Il passato, il presente e il futuro.
Note su tradizione, gerarchia, tecnica, differenza e universalismo.
1. Questo è il terzo e ultimo contributo di una breve e concisa trilogia, che
ha come scopo il disegno di un sommario repertorio per una discussione pubblica
(ancora da fare) volta al superamento di pregiudizi ideologici radicati ed
ancora fortissimi, sia pure di una forza sterile, passiva e inerziale. Si
tratta in realtà di un unico discorso diviso in tre parti.
Nel primo contributo (cfr. Comunitarismo e comunismo, in “Comunitarismo”,
ottobre 2002) ho cercato di dimostrare che il comunitarismo e il comunismo sono
due nozioni che hanno la stessa radice semantica e concettuale (da greco antico
koinonia), e che no ha dunque alcun senso farli diventare bandiere ideologiche
per la dicotomia oppositiva Sinistra/Destra.
Nel secondo contributo (cfr. Utopia e libertà, in “Comunitarismo”, marzo 2003)
ho cercato di dimostrare che l’idea di comunità (pacificata e solidale) sta
alla base dei progetti utopici moderni, e che gli elementi autoritari e
prescrittivi di questi progetti possono essere corretti (senza che si butti via
il bambino della solidarietà con l’acqua sporca del conformismo prescrittivo)
nell’orizzonte descritto dalla grande filosofia classica tedesca (1770-1830).
In questo terzo ed ultimo contributo tocco il problema forse più delicato,
quello delle premesse teoriche (quasi sempre implicite ed inavvertite) con cui
si pensa spesso oggi il passato, il presente ed il futuro.
2. In estrema sintesi, ed a lato del discorso di questo contributo, ritengo che
le tradizioni culturali ed ideologiche di Destra e di Sinistra debbano “fare i
conti” che non hanno ancora fatto. Elenco solo quattro temi, anche se so molto
bene che ce ne sono anche altri.
Per quanto riguarda la tradizione di destra, ritengo che vi siano due punti
delicati da discutere. Primo, il riferimento a quell’ideale di “ribellismo
aristocratico” che ne segnala spesso il profilo, che ha spesso (ma non sempre)
dietro i due concetti di Tradizione e di Gerarchia. Secondo, il ripensamento
autonomo ed il bilancio storico sugli anni 1918-1945, e sul nazismo tedesco in
particolare.
Per quanto riguarda la tradizione di sinistra, anche qui mi limiterò a due
punti fondamentali. Primo, quello che io chiamo il Presupposto
dell’Autosufficienza, per cui la sinistra ritiene di rappresentare a priori la
totalità del progresso e dell’universalismo. Si tratta di una illusione
ideologica infondata, ma sino a quando non se ne metteranno allo scoperto i
presupposti impliciti sarà impossibile superare questa presuntuosa e spesso
ridicola illusione. Secondo, il rapporto fra identità di sinistra e questione
del marxismo teorico (filosofico e scientifico). Il secondo elemento viene
spesso concepito come appendice sofisticata e colta del primo, laddove in
realtà si tratta di qualcosa di fortemente distinto.
3. Il discorso sarebbe lungo, ma può essere compendiato in tre parti distinte
anche se collegate.
In primo luogo, può essere utile una riflessione sui due concetti di Tradizione
e di Gerarchia. Si tratta di nozioni che l’identità culturale di destra ha
spesso rivendicato come costitutive del proprio profilo, ma che si prestano a
metamorfosi curiose e talvolta inaspettate. Per brevità, mi limiterò a due sole
fonti, e cioè René Guénon (1886-1951) e Julius Evola (1898-1974). Guénon e
Evola appartengono a generazioni post-nicciane, in cui è già pienamente
visibile quell’“ambiente tecnico” in cui si muove l’uomo contemporaneo. Senza
fare i conti con le ambiguità non risolte delle loro concezioni è impossibile
congedarsi dai fraintendimenti vitali cui esse danno luogo.
In secondo luogo, intendo esaminare almeno due punti del pensiero di Alain de
Benoist che meritano di essere messi in rilievo. Il primo, che considero però
il meno importante, è quello della legittimità del paragone storico fra
comunismo e nazismo. Il secondo, che è poi quello più importanti, consiste nel
rifiuto dell’universalismo in nome di un radicale diritto alla differenza,
rifiuto che mi sembra problematico. In sintesi, mi sembra che de Benoist voglia
combattere contro il “pensiero unico” del conformismo moderno, ed infatti lo fa
in modo quasi sempre molto brillante, ma poi finisce di fatto con il recepirne
due pilastri, e cioè la teoria del totalitarismo (comunismo-nazismo) e la
teoria del relativismo.
In terzo luogo, per finire, intendo ritornare ancora una volta sui temi della
sinistra e del marxismo, utilizzando stimoli provenienti da un classico lavoro
di Augusto Del Noce e di un recente lavoro di Ermanno Bencivenga, per giungere
però a conclusioni personali originali.
4. Iniziamo dall’Illuminismo. Si dirà che così prendiamo la rincorsa troppo
lunga, ma non lo credo. Senza chiarire preliminarmente il nostro concetto di
Illuminismo (non solo storico, ma anche e soprattutto teorico) ci si lascia
sempre alle spalle delicate ambiguità non chiarite.
Vi sono due grandi immagini prevalenti di Illuminismo da cui a mio avviso è
bene prendere subito le distanze. La prima immagine riduce l’Illuminismo a
repertorio del pensiero borghese-capitalistico, relegando ai suoi margini ogni
corrente che sembra “estemistica” e secondaria. In questo modo, ad esempio ( e
l’ho già ampiamente ricordato) il pensiero utopico-comunitario è così
marginalizzato e reso poco visibile, e diventa in questo modo invisibile anche
la successiva “correzione” liberale (a mio avviso legittima) della filosofia
classica tedesca, che mantiene l’orizzonte della comunità (contro
l’individualismo inglese che invece l’espelle dalla statualità e la relega solo
nella dimensione religiosa), ma integra questo orizzonte con una filosofia
dell’autocoscienza libera, e cioè della libertà sostanziale, e non solo
dell’arbitrio relativistico delle scelte.
La seconda immagine, speculare alla prima, è invece quella che vede
nell’Illuminismo un processo di pericolosa scristianizzazione , e cioè di una
malattia moderna da cui non ci siamo ancora ripresi, e non ci riprenderemo mai,
finché il pensiero cosiddetto “laico” non verrà messo negli archivi della
storia. In Italia resta esemplare il libro del prete cattolico Cornelio Fabro.
La doppia e speculare immagine dell’Illuminismo come pensiero del capitalismo
e/o come pensiero della scristianizzazione non è a mio avviso per nulla
soddisfacente. È bene invece averne un’immagine più dinamica e più dialettica.
5. L’Illuminismo è innanzitutto pensiero critico a 180 gradi. In quanto
pensiero critico a 180 gradi copre un arco che va dal riformismo aristocratico
di Montesquieu al codice comunista della natura di Morelly. È interessante che
questi due estremi in un certo tempo si uniscano, perché Karl Marx ha imparato
moltissimo da Montesquieu per l’edificazione della sua scienza della storia
(come del resto a suo tempo Louis Althusser fece correttamente notare), e nello
stesso tempo la sua nozione di comunismo trova radici anche in Morelly, anche
se ovviamente la teoria dei bisogni naturali dedotti dalla natura viene
sostituita da una teoria dei bisogni artificiali ma ricchi evocati dallo
sviluppo delle forze produttive capitalistiche.
