Guy Debord a Jaime Semprun

 

(Editions Champ Libre, Correspondance. Volume I

Editions Champ Libre, Parigi, ottobre 1978)

 



 

Traduzione a cura di Omar Wisyam (Claudio D'Ettorre)

 

 




Parigi, 26 dicembre 1976

 

Compagno Semprun,

La protesta che tu mi invii si basa interamente ed apertamente su una sequela di ipotesi stravaganti. E' veramente penoso immaginare che qualcuno possa crederne probabile, o semplicemente possibile, anche soltanto una, tuttavia ai tuoi occhi ciascuna di queste affermazioni arbitrarie sembra porre le basi della possibilità della successiva, che è dello stesso tipo, e così la serie prende una qualche sembianza di coerenza. In effetti, al di là di alcune sottigliezze oratorie, secondo te: 1. dirigerei in un modo o in un altro le Edizioni Champ Libre; 2. dunque avrei il dovere imperativo di farvi pubblicare sempre e comunque le opere dei rivoluzionari di tutto il mondo, altrimenti sarebbe fondato il rimprovero di nuocere alla rivoluzione, nel caso in questione, spagnola; 3. ti odierei per delle ragioni oscure, probabilmente personali; 4. di modo che avrei deciso personalmente, o avrei preteso da altri, il rifiuto del tuo recente libro sulla Spagna, se non anche di tutti i tuoi futuri lavori, quanto meno per Champ Libre.

Dirò chiaramente ed in poche parole che tutte queste ipotesi, diversamente offensive ma egualmente insostenibili, che tu avanzi con un tono di semi-convinzione, in cui non credo di riconoscere dello humour noir, sono integralmente false. Dunque è necessario che le delusioni a causa delle quali ti lamenti abbiano un'altra causa.

Non mi limiterò tuttavia a questa semplice smentita, che sarebbe pienamente sufficiente in un'epoca meno irrazionale. Oggi, una concentrato così ricco di voci sull'argomento, poiché sei tu che le formuli e non un Bastid-Ratgeb o un Denevert, merita purtroppo una risposta dettagliata, e pubblica nella misura in cui sarà necessaria. Inoltre, innegabilmente hai il diritto di ricevere quelle spiegazioni che mi chiedi ora riguardo alla scarsità delle nostre relazioni personali nel 1975 (credevo che quelle piuttosto semplici ragioni non ti fossero sfuggite), sebbene sia una questione che non ha alcun rapporto con tutto il resto.

A parte il fatto che le tue ipotesi sono radicalmente false, trovo poco serio lo spirito che presiede al loro assemblaggio. Sai necessariamente che non ho alcuna ragione personale di essere tuo nemico. Ma ho molti nemici e non mi si è mai accusato di censurarli; neppure di praticare quella dissimulazione pseudo-sdegnosa delle posizioni dell'avversario che si trova così spesso nei gauchismes: del resto ho sempre considerato che, per i miei nemici, la cosa peggiore fosse che si leggessero attentamente i loro testi. Ma tu pensi realmente che i tuoi scritti si oppongano alle mie idee? E ammettendo che si oppongano, credi che ciò mi possa dare fastidio?

Comprendo altrettanto poco, ma è un misero dettaglio, perché insinui che mi sarei ingannato sull'identità di Manchette. Sostengo che Manchette è Jean-Pierre George, e che i dati sui quali si basa la mia convinzione sono almeno altrettanto validi di quelli che ti hanno fatto riconoscere un altro autore, che si firmava come Franklin.

Non posso neppure accettare l'alternativa molto sommaria che presenta inizialmente la tua lettera, e secondo la quale, poiché si dice che non sono io a decidere di rifiutare il tuo ultimo libro (straordinariamente, come dici, ma capita che lo straordinario sia alla fine la realtà, più o meno spesso, secondo il rigore del ragionamento di coloro che costruiscono queste ipotesi), ciò vorrebbe dire dunque che il rifiuto è dovuto soltanto ad un capriccio di Lebovici. Non è una forma argomentativa molto solida, quella che consiste nel presentare la ricerca della causa in un caso simile come se debba essere in blocco giocata a testa o croce tra due elementi esterni: il giudizio di un terzo non interessato o l'alienazione mentale dell'editore. Non si dovrebbe ipotizzare almeno la possibilità che anche l'autore abbia un ruolo altrettanto decisivo ed una qualche responsabilità? Il grado di successo della maggior parte dei libri è frutto di un confronto di opinioni molto variegate.

