ottobre 2001 In guerra per il petrolio l'altra faccia dei raid
SAN FRANCISCO - Scatenata come risposta alla strage dell'11 settembre e per catturare Osama Bin Laden, la spedizione americana in Afghanistan nasconde un'altra faccia: quella di una guerra del petrolio, in cui si disegneranno i nuovi equilibri geopolitici nel controllo mondiale delle fonti di energia. In America il clima di unità nazionale e la popolarità di Bush finora hanno fatto passare in secondo piano alcune verità. Presidente e vicepresidente sono due expetrolieri e dall'industria petrolifera hanno avuto i maggiori finanziamenti elettorali. George Bush padre, petroliere anche lui, dopo aver sconfitto Saddam Hussein fu il regista della ricostruzione del Kuwait, grande business per le imprese Usa. Infine il teatro di guerra in Afghanistan non è solo un deserto montagnoso: è un incrocio fondamentale per i futuri approvvigionamenti di energia, dove si gioca una partita decisiva per la sicurezza economica dei paesi industrializzati. «L'incognita principale che pesa sul mondo intero è il rischio di instabilità in Arabia saudita», dice Patrick Clawson, direttore del Washington Insititute for Near East Policy. Bin Laden, leader di un terrorismo reclutato e finanziato in Arabia saudita, dimostra la fragilità del paese che custodisce nel suo sottosuolo le riserve petrolifere più ricche del mondo: 262 miliardi di barili, quasi il decuplo dei giacimenti americani, libici o messicani. L'importanza strategica dell'Arabia è stata accresciuta dalla politica energetica di Washington che ne ha fatto il maggior fornitore singolo di greggio degli Stati Uniti. Il 28% di tutte le importazioni americane oggi proviene dal Golfo persico, mentre negli anni Ottanta era meno della metà. Questa forte dipendenza da un paese fornitore aveva una logica. Ricucito lo strappo della guerra del Kippur nel 1973, la monarchia saudita ha sempre giocato il ruolo dell'«amico americano» in seno all'Opec; i suoi provvidenziali aumenti di produzione hanno salvato l'economia dei paesi ricchi ad ogni crisi: rivoluzione iraniana, conflitto IranIraq, guerra del Golfo. E con i sauditi hanno un rapporto privilegiato i colossi petroliferi Usa, a cominciare dalla Exxon Mobil che sul loro territorio lavora a progetti di gas naturale del valore di 25 miliardi di dollari. Ma dopo l'11 settembre la Casa Bianca è costretta a
considerare scenari apocalittici sul futuro di Riad: un colpo di Stato guidato da
integralisti; un attacco terroristico contro i pozzi o gli oleodotti; l'affondamento ad
opera di Bin Laden di qualche superpetroliera nello stretto di Hormuz, che bloccherebbe un
flusso di 14 milioni di barili al giorno dal Golfo persico. «Bin Laden ha detto
esplicitamente che vuole il prezzo del greggio a 144 dollari il barile, sette volte il
livello attuale - dice Roger Diwan della Petroleum Finance Company di Washington - e ha
vari modi per tentare di arrivarci. Uno dei quali è diventare lui il re dell'Arabia
saudita». E' una calma irreale quella del mercato petrolifero, che
nasconde squilibri e pericoli immensi. I sauditi tengono un prezzo "politico" a
22 dollari il barile, è vero, ma al tempo stesso si sono assottigliati i margini di
capacità produttiva in eccesso (pozzi e oleodotti disponibili per pompare più greggio in
caso di crisi). Per gli esperti l'Occidente è più vulnerabile oggi che nel 1990, quando
la guerra del Golfo fece schizzare il greggio a 40 dollari, ma c'erano 5 milioni di barili
al giorno di capacità aggiuntiva a disposizione. Viaggiamo sul filo del rasoio, appesi al
destino politico di un regime dispotico e corrotto come la monarchia saudita, che intere
masse islamiche considerano traditrice a venduta agli Stati Uniti. Bush ha lanciato
l'allarme il giorno prima di partire per il vertice di Shanghai: «Abbiamo bisogno di più
indipendenza energetica, è in gioco la sicurezza nazionale». Se il petrolio può ridefinire la geografia delle alleanze
mondiali avvicinando gli interessi americani e russi, lo stesso petrolio ha un ruolo
invisibile ma cruciale nella guerra dell'Afghanistan. Sotto le rocce del deserto afgano
sono stati rilevati giacimenti di greggio e gas naturale, come segnala il centro Enisen di
Santa Monica, in California. Soprattutto, la terra afgana è il luogo di passaggio
obbligato per il gasdotto più importante del mondo. E' un progetto di importanza storica,
che sposterebbe il baricentro del potere energetico dal Golfo verso l'Asia centrale, ma è
bloccato da anni proprio per i continui conflitti afgani. Duemila miliardi di metri cubi,
il 30% di tutti i giacimenti mondiali di gas naturale sono sepolti nel sottosuolo del
Turkmenistan: di che farne un nuovo Kuwait. Ma da lì nessuno riesce a trasportare quel
gas verso il mare e verso i ricchi mercati occidentali. Se non attraversando
l'Afghanistan.
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