Ho qui citato volutamente i due “estremi” di Montesquieu e di Morelly come
fonti lontane di Marx per “depoliticizzare” il tema delicato delle fonti
filosofiche indirette. Non è un caso che l’elemento “scientifico” della teoria
di Marx trovi le sue radici in un pensatore che non intendeva neppure
appoggiare la presa di potere della borghesia, ma addirittura si limitava ad
una sorta di “riformismo signorile”, mentre il suo elemento “utopistico” deriva
invece, sia pure indirettamente, da pensatori comunitari, egualitari e
pienamente “comunisti”.
6. In generale il cosiddetto “pensiero di destra” viene fatto iniziare con la
meditata e consapevole reazione alla rivoluzione francese del 1789 (Burke, de
Maistre, i romantici conservatori tedeschi, ecc.). In questo modo, il pensiero
di destra è di fatto identificato con il pensiero della restaurazione, anche se
le opere fondamentali di Burke e di de Maistre sono anteriori al 1815.
Oggi la tendenza storiografica è alla retrodatazione. Ricorderò nella nota
bibliografica finale i lavori di Didier Nassau e di Darrin Mc Mahor, che
retrodatano correttamente al periodo storico 1740-1780 la nascita dei temi
principali del pensiero conservatore e tradizionalista. Ci fu un movimento di
resistenza ai Lumi estremamente ampio, articolato e pienamente “ideologico”,
che individuava i propri nemici (il razionalismo, l’individualismo, il
materialismo, ecc.) con una certa chiarezza.
Certo, questo movimento era destinato alla sconfitta, perché di fatto difendeva
una causa indifendibile, e cioè il mantenimento e la riproduzione di una
società del privilegio signorile. Si trattava di una gerarchia indifendibile,
che collocava in una tradizione eterna ciò che era palesemente e
incontestabilmente frutto di un processo storico preciso.
7. Dal 1789 al 1848, e cioè nel corso del grande sessantennio pienamente
“moderno”, il movimento culturale reazionario documentato da Massau e da Mac
Mahon dà finalmente luogo ad una vera e propria cultura di destra, che prima
c’era già ma era soltanto implicita. Si dice generalmente che questo avviene
perché sono finalmente visibili ad occhio nudo le due grandi forze storiche e
sociali antitradizionalistiche, e cioè la protoborghesia capitalistica ed il
primo proletariato artigiano ed operaio. Si dice questo, ma dicendo questo non
si dice però tutto, ed a mio avviso non si dice nemmeno l’essenziale.
E l’essenziale sta invece in ciò, che il pensiero della tradizione è costretto
ad assumere, spesso contro voglia, un carattere tecnicamente reazionario, nel
senso che è costretto a reagire , e chi reagisce è obbligato a pensare di
riflesso, di rimbalzo ed in seconda battuta, ed in questo modo (come a suo
tempo ha detto molto bene Martin Heidegger) è stato costretto a “definirsi” in
modo derivato, secondario e non primario (come del resto gran parte
dell’antifascismo dopo il 1945, che era costretto a pensare se stesso a partire
dal suo nemico, e cioè da un fascismo nel frattempo storicamente tramontato).
Dal 1789 al 1848 il pensiero di destra, e cioè il pensiero della conservazione,
dell’ordine, della tradizione, della gerarchia, ecc., non dice generalmente che
ciò che afferma è bene, ma è il male minore rispetto agli sconvolgimenti cui
darebbe luogo il pensiero rivoluzionario se fosse applicato e realizzato.
Esemplare è in proposito de Maistre. De Maistre è costretto a difendere persino
il boia feudale ed i processi dell’inquisizione, che sarebbero razionalmente
indifendibili, con l’argomento per cui essi sono comunque meno peggio (ed il
meno peggio è il meglio storicamente possibile) delle sanguinose guerre
napoleoniche, dei processi terroristici dei giacobini, ecc..
Faccio notare, di passaggio, che l’atteggiamento di de Maistre verso il periodo
1789-1815 è analogo al modo in cui il pensiero politicamente corretto di oggi
affronta il comunismo storico novecentesco (1917-1991). Così come da de Maistre
dipendeva la società signorile ed aristocratica come il “meno peggio” rispetto
al totalitarismo giacobino e rivoluzionario, nello stesso modo i cantori del
mondo capitalistico di oggi (dalla Arendt a Furet, da Dahrendorf a Habermas,
ecc.) lo difendono in nome del “meno peggio” rispetto al delirio utopistico dei
rivoluzionari.
Può sembrare curioso dirlo, ma lo dirò lo stesso. È assurdo oggi andare in
cerca con il lanternino di una “cultura di destra”, scomodando Sombart ed
Evola, Tarchi e de Benoist, ecc.. Se la cultura di destra nasce come cultura
del “meno peggio” e quindi come “apologetica indiretta” di difetti considerati
però meno gravi di altri, allora la cultura di destra oggi è semplicemente la
cultura maggioritaria di oggi, che si presenta falsamente come cultura laica di
centro-sinistra. Il capitalismo come “meno peggio” di Habermas è assolutamente
omogeneo al feudalesimo come “meno peggio” di de Maistre.
8. Il pensatore che rompe esplicitamente con il paradigma del “meno peggio” di
de Maistre (per cui il feudalesimo deve essere preferito al mondo borghese
moderno perché “meno peggio”) è Nietzsche. Si tratta di un aspetto di un
aspetto del pensiero di Nietzsche su cui generalmente si riflette troppo poco.
Nietzsche vuole certamente una Gerarchia, ma si rifiuta di dedurla e di
legittimarla da una Tradizione. È questo il punto essenziale da comprendere.
È noto che oggi il termine nicciano Ubermensch viene generalmente tradotto non
più come Superuomo ma come Oltreuomo. In questo modo si vuole sottolineare che
Nietzsche deve essere interpretato non come profeta della diseguaglianza e
della gerarchia, ma come anticipatore dell’ermeneutica e come sostenitore del
superamento delle “grandi narrazioni” metafisiche prescrittive ed autoritarie
sia di tipo religioso sia di tipo “marxista”. Non voglio entrare qui nel merito
di questo nodo di problemi. Ma constato che qualunque approccio filologico
serio a Nietzsche non può non constatare che Nietzsche ha una concezione
strutturalmente gerarchica della società, e che gli Ubermenschen, comunque li
vogliamo rendere in lingua italiana, devono dirigere politicamente la società.
Secondo il corretto approccio di Domenico Losurdo, questo è il punto di vista
di un ribelle aristocratico (e non, aggiungo io, di un rivoluzionario
democratico come Marx). Ma questo ribelle aristocratico non fa riferimento ad
una Tradizione, ma tratta anzi ciò che generalmente è considerato tradizione
come decadenza. La decadenza non è dunque l’abbandono di una tradizione (come
in Evola) e neppure il momento finale di un ciclo temporale (come in Guénon),
ma è il momento di accelerazione di un decorso dell’intera tradizione
occidentale. Questa è una novità rispetto sia a chi è venuto prima di Nietzsche
(Burke e de Maistre) sia a chi è venuto dopo (Evola e Guénon).
In estrema sintesi, la morte di Dio (da non confondersi con la materialistica e
razionalistica inesistenza di Dio) produce la situazione storica e spirituale
del nichilismo. A questo nichilismo occorre reagire, e la reazione contro il
nichilismo è la sola rivoluzione possibile. L’identità fra reazione (al
nichilismo) e rivoluzione (contro il nichilismo) connota il superuomo-oltreuomo
e lo differenzia da altre risposte politico-antropologiche possibili
(l’eremita, l’uomo superiore, l’ultimo uomo). La formula dell’identità nicciana
fra reazione e rivoluzione è allora la seguente: accettare l’orizzonte
dell’eterno ritorno del sempre uguale e vivere in questo orizzonte la volontà
di potenza.
9. Ho ricordato intenzionalmente Nietzsche per sottolineare ancora una volta
che questo grande profeta ateo respinge la soluzione abituale del pensiero di
destra , e cioè l’apologetica indiretta ed il legame fra tradizione e gerarchia.
