gennaio 2002

IL DIRITTO CALPESTATO

Con la decisione del ministroCastelli che impedisce a un giudice di finire il suo lavoro prima di assumere un altro incarico, si è dichiarata la morte di migliaia di processi
La nuova maggioranza ha approvato in fretta tre leggi che avevano lo scopo di liberare Berlusconi, la sua azienda e i suoi amici da grattacapi giudiziari

di GIUSEPPE D'AVANZO (repubblica.it)


SE IL processo a Silvio Berlusconi e al suo amico Cesare Previti non troverà presto una decente soluzione, fiorirà nel nostro Paese un «illegalismo istituzionale» che manderà a carte quarantotto l'amministrazione della giustizia, l'ordinamento giudiziario, il codice penale, la sua procedura e, quel che più conta, il diritto fondamentale che, in tutti i tribunali, campeggia a grandi lettere nella formula: «La legge è uguale per tutti». Il dubbio che quel diritto fondamentale fosse pericolosamente in bilico si è già affacciato quando la nuova maggioranza ha varato in tutta fretta tre leggi (falso in bilancio, rogatorie, rientro dei capitali dall'estero).

Tre leggi che, pur non previste dal programma di governo e nel concreto rischio di trasformare l'Italia in un «paradiso penale», avevano l'assai poco nobile obiettivo di liberare il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, l'azienda del presidente del Consiglio (Fininvest) e gli amici del presidente del Consiglio (Cesare Previti) da grattacapi giudiziari.


