diritto alla libera espressione artistica,
filosofica e religiosa, eccetera. Io penso sinceramente che il migliore
comunitarismo può accogliere le lezioni filosofiche di Spinoza e di Marx. Il
terreno dell’individualismo, invece, è oggi il terreno filosofico comune
dell’incontro del nuovo capitalismo globalizzato dei consumi mirati (ed
appunto "individualizzati" e non più fordisti e serializzati) con la sinistra
snob e politicamente corretta. Potrei fare mille esempi tratti dalla
quotidianità, ma credo che il concetto sia già chiaro abbastanza. In secondo
luogo, lo stato nazionale fondato su di una democrazia nazionalitaria (e
rimando qui alle analisi svolte da parecchi anni dalla rivista "Indipendenza",
cui onoro di collaborare) non ha più nulla a che vedere con i vecchi
stati-nazione imperialisti, che Toni Negri continua a scambiare in pittoresca
e irritante confusione. Oggi questo Stato-nazione è soprattutto un fattore di
resistenza all’impero americano. Per questo Chàvez è buono in Venezuela.
Chevènement è buono in Francia. La giunta militare della Birmania,
sputacchiata da tutti i giornalisti di sinistra è ottima, e forse risparmierà
al suo popolo buddista di diventare un bordello per pedofili europei e
giapponesi come la vicina Tailandia. La Cina è buona, finché resta forte ed
indipendente. E potremo continuare, ma il lettore avrà già perfettamente
capito. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale di 180°, ed essa
purtroppo non verrà presto. So perfettamente che agli occhi di un sinistro
politicamente corretto quanto ho scritto non è inglese o tedesco, cioè in
parte comprensibile, ma armeno e turco cioè completamente incomprensibile. Non
importa. Chi ha buone ragioni deve andare avanti. E noi sappiamo che le nostre
ragioni sono ottime.