La gerarchia è necessaria, ma deve fondarsi appunto sul rifiuto della
tradizione (greco-socratica, cristiano-paolina, democratico-russoviana, ecc.).
Tutto questo, di per sé, non è affatto “irrazionalistico”, come stabilisce
frettolosamente un’etichettatura consolidata. Si tratta di una interpretazione
possibile del “razionalismo” occidentale. Nietzsche porta argomenti, e robusti
argomenti, contro tutti i sostenitori di un punto di vista contrario.
Esattamente quello che smetterà di fare il pensiero reazionario post-nicciano,
da Evola a Guénon. Costoro non porteranno più argomenti. La Tradizione di Evola
ed il Kali Yuga indiano di Guénon non sono più argomenti. Una sommaria
riflessione aiuterà il lettore a capire quello che voglio dire.
Tutte le tradizioni iniziano e si costituiscono progressivamente nel tempo
storico, anche e soprattutto quando fingono di essere all’origine del tempo.
L’origine è un mito irrazionalistico non difendibile con argomenti, mentre la
tradizione è un robusto insieme di abitudini , costumi, leggi, ecc.. I
pensatori tradizionalisti si trovano allora sempre di fronte ad un dilemma
irrisolvibile. Da un lato brandiscono la tradizione contro i progetti
rivoluzionari criticati (spesso giustamente) come astratti ed
intellettualistici (tipica la critica di Burke alla rivoluzione francese).
Dall’altro non sanno mai dove porre l’origine di questa tradizione, che quando
nacque non era affatto “tradizionale”, ma anzi aveva già certamente rotto con
qualcosa di precedente.
Da questa ambiguità non è possibile uscire senza riconoscerla come tale e senza
farne oggetto di analisi genealogica. Ma è appunto questo che i pensatori
“tradizionalisti” non possono e non vogliono fare.
Tutte le gerarchie rispondono sempre a problemi di riproduzione funzionale
globale di una comunità e di una società. È certo possibile pensare una società
perfettamente egualitaria, ma allora la sua riproduzione deve essere concepita
come un “oggetto semplice”, alla portata di ognuno dei suoi possibili membri.
Una comunità di raccoglitori, cacciatori e pescatori in effetti può essere
pensata (e praticata) come comunità non gerarchica. La divisione sociale del
lavoro (raddoppiata nel capitalismo da una successiva divisione tecnica del
lavoro stesso) è il primo potente fattore genealogico della creazione di
gerarchie. In origine esse sono funzionali, poi diventano strutturali e vengono
“ricoperte” ideologicamente con teorie di tipo religioso e filosofico. Socrate
e Protagora danno risposte opposte al tema del sapere politico che presiede
alla riproduzione generale della società. Protagora sostiene che esso è alla
portata di tutti i cittadini, e che non è dunque un sapere specialistico.
Socrate (o almeno il Socrate filtrato da Platone) sostiene invece che il sapere
politico non è di tutti, ma solo di pochi, e questi pochi debbono sottoporsi ad
una specifica educazione (paideia) che poi Platone svilupperà nella sua nota
Repubblica.
A mio avviso Protagora imposta correttamente la questione, ed è dunque lui ad
avere ragione nell’essenziale, non Socrate. Ma Socrate ha ragione quando
sostiene che solo una paideia politica può immunizzare la polis dalle tirannie,
dalle oligarchie e dalle demagogie dispotiche. A più di duemila anni di
distanza, possiamo attribuire a Protagora ed a Socrate un punteggio di parità,
di cinquanta e cinquanta.
10. La diseguaglianza gerarchica di Platone è funzionale, ed è strutturata
sulle tre funzioni dei governanti (i filosofi-re), dei custodi o guerrieri ed
infine dei lavoratori. I pensatori disegualitari post-nicciani come Evola hanno
difficoltà enormi a dare una fondazione razionalistica alla diseguaglianza, e
per questo devono inventarsi una tradizione largamente arbitraria. Tuttavia, il
loro interesse non sta tanto negli argomenti contro il socialismo ed il comunismo
(che devono spesso ricalcare gli argomenti del liberalismo e del liberismo
disegualitari), quanto nella tesi per cui lo stesso spirito del capitalismo e
“egualitario”, in quanto deve egualizzare tutti livellandoli al solo parametro
della merce e del denaro. Il denaro, infatti, dà vita ad una società fortemente
inegualitaria, ma di per sé è un principio egualizzante e livellante. Ed
infatti l’americanismo odierno, e cioè la religione imperiale americana
attuale, compendia il massimo di diseguaglianza sociale e di eguagliamento
livellatore nel solo parametro del denaro.
Questo la cosiddetta cultura di destra lo ha spesso capito più della
tradizionale cultura di sinistra. Perché avere paura ad ammetterlo? Tuttavia,
il problema principale non sta ancora qui.
11. Il problema principale, infatti, sta nella questione della Tecnica, e nel
corretto modo di comprenderla. Qui sta il terreno comune in cui le tradizioni
di destra e di sinistra sono costrette a incontrarsi. Il tema della tecnica,
come del resto quello della morte e della felicità, non conosce ridicole
appartenenze identitarie di “destra” e di “sinistra”.
Vi è un curioso libro di Michela Nacci che mescola correttamente assieme tutti
i critici della tecnica capitalistica, dalla sinistra (Bloch, Benjamin,
Marcuse) alla destra (Guénon, Evola, ecc.). La Nacci è probabilmente mossa da
uno spirito modernizzante e favorevole alla tecnica moderna, e perciò ritiene
di poter screditare e ridicolizzare il pensiero critico mostrando che in esso
confluiscono tutti gli estremisti di destra e di sinistra. Il risultato che la
Nacci ottiene è a mio avviso assolutamente opposto. Essa di fatto dimostra che
questo terreno comune di critica, se è legittimo (la Nacci pensa probabilmente
che non lo sia, ma io invece penso che lo sia, eccome!), fa saltare le
differenziazioni identitarie ed i parametri idealtipici che vengono messi come
(artificiali) barriere fra i due poli (Progresso/Conservazione, ecc.). Volendo
mettere alla berlina una problematica, la Nacci ottiene appunto il risultato
opposto, quella di legittimarla integralmente.
12. Cercherò di impostare qui nei suoi termini più elementari il problema
filosofico della cosiddetta Tecnica. Come è noto, con questo termine non si
intende la semplice applicazione tecnologica delle scoperte scientifiche, e
neppure l’insieme merceologico degli strumenti inventati a partire dal Seicento
in poi. Con questo termine si intende connotare un gigantesco apparato anonimo
e impersonale, che si ritiene (a torto o a ragione, vedremo poi) sia sfuggito
dal controllo delle intenzioni applicative dei suoi stessi creatori. Come
Frankenstein, la Tecnica è sinonimo di Fuori Controllo. I filosofi
professionali cercano di complicare inverosimilmente le cose, come fanno
peraltro tutti i tecnici. Ma la questione è accessibile al senso comune di chi
non è ancora del tutto rincoglionito. La Tecnica è come una bicicletta che
prende velocità in una discesa, i cui freni esistono ma sono debolissimi, per
cui le ganasce riescono ancora a stringere leggermente i tubolari quando si è
in rettilineo, ma il terrorizzato ciclista non sa che cosa capiterà alla prima
curva.
Questo è il problema della Tecnica. A questo punto, usando il linguaggio del
medico Ippocrate, vediamo quale sia prima la diagnosi, poi la prognosi ed
infine la terapia.
