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Tutta colpa dei comunisti

Commento di Gianni Barbacetto  dal libro "B Tutte le carte del Presidente" Marco Tropea Editore

Sergio Moroni, dirigente e parlamentare del Partito socialista, si toglie la vita il 2 settembre 1992 nella sua casa di Brescia. Aveva ricevuto tre avvisi di garanzia, che gli contestavano il ruolo di esattore delle tangenti per il Psi nel settore dei rifiuti. Prima di morire, aveva inviato al presidente della Camera, Giorgio Napolitano una lettera in cui protestava contro il <<clima di pogrom>) e contro la <<decimazione >> casuale della classe politica, la <<ruota della fortuna>> che <<assegna a singoli il compito di vittinie sacrificali>>. Ma in quella lettera Moroni ammetteva il suo ruolo nel sistema dei finanziamenti illeciti, poi definitivamente confermato nelle sentenze a carico dei suoi complici (risultera’<<accertata e pienamente provata la materialita’dei fatti>>, e cioe’ che Moroni aveva ricevuto <<circa 200 milioni in totale nelle sue mani in una cartellina tipo quelle da ufficio, avvolta in un giornale>>).

Un suo amico e compagno di partito, Loris Zaffra, dichiara nel gennaio 1993 al settimanale Panorama: <<Aveva ragione il povero Sergio Moroni quando, nella sua lettera scritta prima del suicidio aveva parlato di ruota della fortuna: sei stato preso, peggio per te.

Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealta’ dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilita’, si girano dall'altra parte. Inaccettabile>>).

Dieci anni dopo, i compagni che lo avevano ipocritamente emarginato celebrano la memoria di Moroni. E quelli che avevano invece inneggiato a Mani pulite, come Marcello Pera e lo stesso Silvio Berlusconi [pag. 174], si ritrovano a commemorare il parlamentare attaccando Mani pulite e i suoi magistrati. Una commemorazione ufficiale di Moroni viene organizzata alla Camera e a essa segue una lettera di Berlusconi pubblicata sul giornale di famiglia il 3 ottobre 2002. Nella lettera, la corruzione viene giustificata con l'esigenza "democratica" di contrastare i comunisti, che potevano disporre di finanziamenti da Mosca. Quei finanziamenti che non sono piu' reato, sottolinea Berlusconi, grazie all'amnistia "voluta fortissimamente dalla sinistra" nel 1989: proprio l'amnistia "provvidenziale" che nel 1990 aveva salvato Berlusconi dalla sua prima condanna, quella per falsa testimonianza sulla P2 [ pag. 115].

In verita’, nel sistema di Tangentopoli e’ stata in piu’ casi provata l'esistenza del "cassiere unico", che ritirava le tangenti e poi le divideva tra i diversi partiti, comunisti compresi: questi erano dunque in piu'  casi alleati e complici con cui spartire il bottino, non nemici da battere in nome della democrazia. Ma ormai le necessita’ polemiche sovrastano la ragione e i fatti. Berlusconi, che nel videomessaggio della "discesa in campo", nel 1994 [ pag. 169], criticava i partiti e rendeva omaggio a Mani pulite, nel 2002 considera ormai i magistrati i suoi grandi nemici e difende non solo i vecchi partiti, ma anche il loro illegale sistema di finanziamento.

 

IL VERO COLPO DI SPUGNA

Silvio Berlusconi, il Giornale, 3 ottobre 2002

La vicenda umana e politica di Sergio Moroni E’ lo specchio tragico di un'epoca inquisitoria e buia, per molti aspetti ancora sconosciuta, un fiume tumultuoso che travolse l'Italia, un'onda giustizialista che fini’ per cancellare dignita’e garanzie e per destabilizzare gli equilibri democratici dello Stato di diritto. Tangentopoli fu vissuta dall'opinione pubblica, a causa anche di un cortocircuito politico-mediatico-giudiziario, come un'illusione salvifica, come un atto liberatorio, ma restera’ invece nella storia del nostro Paese come un marchio indelebile di giustizia parziale. E quando la giustizia e’ parziale genera solo ingiustizia, seminando inquietudine e disperazione. Questo ci ricorda Sergio Moroni, che individuo’ nel gesto "estremo" di togliersi la vita l'unico modo per far sentire la propria voce e per affermare la propria innocenza. Questo ci devono ricordare le altre venticinque persone che si uccisero ai tempi di Tangentopoli.