A proposito dei problemi riguardo le Edizioni Champ Libre, osservo che la tua lettera fornisce argomentazioni piuttosto stranamente mescolate tra ciò che sai, ciò che sospetti, ciò che altri pensano ma che dichiari, tu, di non pensare ed anche ciò che degli altri ancora potrebbero, forse, immaginare. Dirò dunque molto chiaramente ciò che è, a te e a tutti gli altri che potrebbero essere interessarsi allo stesso dibattito.

Di alcuni deliri d'interpretazione che tu mi segnali (e ne conoscevo altri), credo che si può dire principalmente che si tratta di uno dei numerosi segni dell'irrealtò angosciata che vive la nostra epoca, questo rende possibile certamente che tanta gente, che non sa leggere, si appassioni per le sorti di una casa editrice. Si comprende di sicuro più rapidamente la comica ipocrisia dei Khayati-Martens-Bastid, servi e pagliacci a tempo pieno delle più abbrutite produzioni commerciali, a favore delle edizioni pirata che, non venderebbero ma distribuirebbero gratuitamente non si sa che cosa né dove (ho sempre visto, quanto a me, i miei pirati vendere i miei scritti, ma non è neppure questo che rimprovero loro! Hai avuto tu stesso i tuoi pirati, e non potrai evitare di fare la stessa osservazione). In quel caso, è la semplice invidia che dice: è troppo verde, ma senza riuscire a salvare la faccia come la volpe della favola, perché sono animali meno eleganti. Altrove, ci sono inevitabilmente dei cretini che si intestardiscono a credere che abbia scritto il Précis o i libri di Migeot o di Henry e Leger, e forse anche - perché no? - le varie tesi di Voyer che sono manifestamente dirette contro di me. Voci di questo tipo corrono anche a proposito del Rapporto veridico, il che è già meno straordinario: sono sempre stati sospettati i traduttori, e poiché si sa che Censor non esiste ... Hai d'altronde un bel posto in questo festino degli dei, poiché esistono dei portoghesi che attribuiscono La guerre sociale a Monteiro.

Trovo spiacevole che gli individui più intelligenti sembrino cadere in una sorta di scivolata metafisica sull'esame dello statuto ambiguo di una casa editrice, fosse anche la migliore. Occorre riconoscere concretamente ciò che è una casa editrice, e quale funzione essa può avere, considerare con occhio disincantato le condizioni della sua esistenza e le relazioni che implicano.

Champ Libre è una casa editrice, e lo è in una società mercantile ovviamente; sebbene certamente meno commerciale, nel senso che si dà a questo termine nelle questioni intellettuali ed artistiche, di tutte le altre, piratesche o ufficiali. L'ostilità molto attiva che questa casa editrice incontra ovunque negli ambienti della falsificazione contemporanea la onora certamente, ed anche la identifica in una misura abbastanza ampia, con il partito della verità. Merita dunque in quanto tale (ma non di più, e soprattutto non completamente) di essere sostenuta e difesa dai rivoluzionari contemporanei, in misura molto maggiore di quanto essa dovrebbe, essa, difendere e sostenere questi rivoluzionari, ovunque siano: perché quello non può essere il suo ruolo, dato che implicherebbe che le sia riconosciuto un potere direttivo propriamente demenziale poiché, essendo identico alla funzione di un partito totalitario senza avere nulla della sua realtà pratica ed ideologica, quest'autorità sarebbe fondata su una sorta di diritto divino. Sebbene alcuni possano dirlo, io non sono il Weltgeist seduto dietro le bottiglie, e Champ Libre non è una mia creazione. Non può dunque essere in alcun modo considerata il tribunale della verità e l'istanza di direzione coerente del suo movimento. Ciò che molti rifiutano di comprendere, è che l'aspetto visibilmente e precisamente politico di queste Edizioni - bakuniniste o korschiste o debordiste, ecc. di sicuro, non può essere, nelle sue tesi, unitario e coerente; e questo non perché l'editore Lebovici sia una personalità esitante e incerta, incapace di scegliere tra queste tesi, ma perché non deve farlo - è il meno importante degli aspetti riguardo alla funzione critica generale che Champ Libre, essendo la società diventata ciò che è, per il momento, inizia ad avere, e che effettivamente non è paragonabile all'importanza normalmente limitata di una casa editrice, soprattutto quando è mal distribuita. Si potrebbe arrischiare una lontana analogia, per quanto attuale, secondo il processo di stalinizzazione del mondo, con alcune conseguenze dell'azione degli intellettuali ungheresi nel 1956, sebbene qui l'audience per il momento sia più limitata.