Si è visto come la diagnosi (Tecnica = Fuori controllo) sia comune ai pensatori
di destra, di centro e di sinistra. E questo non è un caso, perché
l’intelligenza è ben distribuita fra la gente, così come a suo tempo
correttamente sostenne il greco Protagora. Vi sono ovviamente anche diagnosi
diverse, ma a mio avviso tutte inferiori. Una prima diagnosi afferma che
certamente lo sviluppo tecnologico comporta possibili pericoli, ma questi
pericoli verranno fronteggiati dallo sviluppo tecnologico stesso. Si tratta di
una “scommessa” al cui confronto quella di Pascal fa la sua bella figura. Una
seconda diagnosi afferma che il mondo moderno non è metafisicamente
caratterizzato dalla Tecnica, ma è sociologicamente contraddistinto dalla polarità
oppositiva fra Borghesia e Proletariato, di cui un termine è il male e l’altro
è il bene. Questa polarità, a cui viene ridotto dai superficiali l’intero
marxismo, è però infinitamente più astratta della Tecnica stessa, anche se a
prima vista sembra più concreta, perché è possibile quantificare i due gruppi,
mettendo da una parte tutti i salariati del mondo (rigidi, flessibili, precari,
ben pagati, mal pagati, specializzati e non, ecc.) e dall’altra tutti i
cosiddetti proprietari privati dei mezzi di produzione. Gli uni sarebbero i
proletari, gli altri sarebbero i borghesi. Chi non si è ancora reso conto che
questo criterio dicotomico è come una rete dalle magli larghe che non riesce a
prendere i pesci è a mio avviso al di là di ogni pacata argomentazione
razionale, e soprattutto al di là di ogni bilancio storico sensato dei secoli
Ottocento e Novecento.
La diagnosi tecnica è allora di fatto la meno peggio sul mercato, perché
individua almeno il Fatto del Fuori Controllo (FFC), laddove il progressismo
tecnologico e la riproposizione dell’eterno teatro Borghesi Contro Proletari
(BCP) scorrono molto più a lato degli avvenimenti reali.
Alla diagnosi tecnica, una volta che la si sia capita bene e non la si sia
frettolosamente rimossa (esemplare in questa rimozione il defunto Lucio
Colletti), si possono fare diverse prognosi. La prognosi di Heidegger, per cui
di fronte all’esito tecnico della lunga storia della metafisica occidentale
(più esattamente, della consumazione della lunga storia della metafisica occidentale
in tecnica planetaria, oggi diremmo “globalizzata”) solo un dio ormai potrebbe
ancora salvarci, non è affatto una prognosi infausta come sembrerebbe. Il
termine sapienzale “solo un dio può ancora salvarci” può infatti essere
tradotto in linguaggio filosofico razionalistico in questo modo: “solo un
radicale riorientamento gestaltico, che può avvenire solo sulla base di
esperienze globali e non di argomentazioni colloquiali, può indurci a cambiare
strada”. Come si vede, una possibilità all’umanità Heidegger la dà ancora.
Anche la diagnosi di Günther Anders lascia una piccola speranza. Anders ritiene
infatti che l’antiquatezza umana e lo scarto rispetto alla tecnica sia una
risorsa e non un difetto, per cui dovrebbe essere assunta e rivendicata come
qualcosa di positivo e non essere oggetto di vergogna come un ritardo o una
inadeguatezza. In estrema sintesi, sia la diagnosi di Heidegger sia quella di
Anders convergono nell’“orientamento gestaltico”, e lasciano dunque un minimo
di speranza.
Le prognosi che lasciano ancora un minimo di speranza implicano sempre una
possibile terapia. La terapia, tuttavia, non potrà venire mai dai
“tranquillizzatori professionali”, che apparentemente assumono l’orizzonte
della diagnosi di Heidegger (quella di Anders non la assume fino ad ora quasi
nessuno, perché non è abbastanza “politicamente corretta” per i tartufi
futuristi di sinistra), per poi darne subito una versione tranquillizzante. Dio
è morto, Marx è morto, ma ci si può sentire bene lo stesso con un buon reddito
di professore universitario ed una sufficiente assicurazione medica. Fra questi
heideggeriani tranquillizzanti e tranquillizzatori, in Italia, mi piace citare
Gianni Vattimo ed Umberto Galimberti. La tecnica è indubbiamente inquietante,
misteriosa e terribile, ma noi possiamo salvarci all’ombra dell’Inserto Donna
di Repubblica e della chiacchiera del ceto medio acculturato (Umberto
Galimberti) oppure all’ombra della civile conversazione di scettici liberali
che si sono lasciati alle spalle ogni concezione veritativa del dialogo
filosofico (Gianni Vattimo).
13. Chiudiamo su questo punto. Evola e Guénon non ci aiutano ad affrontare il
problema (heideggeriano e andersiano) della Tecnica, perché fuggono indietro
verso una mitica (ed in realtà inesistente) Tradizione, e perché la fede nel
ciclo indiano del tempo è solo una curiosità esotica per salotti di illuminati
con un buon conto in banca. Neppure il marxismo sociologistico ed
economicistico, ovviamente, ci può aiutare. Ma da questo ne deriva che ci vuole
proprio un nuovo pensiero. Anzi, un Nuovo Pensiero.
14. Se si pone il problema di un Nuovo Pensiero, è bene interrogare Alain de
Benoist, che da decenni si impegna in questa direzione. Io ho molta stima per
de Benoist, e sento nei suoi confronti anche una grande amicizia personale. So
bene che in Italia delle Sentinelle dell’Antifascismo Eterno (SAE), come Guigo
Caldiron e Francesco Germinario, lo hanno individuato come una sorta di demone
dell’infiltrazione nel campo sacro della sinistra. Alcune cose che dicono
Caldiron e Germinario sono certo degne di attenzione, ma nell’essenziale questa
strategia di demonizzazione mi sembra ridicola, e si comporta come il cattivo
cacciatore inesperto della doppietta, che anziché sparare sulla selvaggina
spara sulle oche del contadino.
Chi è il cinico baffetto che nel 1999 ha legittimato in Italia una guerra
illegale e criminale al di fuori dell’ONU? Forse de
Benoist? Ma neppure
per sogno. È stato il pulcino togliattiano nichilista Massimo D’Alema. Chi ha
sempre urlato in vario modo per i bombardamenti contro governi inermi? È stato
forse de Benoist? No, è stata la variopinta feccia sessantottina
internazionale, da André Glücksmann a Wolf Biermann, da Adriano Sofri ad Enrico
Deaglio. Se Caldiron e Germinario prestassero un attimo attenzione a questa
“anomalia”, anziché censurarla (opportunismo o distrazione? non lo so),
porterebbero certamente un sano contributo all’individuazione del profilo di
quella che è oggi (e non ieri) la Nuova Destra.
Ma non lo faranno mai. Tuttavia, non per questo de Benoist (che pure vale mille
volte di più di questa feccia) ha ragione. Anzi, in molte cose ritengo che
abbia torto. Qui, per brevità, mi limiterò soltanto a due punti principali.
15. Alain de Benoist vuole contrapporsi fortemente al pensiero unico imperiale
di oggi. In effetti riesce a farlo. Ad esempio, individua correttamente il
“nemico principale” di qualsiasi identità non solo europea ma genericamente
umana. Questo nemico principale, ovviamente, non è l’Islam, la Cina o il
neocomunismo (peraltro in stato comatoso), ma è l’americanismo. Non certo il
popolo americano, la cultura americana, il romanzo americano, i bambini, le
donne e gli uomini americani, ma l’americanismo, cioè l’ideologia imperiale
della missione speciale e del destino manifesto, un’ideologia di tipo
paranazista (il termine “nazista” è di Noam Chomsky, in “La Stampa”,
14.3.2003), un impasto culturale nutrito di protestantesimo fondamentalista e
di sionismo espansionista e razzista.