La giustizia penale non dovrebbe mai avere finalita’ politiche. Non puo’ averle, per definizione, perche’ la responsabilita’ penale e’ personale. Come espressione della volonta’ punitiva dello Stato per chi commette singoli reati, essa dovrebbe esaurirsi nella valutazione di fatti specifici, le cui conseguenze possono, si’, essere anche politiche, ma soltanto come riflesso occasionale. L'esperienza italiana ha dimostrato, invece, che una certa giustizia puo’ portare alla fine di un sistema politico, all'esautorazione di un'intera classe dirigente e puo’, in definitiva, sostituirsi al popolo nella scelta di chi deve governare il Paese.

I numeri di Tangentopoli sono emblematici nella loro crudezza: Carlo Giovanardi, nel suo libro Storie di straordinaria ingiustizia ricorda che 88 deputati della Democrazia cristiana, su un totale di 206 eletti alle elezioni del 5 aprile 1992, furono inquisiti. Tranne quattro, sono stati tutti prosciolti o non giudicati. Eppure quel Parlamento fu messo alla berlina come "il Parlamento degli inquisiti" e fu sciolto anticipatamente malgrado esistesse ancora una maggioranza legittimamente eletta. Lo stesso trattamento fu riservato agli altri partiti che nella Prima Repubblica avevano fatto da diga, insieme alla Dc, contro il pericolo comunista: il Partito socialista, il Partito socialdemocratico, il Partito repubblicano e il Partito liberale.

Quel sistema, caratterizzato da due blocchi ideologici, aveva esaurito la sua ragion d'essere con la caduta del Muro di Berlino, ma pochi se ne accorsero. Era un sistema consociativo consolidato da decenni, di un difficile equilibrio di potere costantemente "contrattato" con l'opposizione comunista. Questa anomalia, questa assenza totale di alternanza di governo aveva portato quel sistema a una serie di degenerazioni. Ma non bisogna mai dimenticare che la corsa al finanziamento illegale dei partiti era stata innescata dai poderosi finanziamenti che il Pci riceveva dall'Urss, da parte della potenza, cioe’, che si contrapponeva apertamente alle democrazie occidentali. La sinistra comunista e postcomunista era dunque corresponsabile a pieno titolo di quella degenerazione, ne era anzi la causa principale.

Ma alla fine di Tangentopoli il Pds, erede diretto del Pci travolto da una disfatta storica, fu l'unico tra i principali partiti a rimanere in piedi.

Cio’ avvenne, in primo luogo, per la "provvidenziale" amnistia del 1989 voluta fortissimamente dalla sinistra, amnistia che consenti’ di azzerare tutti gli effetti giudiziari del finanziamento sovietico. Quello si’che fu "colpo di spugna"!

Ed e’ abbastanza sconcertante che ora, a tredici anni di distanza chi usufrui’di quell'amnistia salvifica propugni la definitiva eliminazione di questo istituto. La sinistra, in questi anni, ha raccontato una storia assolutamente strabica della Prima Repubblica: quella secondo cui in Italia sarebbe esistita una "questione morale" dalla quale pero’erano esenti, grazie alla loro "diversita’", solo i comunisti. Questa surrettizia ricostruzione del fenomeno della corruzione in Italia e’ in realta’ servita per coprire due fenomeni che hanno prodotto effetti disastrosi: la trasformazione della questione morale in questione giudiziaria e la trasformazione dell'azione giudiziaria in azione politica.

Quando scesero clamorosamente in campo, i magistrati del pool di Mani pulite poterono sostenere che il loro compito era quello di processare un sistema, di "combattere un fenomeno".

Non piu’ di perseguire i singoli reati, dunque, come prevede la legge, ma di "ripulire un sistema", "di rivoltare l'Italia come un calzino". Tangentopoli non fu una rivoluzione in senso proprio ma fu sicuramente il tentativo di un ordine dello Stato di attribuirsi un ruolo etico di preminenza e politico di supplenza, con l'intento di celebrare "un grande processo pubblico", come ebbe a definirlo il procuratore capo di Milano.

A quei magistrati fu concesso di bloccare il normale iter di approvazione delle leggi con pronunciamenti sulle scalinate del Palazzo di Giustizia e di usare la carcerazione preventiva per costruire le prove attraverso le confessioni, confessioni che in quel clima arrivavano copiose anche da parte degli innocenti che avevano quel solo mezzo per uscire di galera. Si arrivo’ perfino all'ignobile tentativo di denigrare i suicidi: qualcuno, quando si seppe della morte di Sergio Moroni, insinuo’ che ci si uccide anche per vergogna. Ma Moroni, come tanti altri, non aveva nulla di cui vergognarsi, avendo lealmente servito la causa del suo partito, la cui scomparsa ha inferto una grave perdita alla sinistra riformista.

Moroni si tolse la vita in preda a una lucida e sfuggente disperazione, come risulta chiaramente dalla lettera al presidente della Camera dell'epoca. In quella lettera c'e’, espresso in forma sintetica, molto di quello che si poteva e si doveva dire.