Di questa casa editrice, che considero precisamente nei termini dell'analisi appena esposta, non sono né associato né dipendente. Non vi esercito dunque alcuna corresponsabilità, né generale né particolare, non avendo, rigorosamente, riguardo a chicchessia - il proprietario, gli autori o il pubblico - né diritto, né dovere, né funzione.

In alcune imprese intellettuali ed artistiche di cui ho avuto responsabilità, questa non fu mai se non responsabilità totale, senza alcun controllo né limitazione da parte di alcuno; e sempre ho firmato con il mio nome, escludendo qualsiasi pseudonimo. Non ho né il gusto, né il tempo, né i mezzi per essere editore, e non ho certamente acquistato in segreto le Edizioni Champ Libre. Non ne sono direttore letterario, direttore di collana, lettore o agente letterario; non credendo del resto che in questo settore esista una sola specie di dipendente che possa esercitare delle responsabilità con un'indipendenza realmente completa, che si tratti di un Guégan o di un Viénet, o anche di un Pauvert o di un Bourgois. Va anche da sé che la questione non si è mai posta. Delle Edizioni Champ Libre, non sono nient'altro che un autore, con lo stesso identico contratto che avevo da Buchet. Sono così poco portato alle mondanità letterarie che, fino ad oggi, non sono mai penetrato nei locali della rue de la Montagne-Sainte-Geneviève - per quanto non lo consideri un crimine per nessuno; cito il fatto perché ciò capita poco spesso ad un autore, ed è certamente impossibile per un collaboratore della casa editrice.

Mi ritorcerai contro forse che ci sono altri che pensano, o che hanno fatto finta di pensare, che avrei a Champ Libre una corresponsabilità effettiva di tal sorta, piccola o molto grande poco importa, che non può effettivamente procedere da tali statuti, che non ho e non voglio avere, rifiutando i vantaggi come gli inconvenienti; e che tu pensi soltanto che io do l'impressione di condividere la responsabilità di queste edizioni fregiandole unilateralmente, e forse imprudentemente, di un prestigio che mi è generalmente riconosciuto in materia di sovversione. Se fosse così, ciò non rischierebbe di fuorviare nessuno se non degli idioti che confondono una casa editrice con la Comune di Parigi, una ristampa di Gracian con una insurrezione degli anabattisti di Münster; ma questo non mi renderebbe neanche minimamente responsabile di ciò che quest'editore fa di meglio o di peggio, perché si è responsabili soltanto là dove si ha un'autorità con sé, o una delega d'autorità. Quanto all'influenza che posso esercitare qua o là, sono naturalmente responsabile del contenuto originale di ciò che ho fatto o detto, ma certamente non dell'uso che vorranno farne, in tutta libertà, per il meglio o per il peggio, Gianfranco Sanguinetti o Marc Guillaume.

Ho conosciuto le Edizioni Champ Libre, abbastanza tardi, verso l'estate del 1971, perché avevano già un certo prestigio moderno e sovversivo, e perché mi hanno proposto di ristampare lo Spettacolo contro il masperizzatore Buchet. Penso certamente di non aver fatto nulla per abbassarne il valore sovversivo, ed è giusto. Non vi sono stato neppure troppo invadente, poiché non vi ho pubblicato in seguito che un solo, piccolo, libro. Senza dubbio, se vi avessi scritto Le Tapir o Les irréguliers, nessuno potrebbe rimproverarmi di averne aumentato il prestigio sovversivo.