Questo de Benoist lo capisce, mentre la feccia sessantottina si è arruolata nei
corpi speciali dell’impero americano, di cui teorizza anche il carattere
provvidenziale, come dei Polibio strafatti. Ma vi sono due punti su cui è
necessario richiamare l’attenzione.
16. La prima questione è quella della cosiddetta comparabilità fra comunismo e
nazismo, e cioè fra Hitler e Stalin, visti come i due grandi despoti mostruosi
e “metastorici” del Novecento. Ho usato l’espressione “metastorici” perché la
strategia culturale fondamentale dell’impero mondiale americano è la
destoricizzazione e la conseguente demonizzazione destoricizzata e
destoricizzante. L’impero americano si è dato una autolegittimazione religiosa
(la Missione Speciale, il Destino Manifesto, l’Esportazione della Libertà,
ecc.), una autolegittimazione che si sottrae volutamente a qualunque fondamento
razionale e dialogico. Hitler e Stalin diventano così personaggi metastorici,
incarnazione empirica di forze diaboliche e malefiche. Se però si scava con
attenzione sotto a questo processo di destoricizzazione demonizzante, si finirà
con l’individuare il nucleo non tanto e non solo ne comunismo e nel nazismo, ma
nella pretesa della politica di determinare l’economia attraverso l’ideologia e
la mobilitazione ideologica delle masse.
Il lettore non deve ovviamente fraintendermi, ma comprendere bene quanto sta
leggendo. Chi scrive è un critico inesorabile sia di Hitler che di Stalin, non
apprezza nessuna strategia di giustificazione per quanto indiretta e contorta,
e sostiene un punto di vista di condanna inappellabile, sia pure ovviamente
differenziata. Ma la condanna deve venire dopo un procedimento storiografico
razionale, non dopo una sorta di demonizzazione metastorica e parareligiosa.
Questa demonizzazione è invece un ingrediente del “pensiero unico” dell’impero
americano, che è oggi l’avversario principale dei popoli del mondo.
Alain de Benoist non sembra pensarla così. Una sua opera recente (che segnalerò
nella nota bibliografica in fondo a questo testo) è dedicata proprio alla
legittimazione della comparabilità fra nazismo e comunismo.
Questo richiede un breve commento.
17. Vediamo prima i grandi argomenti di chi nega ogni comparabilità e si
indigna se questo paragone viene fatto. Un primo argomento afferma che quanto
ha fatto Hitler, e cioè Auschwitz e lo sterminio degli ebrei, è un unicum della
storia che non può essere paragonato a nient’altro, e che dunque ogni
comparazione finirebbe con il far perdere di vista questa unicità. Un secondo
argomento sostiene che Stalin era mosso da una ideologia universalista, sia
pure fraintesa e deviata, mentre Hitler era invece programmaticamente portatore
di un programma razzista e particolarista. Vi sono molti altri argomenti, ma a
mio avviso tutti girano intorno a questi due.
Entrambi gli argomenti sono abbastanza deboli. Auschwitz è certamente un unicum
nelle modalità concrete ed irripetibili con cui è stato perseguito, e bisogna
tenersi lontani dai negazionisti che si arrampicano sugli specchi per oscurare
un insieme di eventi svoltisi fra il 1933 al 1945 che sono invece ormai
abbastanza noti ed anche ricostruibili con esattezza. Il fatto che il sionismo
utilizzi l’Olocausto ebraico (che è veramente avvenuto) per legittimare il suo
progetto di genocidio del popolo palestinese è certamente sgradevole, ma non
cambia di un grammo la realtà, e cioè che il genocidio degli ebrei è veramente
avvenuto, ed Hitler ed i suoi alleati lo hanno consapevolmente perseguito. Ma
Auschwitz non è un unicum metafisico e sovrastorico. Hiroshima è stata
altrettanto sporca di Auschwitz, e finché non si avrà il coraggio di dirlo
(coraggio che oggi manca in tutto il popolo di sinistra politicamente corretto
del mondo) gli USA avranno sempre il passaporto simbolico per i loro
bombardamenti imperiali assassini. Il genocidio degli ebrei è orribile,
ingiustificabile ed imperdonabile, ma lo sono stati anche altri genocidi, dagli
Armeni nel 1915 ai tutsi ruandesi nel 1994, fino ad altri che sono avvenuti e
che avverranno.
In quanto al fatto che Stalin ha fatto stermini legittimati in modo universalistico
mentre Hitler li ha fatti in nome di una legittimazione razzista e
particolarista non si può dire che sia un argomento forte. Il torturato cui
vengono strappate le dita dei piedi non fa distinzioni se le tenaglie vengono
usate dagli inquisitori cattolici, che agiscono in nome dell’idea
universalistica della vera religione correttamente interpretata, oppure da una
banda di saccheggiatori che vogliono sapere dove nasconde i soldi ed i
gioielli. In entrambi i casi, il sangue gli colerà dai piedi martoriati.
Il motivo per cui deve essere fortemente sconsigliata ogni strategia retorica
ed argomentativa di comparazione fra stalinismo e nazismo e un altro, e deve
essere correttamente inquadrato. Semplicemente, i termini minimi di paragone
storico devono essere sempre tre, e solo tre, ed ogni limitazione a due è
sempre una trappola apologetica. I tre termini sono allora il nazismo, lo
stalinismo ed il capitalismo imperialistico detto erroneamente
liberaldemocratico (laddove non è invece né liberale né democratico). Tutti e
tre questi soggetti storici hanno fatto massacri imperdonabili, non solo uno o
due di loro. In caso contrario si crede di opporsi all’ideologia imperiale,
mentre se ne accetta proprio il presupposto massimo e principalissimo.
Alain de Benoist capisce questo? Sarebbe bene chiederglielo con chiarezza per saperlo.
18.Vi è però una seconda questione, a mio avviso ancora più importante , che è
quella dell’universalismo. Alain de Benoist ne contesta il principio alla
radice, mentre a mio avviso questa strategia culturale è cattiva, perché
l’universalismo resta un concetto buono e positivo. Cercherò sommariamente di
spiegarmi.
Da un punto di vista strettamente filosofico, la critica di de Benoist
all’universalismo ha due fonti principali. In primo luogo, deriva dalla sua
esplicita preferenza per il politeismo greco rispetto al monoteismo cristiano,
che è effettivamente basato su di un universalismo monistico (Uno=Dio=Bene),
che ha trovato la sua prima sistematizzazione teorica nel neoplatonismo
cristiano, ebraico e musulmano (anche se curiosamente la genesi storica del
neoplatonismo è legata ad una trascrizione filosofica del politeismo greco
classico). In secondo luogo, deriva dalla critica differenzialistica alla
dialettica ed alle su pretese “uniformatrici” e normalizzatrici,una critica che
è rivolta sostanzialmente prima contro Hegel e poi contro Marx. Se uniamo i due
tipi di critica (politeistica e differenzialistica) ne deriva che in de Benoist
non c’è una teoria della verità. Senza teoria della verità si imbocca
necessariamente una forma di relativismo, più esattamente una forma di
relativismo nicciano, per cui viene chiamata “verità” l’insieme dei flussi
energetici della volontà di potenza.
In de Benoist l’universalismo è di fatto interpretato come la copertura
filosofica di un processo di uniformità (più esattamente, di uniformizzazione)
conformistica da parte del potere imperiale capitalistico moderno. Una forma
particolarmente ipocrita ed odiosa di questo presunto universalismo è il cosiddetto
“imperialismo dei diritti umani”, in cui il diritto internazionale risalente a
Westfalia 1648 viene distrutto ed al suo posto si instaura una sorta di
“diritto superiore” ad abbattere i cosiddetti “dittatori” (Milosevic, Saddam,
ecc.), diritto imposto non da un “terzo giudicante”, ma dalla parte coinvolta
accidentalmente più forte sul piano militare.