Era parso il fondo del barile. Il gioco è in corso. Un attore del gioco, imputato e anche leader politico e capo del governo, fa approvare dal suo governo e dalla sua maggioranza regole che avvantaggiano un esito a lui favorevole. Già poteva bastare. La mossa, ad alto costo per l'equilibrio dei poteri dello Stato, ad altissimo costo per la credibilità internazionale del Paese, non è però sufficiente ad annichilire i processi che hanno sullo scranno degli imputati il presidente del Consiglio e gli amici del presidente del Consiglio e dunque, nel pomeriggio di Capodanno, si è provveduto a una seconda mossa che costringe tutti ad alzare il braccio per toccare il fondo del barile.
Accade che il governo, dopo aver cambiato le regole del gioco, decide di rimuovere l'arbitro della partita sostenendo che la partita finora giocata non è valida: deve tempo di gioco è ormai agli sgoccioli.
L'affare è molto tecnico. Si può raccontare così. Un giudice chiede un altro incarico. E' in un tribunale penale, vuole il tribunale di sorveglianza. Lo ottiene. Prima di prendere possesso del nuovo banco, conclude i processi più complessi che ha in affidamento (complessi: per la gravità del reato, per l'affanno creato agli imputati, per il numero dei testimoni coinvolti, per il tempo e il denaro investiti dallo Stato). E' il percorso previsto da leggi e regolamenti. E' una consolidata prassi. E' anche una scelta di buon senso, e doverosa se si vuole un processo di «ragionevole durata»: perché gettare al vento anni di lavoro distruggendo quel che è stato già vagliato costringendo l'imputato ad affrontare, dopo anni di patimento, un altro processo?
Così, da anni, accade che il ministro di Giustizia proroghi quel giudice nel suo incarico fino a lavoro concluso. Anche Roberto Castelli, ministro di Giustizia del governo Berlusconi, lo ha fatto prorogando, una prima volta, la «missione» del giudice a latere del processo IriSme (imputati Silvio Berlusconi e Cesare Previti).
Ora Castelli è chiamato a una seconda proroga. Prima di affrontare lenticchie e cotechino, la rifiuta. Mutato il tribunale, il processo dovrebbe ricominciare daccapo assicurando agli imputati una sicura prescrizione del reato (tempo scaduto). Il ministro però sa che in extremis il presidente della Corte d'Appello può «applicare» (distaccare) quel giudice dal tribunale di sorveglianza al processo IriSme e dunque smentisce se stesso: è vero — scrive un alto funzionario per conto di Castelli — un dipartimento del ministero ha prorogato l'incarico di quel giudice, ma la Corte dei Conti (non si sa sollecitata quando, come, da chi e perché) ha dichiarato illegittima quella direzione e quindi tutti i suoi atti. Dunque anche la proroga del giudice a latere del processo IriSme. Che deve dichiararsi nullo — sostengono subito in aula gli avvocatiparlamentari di Berlusconi — e ricominciare daccapo (ci risiamo) anche se il tempo della prescrizione del reato è in scadenza.
Fin qui i fatti. Soltanto in apparenza tecnici. Perché la sostanza di quel che accade da qualche mese a questa parte è chiara come l'acqua di una fonte.
Silvio Berlusconi interpreta il suo sacrosanto diritto alla difesa non come un diritto da far valere nel processo, ma come un diritto da spendere per difendersi dal processo. Per dirla in modo ancora più essenziale: Silvio Berlusconi di Arcore non accetta di essere giudicato. Nel processo dei «normali» — dei Mario Rossi di Carugate, dei Raffaele Esposito di Villa Literno — le parti affrontano e sezionano i fatti; scovano, adducono, deducono, calcolano prove; espongono le proprie ragioni, contraddicono le ragioni dell'altro; escutono, controescutono confidando nelle performances inventive, strategiche e tattiche degli avvocati. Berlusconi non dovrebbe temere l'imperizia del suoi avvocati (li ha eletti anche in Parlamento) né, a quanto sostiene, i fatti. E nonostante gli straordinari atout (consapevolezza di innocenza, ottimi avvocati) si tiene lontano dal processo.
La sua difesa è tutta «politica» e mai tecnica, come accade ai «normali» e come converrebbe a chi ha così alte responsabilità. Per evitare quel processo (e i processi all'amico Cesare Previti), Berlusconi getta sul piatto della bilancia il suo peso di leader di una maggioranza di governo capace di cambiare le leggi, i reati, le forme del processo, di far approvare a un ramo del Parlamento risoluzioni contro i suoi giudici. Da ieri, con la mossa del ministro Castelli, si è spinto anche a utilizzare contro il tribunale che deve giudicarlo le prerogative di capo di governo in attesa che i suoi avvocati muovano contro i suoi giudici, per la settima volta, l'accusa di «legittimo sospetto» (fattori esterni alternano il giudizio).
E' una strategia (o una necessità) che ha altissimi costi collettivi. In altre occasioni, Repubblica ha riflettuto sulla pericolosa torsione degli equilibri costituzionali. Oggi appare più rilevante considerare il deficit di legalità che il Paese paga alla privata battaglia del cittadinoimputato Silvio Berlusconi. Con la legge sul falso in bilancio si è oscurata la trasparenza del mercato. Con la legge sulle rogatorie, si sono pregiudicati i processi contro quel crimine organizzato capace di trasferire cospicui capitali all'estero. Con il rientro dei capitali dall'estero, si sono premiate quelle società, imprese e criminali che, negli anni, hanno costituito all'estero «fondi neri» destinati alla corruzione o all'evasione fiscale. Con l'invito di un sottosegretario (Carlo Taormina) ad «arrestare» i giudici di Milano (mai smentito da Berlusconi) si è intimidita la magistratura. Con la risoluzione del Senato contro quei giudici di Milano (sempre gli stessi, chiamati a decidere di Berlusconi) si sono poste le premesse di una dipendenza del potere giudiziario dall'Esecutivo. Con la decisione di Capodanno del ministro di Giustizia, che impedisce a un giudice di finire il suo lavoro prima di assumere un altro incarico, si è dichiarata la morte di migliaia di processi. A meno che il provvedimento di Castelli valga per Silvio Berlusconi di Arcore e non per Mario Rossi di Carugate.

Se così fosse, quell'illegalismo istituzionale che sta distruggendo l'amministrazione della giustizia e l'ordinamento giudiziario potrebbe aver fine. Anche se dalle aule dei tribunali andrebbe cancellata quella legittima speranza che recita: «La legge è uguale per tutti» .

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