Voglio rileggerlo ancora. "Un grande velo di ipocrisia (condiviso da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. Ne’ mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive a cui e’ consentito di distruggere immagine e dignita’ personale di uomini solo riportando dichiarazioni di altri. Mai e poi mai ho pattuito tangenti. Eppure vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo tangenti e accomunato dalla definizione di 'ladro' oggi cosi’ diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai approfittato di una lira. Ma quando la parola e’ flebile non resta che il gesto."

La sua grandezza, la grandezza di Sergio Moroni, sta proprio nel fatto che e’ arrivato a sacrificare la vita per superare con un gesto estremo "la flebilita’della voce". Ma cio’ e’ proprio il contrario della normalita’democratica. E' stato detto che la democrazia non ha bisogno di eroi, e se una persona equilibrata come Moroni arrivo’ a togliersi la vita, significa che in quel momento il giustizialismo aveva commissariato la democrazia. Ma una democrazia non puo’ crescere e sviluppare le sue potenzialita’ se e’ frenata da uno scontro di potere fra una corrente della magistratura che concepisce il proprio ruolo in termini di egemonia politica e una parte della politica, espressione della maggioranza degli italiani, che invece intende riaffermare le prerogative della volonta’ popolare. Per questo e’ giunto il momento di voltare pagina, senza volonta’ punitive nei confronti di nessuno, ma tenendo ben presente che la questione giustizia in Italia e’ la questione della legittimita’ e della sovranita’ democratica.

La Casa delle liberta’ ha vinto le elezioni proponendo una riforma della giustizia in senso piu’ garantista, in grado di rafforzare il ruolo del giudice terzo di fronte allo strapotere del pubblico ministero, che deve tornare a rappresentare nel processo la parte accusatoria, e non a essere visto come il rappresentante della legge davanti al quale la difesa fa la parte del sabotatore dell'ordine costituito. L'esperienza ci ha insegnato che dietro l'usbergo dell'obbligatorieta’ dell'azione penale spesso si e’ celata e si cela la piu’ grande discrezionalita’, che e’ una pericolosissima strada per realizzare la disuguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Come Sonnino invoco’ a suo tempo il "ritorno allo Statuto", cosi’ noi riteniamo che si debba tornare alla Costituzione, ai principi dello Stato di diritto.

Per creare queste condizioni intendiamo approvare tutte le riforme che abbiamo in programma cercando nello stesso tempo di svelenire lo scontro politico in atto, per ricondurlo alla logica del normale confronto democratico. E' difficile, pero’, dialogare con coloro che sostengono che il 13 maggio del 2001 "la criminalita’ organizzata ha vinto le elezioni" e assimilano ogni tentativo di riforma della giustizia a un atto eversivo. Ma i fatti li smentiscono. Avevano detto che la legge sulle rogatorie avrebbe fatto scarcerare mezza malavita italiana, e naturalmente nulla di tutto questo e’ accaduto. Sono arrivati fino al punto di insultare il Parlamento, con la scusa ipocrita di difenderlo dalla legge sul legittimo sospetto, che e’ una legge garantista che in Italia esisteva gia’ e che e’ giusto e doveroso ripristinare.

Noi, e lo dico soprattutto a Chiara Moroni, che sta coraggiosamente portando avanti nella Casa delle liberta’ la battaglia iniziata da suo padre, abbiamo il dovere di far si’ che non ci sia una nuova Tangentopoli. Una democrazia che funziona sa far rispettare le sue leggi senza dover ricorrere al giustizialismo giacobino, e non ha bisogno ne' di sceriffi ne' di eroi, ma di regole incorniciate in un sistema garantista che sappia offrire una giustizia rapida e in cui il giudice abbia recuperato attraverso la sua indispensabile imparzialita’ tutta la sua autorevolezza.

Il carcere non deve piu’ essere usato per la formazione della prova. E' il momento di voltare pagina. Chi e’ chiamato a far rispettare le leggi dello Stato, e puo’ dunque togliere la liberta’ a un cittadino, deve essere cosciente di maneggiare un'arma terribile. Il carcere e’ l'extrema ratio nella difesa degli interessi statuali, e mai piu’dovra’ essere usato come mezzo di formazione della prova.

Lo riaffermiamo oggi, nel commosso ricordo di Sergio Moroni. Lo riaffermeremo sempre, tenendo la nostra rotta ben distante sia dall'indulgenza verso la corruzione che dal giustizialismo, due facce di una medaglia che ha drammaticamente segnato la nostra vita, la vita italiana negli anni novanta. E non saranno ne’ i giacobini ne’ i girotondini a rimettere indietro l'orologio della Storia.

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