Il 20 marzo 2003 gli assassini americani hanno ancora una volta fatto uso di
questo arbitrio unilaterale contro un paese membro della comunità internazionale.
Si noti che Westfalia 1648 veniva dopo un secolo e mezzo di guerre
“ideologiche”, in cui cattolici e protestanti non riconoscevano un principio
arbitrale superiore, ma si riservavano il diritto unilaterale di connotare
l’altro come il Male e di connotare se stessi come il Bene. È evidente che di
fronte agli assassini superarmati del 20 marzo 2003, che reinstaurano il
principio ideologico unilaterale antecedente al 1648, de Benoist e quelli come
lui sono cari amici ed alleati culturali. Ma non per questo è opportuno
accettare la loro linea filosofica.
19. Di fronte al falso universalismo dell’impero americano superarmato, a mio
avviso, la linea culturalmente giusta non sta nel sostenere un politeismo
relativistico e differenzialistico-originario, ma sta nell’opporre a questo
falso universalismo un altro universalismo alternativo migliore. Farò qui un
esempio intenzionalmente semplice e forse “minore”, ma anche largamente
comprensibile.
Prendiamo l’istituto del matrimonio. Noi siamo abituati in Occidente a
considerare il matrimonio come valido solo se si basa sulla libera scelta dei
coniugi e sul loro “amore” (comunque lo si voglia poi definire e determinare),
e pertanto a condannare ogni forma di matrimonio combinato dalle famiglie,
ecc.. Ebbene, questo tipo di matrimonio è in realtà nel mondo una vera
eccezione, perché prevalgono (e prevalgono ancora, e non sono affatto in
sparizione) forme di matrimonio combinate variamente dalla famiglia vera e
propria o dalla famiglia clanica allargata.
Nell’ottica di de Benoist non esisterebbero argomenti per poter sostenere che
il matrimonio “occidentale” è migliore di quello di altri contesti culturali,
che avrebbero un diritto assoluto alla propria originarietà. Il massimo che si
dovrebbe perseguire è una forma di “pluralismo tollerante”, che lascia
convivere forme di vita diverse, come il sistema delle millyet (nazionalità
linguistiche e/o religiose) del vecchio impero ottomano.
Il sistema delle millyet, che lascia convivere in modo relativamente pacifico
ebrei, armeni e greci cristiani, arabi e turchi musulmani, ecc., era certo più
civile e meno barbarico del razzismo sionista e di ogni altro tipo di
fondamentalismo esclusivista, ma era pur sempre un espediente politico per
gestire la convivenza non distruttiva fra comunità differenti, e lasciava
aperto il problema filosofico dell’universalismo.
19. Si dice oggi che il mondo è “globale”, o in via di globalizzazione. Questa
formulazione non è esatta, perché nasconde il feroce imperialismo americano,
nemico ed assassino di tutti i popoli del mondo, ma è possibile utilizzare
provvisoriamente perfino questa formulazione inesatta. In realtà, si è di
fronte ad una sorta di simultanea pluralità di piani, di non-contemporaneità
nel senso di Ernst Bloch, per cui il problema dell’argomentazione dialogica,
pacifica e razionale, con cui si affrontano forme di vita diverse (ed ho fatto
prima l’esempio del matrimonio libero e del matrimonio combinato) si pone
comunque. Allora, credo che occorra cambiare la parola d’ordine filosofica di
Alain de Benoist, che contro il falso universalismo imperiale americano
sostiene il diritto radicale alla differenza comunitaria. A mio avviso occorre
dire di sì senza alcun dubbio al diritto all’indipendenza nazionale ed alle
costituzioni comunitarie, ma anche dire di sì ad un possibile nuovo terreno di
dibattito universalistico, che è anche legato ad una concezione della
conoscenza filosofica che le riconosce un carattere veritativo e non solo un
insufficiente carattere di integrazione epistemologica e/o ideologica.
20. Passiamo ora al terzo ed ultimo punto di questa rassegna, e cioè ad alcune
riflessioni sul marxismo contemporaneo. Per comprendere queste riflessioni,
bisogna che il lettore accetti l’ipotesi per cui la guerra unilaterale ed
assassina degli USA del 20 marzo 2003 chiude idealmente un periodo storico
aperto nel maggio 1945 con la sconfitta definitiva ed irreversibile del
nazifascismo europeo. Quanto dico qui infatti può sembrare strano ed eccessivo.
Non lo credo. Si tratta solo di cominciare a tirare alcune conseguenze
dell’apertura di un nuovo periodo storico.
Le resistenze inerziali ad accettare un cambio di mentalità saranno enormi, e
non mi faccio assolutamente nessuna illusione sulla possibilità di fare passare
questo cambio di mentalità a breve termine. Ma bisognerà pure cominciare. E se
non ora, quando?
21. Il primo problema riguarda il lato politico-fattuale della questione, e
cioè il problema del comunismo storico novecentesco (1917-1991). Dicendo
“comunismo storico novecentesco” intendo connotare un fenomeno da tenere
accuratamente distinto dal comunismo marxiano, o comunismo di Marx. A mio
avviso, non bisogna neppure accettare il terreno comune di dialogo con chi
intende “dedurre” da Marx il comunismo storico novecentesco, e questo non per
scortesia o settarismo, ma perché sarebbe una pura perdita di tempo.
Il comunismo storico novecentesco inizia con la rivoluzione russa del 1917, e
prima semplicemente non esisteva. A suo tempo Antonio Gramsci connotò con
grande precisione la rivoluzione russa del 1917 come una “rivoluzione contro il
Capitale” (di Marx), e non c’è proprio niente da aggiungervi. A mio avviso la
rivoluzione russa del 1917 fu legittima ed ampiamente giustificata, ma non per
ragioni scolastiche “marxiste”, quanto come risposta dei popoli alla “guerra
civile europea” del 1914, che è primaria. Nolte sbaglia a far cominciare la
guerra civile europea nel 1917. Essa cominciò nel 1914. Il problema teorico
fondamentale del comunismo storico novecentesco sta nella sua dissoluzione
entropica, frutto di una debolezza strategica di cui occorre comprendere bene
le radici profonde. In proposito, mi limiterò a tre ordini di considerazioni.
In primo luogo, a mio avviso la ragione di fondo della debolezza storica del
comunismo storico novecentesco sta in due analisi errate, che risalgono
entrambe a Marx e che non furono corrette in tempo. La mancata correzione,
assolutamente possibile e fisiologica, sta nel fatto che il livello scientifico
fu sovradeterminato da quello ideologico, e che la sinergia fra capetti e base
fanatica fu più forte dell’analisi oggettiva. Primo, non è vero che il
capitalismo ad un certo punto è incapace di sviluppare le forze produttive. In
realtà le sviluppa, eccome, anche se le sviluppa in modo distorto ed ecologicamente
disastroso. L’errore nasce probabilmente da una scorretta analogia storica fra
il capitalismo, da un lato, e lo schiavismo ed il feudalesimo, dall’altro, che
a suo tempo furono veramente incapaci di sviluppare le forze produttive. È
questo un tipico caso di errore fatto per “incantesimo della (falsa) analogia”.
Secondo, non è affatto vero che la classe proletaria ed operaio-salariata di
fabbrica sia una classe rivoluzionaria in senso storico e strutturale (in
linguaggio marxiano “intermodale”). L’errore nasce probabilmente dall’averla
prima confusa con il lavoratore collettivo cooperativo associato e con il
general intellect, e poi dall’aver pensato che fosse l’avanguardia storica di
tutti gli oppressi e gli sfruttati del mondo.