Avevi pienamente ragione di credere che non sono mai intervenuto per far rifiutare dei testi, ma soltanto positivamente per farne passare; e ti prego di crederlo ancora, poiché questo è rimasto vero. Tuttavia, va notato che ho mantenuto questo genere d'intervento entro limiti estremamente stretti. Ho forse consigliato a Lebovici la pubblicazione di una decina di testi del passato, che considero importanti. Di autori contemporanei, non ho mai raccomandato che la pubblicazione di due libri: Censor e La Guerre sociale au Portugal. Inutile di aggiungere che non me ne rammarico. È vero che nessuno di questi libri è stato rifiutato per qualche capriccio di Lebovici, ed è naturale: poiché ho fornito questi consigli a titolo di cortesia, se soltanto uno fosse stato mal ricevuto, sarebbe stato evidentemente mio diritto non fare mai più regali di questo tipo. Ecco precisamente il vantaggio di non mescolare l'autorità teorica con la sottomissione del lavoro salariato. Essendo del resto privo di ogni patrimonio, e pigro, ho anche ritenuto, fin dalla mia prima gioventù, che avrei dovuto essere capace di vivere grazie ad alcuni altri miei talenti, senza consentire di negoziare quelli che posso avere da questo lato (le buone occasioni, come direbbero Vaneigem o Viénet, non mi sono tuttavia mancate in quei vent'anni in cui Champ Libre non esisteva ancora).

Nella maggior parte dei classici ristampati - Clausewitz, Gracian, ecc. - non vedo assolutamente quello che la mia reputazione rivoluzionaria potrebbe aggiungervi; e meno ancora, possibilmente, quello che essi potrebbero aggiungere alla mia reputazione rivoluzionaria, e neanche alla mia notorietà personale non troppo spettacolare, poiché mi sono ben guardato dal dedicare loro qualche prefazione erudita o di aggiungere il mio nome, come responsabile di collana o in qualsiasi altro modo. Del resto, trovo che tutto ciò, per gli happy few che possono sapere che ho raccomandato questi libri (il mio nome in ogni caso non è stato usato per raccomandarli al pubblico), testimoni soltanto di una qualche mia cultura generale, di cui non ho mai cercato di vantarmi, ma della quale non credo neppure di dovermi sentire imbarazzato rispetto a qualunque analfabetismo vincenno-cadrista. E non credo neppure che Champ Libre abbia illuminato i nostri contemporanei con un sorprendente sfoggio di scienza storica: sono piuttosto colpito nel constatare quanto gli altri editori siano ignari di per sé stessi, e pure sfortunati nella scelta degli incapaci che pagano. Bisogna dunque lasciare al loro nulla coloro che sostengono, contro ogni buon senso, che tutto ciò che pubblica Champ Libre abbia la mia approvazione letteraria e, ancora di più, politica. E quindi ciò che viene rifiutato non può, per di più, implicare una condanna politica da parte mia: osserverai che se mi trovassi posto nella stravagante situazione indicata dal primo caso, sarei spesso automaticamente costretto alla censura implicata dal secondo caso, come fingeva di credere Denevert già molto tempo fa. Ma fortunatamente non ho né l'uno né l'altro di questi obblighi; non essendo né editore, né dipendente della casa editrice.

Ma tu vai forse un po' più in là parlando dei miei meriti storici - perché non i miei meriti presenti o l'interesse ben legittimo per i miei prossimi lavori? - che mi avrebbero permesso di acquisire discreta influenza sulla mente di un editore, che tu stimi certamente tanto influenzabile quanto capriccioso. Non credo di poter dedurre dalla tua lettera che tu giudichi provatamente colpevole o compromettente parlare con un qualunque uomo se lo si conosce come editore, allo stesso modo in cui si diceva che colui che mangia la minestra con il diavolo deve fornirsi di un cucchiaio molto lungo. In ogni caso, non presto nessuna considerazione a quest'opinione, né a quelli che fingono di credervi. Avendo precisato questo, trovo che sia piuttosto normale che la gente che mi frequenta abbia a volte l'idea di trarne vantaggio, che si tratti di teorici, di editori o di operai. Ma saranno miei seguaci per questo? Sono sicuro che non hai un solo esempio per dimostrare che ho mai perseguito tali obiettivi. Si dirigono gli uomini occupando dei posti, e non accumulando meriti storici. Ho esercitato certamente molta influenza su molta gente, ma ho sempre notato che quelle su cui avevo maggiore influenza erano le personalità più autonome e più capaci di agire (in modo che quest'influenza non restasse unilaterale). All'altra estremità dello spettro, molti si sono accontentati di poter dire che mi avevano visto.