In secondo luogo, molti pensano (in particolare nei gruppetti eretici del
marxismo di tipo trotzkista) che l’esplosione tragicomica e vergognosa del
comunismo storico novecentesco sia dovuta al “tradimento della burocrazia”. A
mio avviso, non è così, e si tratta di una confusione fra una conseguenza ed
una causa. Il grottesco “tradimento” delle burocrazie comuniste (simbolicamente
coronato dall’icona del cialtrone Gorbaciov che pubblicizza la pizza Hut) non è
la causa, ma la conseguenza di un fenomeno strutturale sottostante, che resta
la tragicomica incapacità rivoluzionaria (nel senso della lunga durata storica,
non nel senso di insurrezioni sporadiche o di scioperi duri) della classe
operaia e proletaria.
In terzo luogo, per concludere, penso che il filosofo italiano Augusto del Noce
abbia colto (a mio avviso senza volerlo e senza neppure accorgersene) il punto
essenziale della questione, sottolineando la strutturale incapacità dello
storicismo e del progressismo “marxista” a resistere all’adesione alla
cosiddetta “società radicale” della modernizzazione capitalistica. Si è
trattato di una assimilazione progressiva largamente inconsapevole. Il marxismo
ha contratto a partire dal 1945 un matrimonio con il cosiddetto “antifascismo”
(e proprio nell’anno in cui ne venivano meno le ragioni storiche, prima di
questa data invece a mio avviso pienamente giuste e legittime), ed a partire
dal 1958 circa (almeno in Italia) con il cosiddetto progressismo
modernizzatore. Lo ha fatto perché la ristretta base operaistica era
effettivamente insufficiente ed indifendibile, ma sta di fatto che questo
doppio matrimonio ha finito con l’ucciderlo. Ed infatti la guerra imperiale
degli assassini americani e sionisti iniziata il 20 marzo 2003 contro l’eroico
popolo fratello dell’Irak viene fatta in nome della modernizzazione
(modernizzare l’Irak) e dell’antifascismo (contro il tiranno fascista Saddam).
Io non credo che Augusto del Noce avesse capito la profondità della sua stessa
scoperta. Egli restava un democristiano di destra, ed infatti i suoi allievi
(Buttiglione, ecc.) sono oggi dei politicanti di mestiere berlusconiani. Come
Cristoforo Colombo, del Noce scopre una vera e propria America (ideologica)
senza neppure accorgersene. Ma sta di fatto che anche se le sue caravelle si
sono incagliate nelle coste rocciose del continente da lui scoperto, egli lo ha
scoperto, e non bisogna perdere nessuna occasione per dirlo.
22. Il secondo problema riguarda invece il lato teorico e filosofico della
questione, e cioè il marxismo. Il marxismo è oggi in stato comatoso, e questo
non a causa dei conflitti fra le diverse “scuole” in cui è diviso (stalinisti,
maoisti, togliattiani, bordighiani, trotzkisti, ecc.), ma per una ragione molto
più strutturale e profonda, e cioè perché sta crollando davanti agli occhi di
tutti il modello economicista originario edificato da Engels e da Kautsky fra
il 1875 e il 1895, e ami più da allora veramente modificato e mutato. Questo
modello economicista, incentrato sul primato tolemaico della cosiddetta teoria
del valore, che a sua volta vorrebbe “scientificamente” fondare la
rivoluzionarietà strutturale “in sé” della classe operaia e salariata di
fabbrica / e la cui prova teologica massima è la trasformabilità
matematicamente garantita dei valori in prezzi di produzione), dura da più di
un secolo, e finché non verrà abbandonato a mio avviso non esiste possibilità
alcuna di riforma del marxismo. Irrigidito in questa forma irriformabile, il
marxismo sarà sempre condannato ad essere un modello rigido e deduttivo, in cui
appunto si pretende di “dedurre” tutte le catene storiche diversificate di
eventi interconnessi da un modello semplice di trasformazione dei valori in
prezzi di produzione, da cui cade sempre “a cascata” una concezione della crisi
economica capitalistica di tipo deterministico.
Questo marxismo, il cui paradigma risale al ventennio 1875-1895, è di fatto
irriformabile. Ogni correzione che si limiti a qualche aspetto assomiglia alle
teorie astronomiche degli epicicli che cercavano di “salvare” il modello
geocentrico. Tuttavia, il punto principale non è neppure questo. Recentemente
lo studioso Ermanno Bencivenga ha messo il dito nella piaga del difetto
“strutturale” di ogni paradigma marxista, e cioè la tendenza a decretare la
“fine della storia” dipingendo un punto finale del tempo in cui il marxismo
(ovviamente il “vero” marxismo, non quelli falsi e diabolici) dovrebbe
definitivamente realizzarsi, confluendo in un comunismo finale e definitivo che
sarebbe anche la morte della politica. La politica, infatti, è per sua natura apertura
la futuro ed alla sua infinita trasformazione, e non potrebbe ragionevolmente
estinguersi in un perfetto punto finale in cui ciascuno darebbe secondo le sue
possibilità e riceverebbe secondo i suoi bisogni. Questo ovviamente potrebbe
sempre essere, in linguaggio kantiano, un ideale della ragion pura pratica, ma
in ogni caso non una situazione storica terminale e perfetta che “esaurisse” il
tempo della storia umana.
23. Con queste sommarie considerazioni, posso veramente chiudere, ricordando
ancora una volta al lettore che questo breve saggio deve essere letto come la
terza e ultima parte di un insieme unitario pubblicato in tre numeri successivi
della rivista “Comunitarismo”.
Ciò che conta, invece, è capire come la guerra americana contro l’Irak iniziata
il 20 marzo 2003 chiude un intero periodo storico e ne apre un altro per molti
aspetti ancora inedito e inesplorato. Chiude il periodo aperto con i trattati
di Westfalia del 1648, in cui lo jus publicum europaeun non prevedeva guerre
ideologiche (nel linguaggio del tempo “religiose”), e questa esclusione delle
guerre ideologiche (ed il modello americano di esportazione della democrazia è
appunto una guerra ideologico-messianica) fa nascere il diritto internazionale
moderno. Chiude il periodo aperto il 1795 con la Pace perpetua di Kant, in cui
viene per la prima volta prefigurata con chiarezza un’organizzazione delle
nazioni unite in cui ci sia un giudice “terzo” fra i contendenti che esamini
oggettivamente le rispettive ragioni ed i rispettivi torti. Chiude il periodo
del contrasto ideale fra fascismo ed antifascismo, perché ormai il cattivo è
simbolicamente “hitlerizzato” (Milosevic-Hitler, Saddam-Hitler, ecc.), e questa
hitlerizzazione destoricizza strutturalmente ogni evento politico determinato ripristinando
un conflitto metafisico-religioso fra Bene e Male (o meglio fra cosiddetto bene
e cosiddetto male), in modo che il vecchio apparato ideologico e simbolico
dell’antifascismo “progressista” e “di sinistra” è integralmente messo al
servizio della copertura ideologica dell’impero americano. Chiude persino il
periodo del contrasto ideale fra comunismo ed anticomunismo, per il fatto che
il comunismo storico novecentesco si è autodissolto, producendo mutanti
antropologicamente mai visti nella storia mondiale, come i comunisti irakeni
che sono a fianco degli americani contro il loro stesso popolo, Gorbaciov che
pubblicizza con aria ebete la pizza Hut, d’Alema che sostiene ghignando che la
guerra assassina del Kosovo del 1999 non era una vera guerra, e dunque non
aveva neppure bisogno del permesso dell’ONU, perché era una semplice operazione
di polizia della NATO (raramente ho visto un caso così sfacciato in cui si
cerca di cambiare la realtà con una semplice manipolazione semantica, come se
un omicidio venisse ribattezzato “anticipata sospensione della vita, che tanto
finirebbe presto lo stesso”).