Hai giustamente riconosciuto il mio stile nel comunicato sull'ultima avventura frontaliera di Sanguinetti, ed a volte anche altrove, come nella lettera ai ratgebisti firmata da Lebovici, che non è stata in quella forma scritta da me, ma in cui egli ha inserito numerosi elementi di risposta che gli avevo fornito. Se tali personaggi credono di poter giocare sull'ignoranza del loro passato e del loro presente per simulare una virtù tutta spaurita, è bene che riconoscano il mio stile al varco. È uno stile che non hanno mai osato affrontare quando, più di oggi, ne avevano i mezzi. Ma ora questo stile, e le mie stesse frasi, più o meno fortunatamente deturnate, le vedono impiegate bene altrove, e del pari senza il mio nome. Coloro che le adoperano diranno certamente che quello che conta veramente sono la forza e la verità di una formula, che appartiene a tutti coloro che pensano di saperne fare uso. Sarei il solo al mondo a non avere il diritto di scrivere come Debord senza rischiare di demoralizzare i proletari di Barcellona, o senza sconvolgere di gelosia tutta l'editoria pirata?

Lebovici esiste, lo hai incontrato. È lui che ha fondato e che dirige Champ Libre, e non vedo realmente come potrebbe essere diversamente. Il generale Joffre, per una volta intelligente, diceva che non si era mai saputo molto bene chi aveva vinto la battaglia della Marna, ma che ciò di cui era certo è che se fosse stata persa sarebbe stato lui ad averla persa. Così dunque è Lebovici (e non tu o io) che porta tutta la colpa della pubblicazione di Jean-Paul Charnay o di Manz'ie, e per le stesse ragioni è lui (e non io) che ha tutto il merito della pubblicazione di Cieszkowski o di Anacharsis Cloots.

Veniamo al tuo libro rifiutato. Hai avuto assolutamente torto a credere che questo rifiuto, se era vago e nebuloso, celasse una motivazione nascosta, quale sarebbe la mia ostilità preconcetta a questa pubblicazione; un tale principio non esiste, né in generale né nel tuo caso particolare. Poiché è già abbastanza duro aver creduto a un tale principio, suppongo che tu non abbia creduto per di più che le affermazioni di Lebovici fossero la recita maldestra di una lezione che gli avevo impartito, e quindi non è dubbio che gliene lasci interamente la responsabilità (sono d'accordo con te sul fatto che Censor è più che altro un libro da combattimento, ma profondo e riuscito); d'altra parte non giudico, come te, né più né meno, le opere a peso, ma non tutti sono dei Gracian o come l'autore del Principe, e per di più, alcuni argomenti si prestano male ad una forma breve: Machiavelli ha scritto anche i Discorsi sulla prima decade di Tito Livio.

Non ero a conoscenza allora, essendo stato del resto per molto tempo assente da Parigi, né di questo rifiuto né delle vostre discussioni sulle correzioni. Ho soltanto ricevuto in seguito, senza una sola parola di commento, una fotocopia del manoscritto: senza dubbio poiché avevo, eccezionalmente, annunciato e raccomandato il tuo primo libro. Non ho risposto nulla, e d'altronde non mi si chiedeva nulla. Bisogna dunque ammettere che il rifiuto di Lebovici deriva da un suo giudizio personale. Perché non ne dovrebbe dare? Non era allo stesso modo conseguenza, diversa, di un suo giudizio personale, quando egli ha accettato i tuoi primi lavori? (eccetto i frammenti, che mi avevi letto tu stesso, dell'inizio del tuo manoscritto, ho naturalmente visionato il testo del secondo soltanto dopo che il libro era stato pubblicato).

Non dovevo evidentemente dare il mio accordo a questo rifiuto, per tutte le ragioni che ho ricordato prima. Il solo punto esatto della tua lettera al riguardo, è che si può dire che ho lasciato passare questo rifiuto. Se avessi trovato questo libro eccellente quanto il suo soggetto, e apprendendo più tardi che non era stato stampato, avrei certamente difeso il suo valore (nonostante qualunque cosa tu voglia immaginare che io pensi di te), senza avere, tuttavia, il minimo diritto di imporlo. Ma secondo questa eventualità, avrei dovuto dare un simile consiglio a Lebovici o, piuttosto, lui non lo avrebbe pubblicato immediatamente? Devo riconoscere che non trovo questo libro eccellente. Hai letto, ed anche scritto, dei buoni libri. Giudicalo tu stesso da questo punto di vista.

Non si tratta di un disaccordo politico di base. Approvo le intenzioni rivoluzionarie del proletariato spagnolo e gli autori che le approvano. Ciò non dà immediatamente una forza sufficiente al lavoro. Dirò, osando un esempio che mi tocca da vicino, che il valore del Punto d'esplosione dell'ideologia in Cina (testo tuttavia troppo breve per farne un libro) non risiedeva nel suo radicalismo anti-maoista, ma nel fatto che questo opuscolo rivelava per la prima volta l'essenziale di ciò che avveniva in Cina; dava una spiegazione coerente, abbastanza accurata nei principali dettagli, di molti eventi che tutti presentavano allora come inesplicabili (credo che ci sia questo genere di merito in La guerra sociale), una spiegazione che doveva essere confermata da tutto ciò che è accaduto nei nove anni successivi, e che era scritta in un tono, all'epoca, originale.

Aggiungo che trovo, evidentemente, il tuo lavoro sulla Spagna molto più rivoluzionario, e molto più interessante, di quelli che Champ Libre ha pubblicato in precedenza sull'Irlanda o l'Italia, per non dire nulla degli orrori sulla Germania. Ed in questo senso, una casa editrice non può essere giusta, se si comparano i suoi autori di differenti periodi. Volendo progredire, fa pesare su altri il pregiudizio della sua eccessiva indulgenza iniziale diventando più esigente con gli autori che vengono in seguito. Suppongo che Lebovici vorrebbe che i libri che pubblica, ed anche i libri di ciascuno dei suoi autori, siano generalmente sempre migliori.

Comprendo male perché ora consideri che la pubblicazione del Précis ti abbia bruciato con tutti gli editori utilizzabili di Parigi. O piuttosto capisco bene che questo libro possieda la qualità di essere immensamente dispiaciuto - era il tuo scopo - ma prima non disponevi di editori, e neppure li cercavi. E nel Précis, hai detto esattamente ciò che volevi dire, e Champ Libre te ne ha offerto i mezzi, che altri avrebbero certamente rifiutato. Infine non so fino a quale punto la rivoluzione spagnola abbia, in questo momento soprattutto, bisogno di un editore a Parigi. Raccomandandotelo, come tu pensi, meno ancora di Champ Libre, ti comunico l'indirizzo di un editore di cui non so nulla, ma che ha appena pubblicato lo Spettacolo: Castellote Editor, Rios Rosas, 51 - bajo B., Madrid.