Queste chiusure di periodo storico, ed altre simili, non sono ancora percepite
non solo a livello di massa, ma neppure a livello intellettuale e saggistico
(che anzi è generalmente più indietro dello stesso senso comune di massa, a
causa della particolare vischiosità, presunzione e supponenza del ceto
intellettuale, cui mi onoro di non appartenere). In particolare, è venuta meno
la dicotomia Destra/Sinistra, oggi artificialmente tenuta in vita come protesi
per la riproduzione manipolata del sistema politico occidentale europeo. Di
questa dicotomia si può dire in estrema sintesi che essa è ad un tempo esaurita
e fallita. Posso allora chiudere chiarendo che cosa significa esattamente prima
l’esaurimento e poi il fallimento.
Esaurimento significa che questa dicotomia, storicamente sorta per la prima
volta nel 1791 in Francia (dal modo in cui si disponevano i deputati
dall’assemblea legislativa nell’anfiteatro), sviluppatasi fortemente nel
biennio 1848-49, consolidatasi alla fine dell’Ottocento (caso Dreyfus in
Francia, socialdemocrazia tedesca, ecc.), e poi infine dominante per quasi
tutto il Novecento, dove si è storicamente intrecciata con il conflitto fra
comunismo ed anticomunismo, ha cominciato a declinare con la terza rivoluzione
industriale (dal 1973 in poi) ed è infine precipitata a partire dal 1991, in
cui è cominciato ad apparire chiaro che oggi il conflitto fondamentale non è
più fra Destra e Sinistra, ma è fra chi è disposto ad appoggiare e ad accettare
l’impero americano unilaterale e potentemente armato e chi invece in varie
forme non è disposto ad accettarlo. Chi allora pensa che Blair è di sinistra e
Chirac è di destra ragiona come quegli astronomi tolemaici che si ostinavano a
difendere un modello cosmologico inesistente. Io credo, e sono assolutamente
sicuro che verrà, che prima o poi un nuovo Galileo Galilei delle scienze
sociali si manifesterà, e sono lieto di pormi e di autopercepirmi come uno dei
suoi (già numerosissimi) annunciatori.
Oltre l’esaurimento però c’è anche il fallimento. E che cosa vuol dire
esattamente fallimento? Per fallimento intendo due cose distinte, e cioè due
distinti fallimenti della destra e della sinistra. Esaminiamoli separatamente,
e poi chiudiamo.
Il fallimento della destra a mio avviso sta nel perseguimento di una società
gerarchica e disegualitaria che rifiuta la democrazia vista come regno del
disordine plebeo frutto di invidia e risentimento. Nella sua forma più pura
questo modello rifiuta sia il capitalismo che il comunismo, il capitalismo
perché livella attraverso il denaro (l’equivalente generale ed astratto,
puramente quantitativo e senza qualità) ed il comunismo perché livella
attraverso la politica (luogo dell’affermazione sociale di capetti
burocratizzati rappresentanti di masse invidiose e nemiche di ogni merito
individuale). All’atto pratico, però, questo modello di “terza via” non è mai
stato applicato perché era strutturalmente inapplicabile, in quanto il semplice
rifiuto del binomio denaro-politica (capitalismo e/o comunismo) dà luogo
soltanto ad una astratta pars destruens, in quanto ogni pars costruens dovrebbe
contrapporre un criterio alternativo credibile. Ma questo modello alternativo
credibile non esiste, ed infatti non resiste a nessuna critica filosofica
razionale e dialogica (che è il centro della tradizione occidentale greca). Non
è un criterio ovviamente la razza (che semplicemente non esiste
scientificamente), non lo è la tradizione (che non esiste, in quanto non vi
sono che differenti tradizioni confliggenti storicamente sedimentate dalla
lunga durata), non lo è l’onore guerriero (abolito dalle nuove armi anonime ed
ipertecnologiche di distruzione di massa del tipo Hiroshima), ecc. ecc..
Da questo vicolo cieco in cui si è cacciata da più di un secolo, la destra può
uscire con onore soltanto aderendo e promuovendo una concezione democratica del
comunitarismo. Mi sembra la via di uscita più semplice, onesta e razionale. Ed
è infatti quella che le sue componenti più intelligenti stanno percorrendo. Ma
questa via, appunto, non è una via di “nuova destra”, ma è una via di
superamento della dicotomia Sinistra/Destra. Chi si ostina a chiamare
“neonazismo” questa onesta strada di uscita delle dicotomie insolubili della
vecchia identità di destra, dimostratasi bloccata ed impercorribile, è un
cialtrone che dovrebbe pulirsi la bocca, perché continua per inerzia ad
insultare chi dovrebbe invece ringraziare. Personalmente, ho sempre preferito
coloro che costruiscono ponti a coloro che distruggono i ponti. Coloro che
costruiscono ponti devono essere ringraziati ed onorati, e chi gli sputa contro
merita che il vento contrario gli ributti lo sputo sul suo viso svergognato.
Diversa è la fenomenologia del fallimento della sinistra. Ho già ricordato in
un paragrafo precedente l’intelligente tesi di del Noce sul suicidio della
modernità e sulla trasformazione dello storicismo in nichilismo. Non ha caso,
ho scritto che del Noce scopre in questo modo le coste di un continente filosofico
senza rendersi neppure conto dell’importanza della scoperta. Ora chiudo con
alcune argomentazioni ulteriori su questo punto cruciale.
Il peccato originale della sinistra, esposto in estrema sintesi, sta nell’aver
recepito l’eredità illuministica, che per sua natura era un’eredità dialettica
(come Horkheimer e Adorno a suo tempo intuirono ma non seppero poi
correttamente elaborare), in modo sfigurato ed unilaterale. Dall’Illuminismo la
sinistra imparò che Dio non esiste, che bisogna essere laici, che bisogna
disprezzare ed odiare la metafisica e tutta quella parte della filosofia che
non è disposta a ridursi a epistemologia di servizio, ecc.. L’Illuminismo non è
solo nichilismo, ovviamente, ma è anche razionalismo dialettico, ma questo la
sinistra non lo ha imparato. Il razionalismo dialettico, infatti, consiste
nell’accettazione e nella legittimazione dell’Altro, e cioè nel necessario
interlocutore complementare. Ma la sinistra non ha mai legittimato nessun
interlocutore, ed infatti per la sinistra la Destra non è mai stata un
legittimo interlocutore complementare, e cioè la parte opposta di un Essere
culturalmente unitario, ma un semplice Non-Essere, da annullare e da
distruggere. In questo modo la sinistra si è identificata con il tutto e con
l’universale, e questo le ha sempre impedito di relativizzarsi. In questo modo
essa ha finito con il sostituire la sociologia alla filosofia, cioè il problema
del soggetto sociale al problema della verità. In questo modo si è aperto un
arco illusorio che va dal Quarto Stato di Pelizza da Volpedo alle Moltitudini
Disubbidienti di Toni Negri.
La sociologizzazione della verità, ovviamente, è il cuore del nichilismo. È
questo nichilismo che sta dietro al sorriso ebete di Gorbaciov che pubblicizza
la pizza Hut, al concionare svergognato di Sofri di cui centinaia di persone
sussurrano sfrontatamente essere stato il mandante del vile assassinio di
Calabresi, senza neppure il coraggio di farlo personalmente delegandolo a due
disperati come Marino e Bompressi (ma nessuno osa dirlo per non rompere
l’allusivo silenzio mafioso della nuova classe dirigente giornalistica), ed
infine al ghigno cinico con cui d’Alema rivendica le bombe assassine del 1999.
Dopo il 20 marzo 2003 alcune cose cominciano ad essere dette. Io so bene che è
solo l’inizio. Una volta che il torrente si sarà messo in movimento sarà
difficile fermarlo. Ma senza un lavacro di sincerità, veridicità e pulizia
nulla potrà veramente essere messo in moto. Non resta che il principio della
speranza.