Finisco con il problema delle nostre relazioni personali, che sarà molto più semplice. Qui, ci sono meno principi da affermare o da negare, e certamente non rimproveri da fare. Per ciascuno, l'impiego del suo tempo ed il riconoscimento delle affinità si situano legittimamente su un terreno piuttosto stirneriano. (Non avevamo nessuno di quei legami organizzativi che si demoliscono con scissioni formali.) Sono felice che ti ricordi che, in quei mesi in cui ci siamo incontrati abbastanza spesso, ti ho trattato con amicizia. Era vero, e lo meritavi indubbiamente, con il tuo libro sul Portogallo, scritto così brillantemente in condizioni d'urgenza abbastanza schiaccianti, con la fermezza di tutte le tue posizioni, con il piacere della tua conversazione, ecc. Dopo qualche tempo, ed abbastanza improvvisamente, una certa noia mi è sembrata costantemente dominare la parte principale di tutte le nostre conversazioni. Sono persuaso che hai avuto la stessa impressione, poiché queste cose si generano dialetticamente, più rapidamente di molte altre. Comprendi bene che non dico affatto che sei noioso (saresti allora perfettamente autorizzato a farmi lo stesso rimprovero, estrapolando la stessa esperienza). Constato soltanto che le nostre conversazioni si dirigevano verso l'uggioso. Credo che la gente che si annoia insieme farebbe meglio a non vedersi, indipendentemente dal suo accordo su una grande quantità di questioni, e soprattutto senza credersi costretta a costruire a partire da ciò, le più vaste divergenze teorico-pratiche che non ne erano implicate. Siccome non era un disaccordo grave né pubblico, ma nient'altro che una questione personale d'impiego del tempo, dire che non ne ho il tempo mi sembra tradurre abbastanza bene il punto reale. Sono, in egual misura, meno incline a tentare di delucidare o trasformare l'atmosfera di alcune relazioni perché, da una parte ho ancora un po' troppo spesso l'obbligo di incontrare numerose persone e perché, d'altra parte, sono molto soddisfatto di una solitudine relativa.

Non per limitare del tutto la questione a ciò che potrebbe apparire come la sfera di un capriccio nebuloso - ma capriccio di che? - dirò che ho avuto l'impressione che le nostre relazioni avessero preso una piega diversa dopo una serata in cui ti ho portato a cena con dei giovani operai, quasi tutti disoccupati. Sono stato sorpreso dalla grande severità del tuo giudizio su quella gente, all'uscita; soprattutto considerando parallelamente, in base ai tuoi resoconti e alle tue conclusioni, quanti tristi pro-situs ti avevano successivamente circondato, che ti era stato necessario a volte del tempo per dare buca e rifiutare. (Ma forse, come Champ Libre sembra fare altrove, una eccessiva pazienza all'inizio rischia successivamente di essere rimediata da esigenze discutibili?) Dato questo giudizio perentorio, che ti ho detto allora di non approvare, ma senza che ciò mi sembri meritare il minimo sforzo per fartelo tornare alla mente, sarebbe stato anche abbastanza normale da parte tua conservarti freddo per quella serata, poiché era palese che, anch'io, non mi trovavo troppo bene a frequentare quelle persone che ti erano dispiaciute. Non voglio certamente esagerare il significato di quell'incidente abbastanza anodino, ma è un fatto che ho osservato che in seguito non c'è stata più la stessa simpatia tra noi. Non più di quanto intenda affermare encomiasticamente il più vivo interesse per quei giovani, che almeno non mi sono sembrati, quella sera più di prima, né stupidi né spiacevoli, non penso di fare delle battute facili su un teorico dell'autonomia proletaria così poco benevolo riguardo ad alcuni proletari concreti. Quelli non facevano rivoluzioni quella sera, e non ne parlavano neppure. Si ha tutto il diritto di trovarli trascurabili. Tuttavia, chi sarà alla base di una rivoluzione, in Spagna come altrove, se non gente come loro? Ora che la tua ultima lettera mi ha offerto un dato più considerevole, criticherò in te una tendenza a giudizi molto sproporzionati sui fatti e sulla gente là dove ti concernono personalmente.

Ecco tutto quello che c'era da dire a proposito del mio allontanamento, ed è poca cosa. E se per caso hai potuto temere che sospettosamente io stesso abbia immaginato, o abbia lasciato riportare da parte di un calunniatore, non so so che cosa di peggio, ti do atto ben volentieri che non c'era niente di peggio.

Della mia Lettera ai Portoghesi, è vero che hai ricevuto soltanto la seconda ristampa; e che altri ancora l'hanno letta soltanto parecchio tempo dopo di te. Come hai potuto vedere, è un testo che mi riguarda personalmente, infinitamente più di quanto riguardi la rivoluzione portoghese: secondo l'ordine di dimensione dei problemi che quegli infelici portoghesi avevano, ahimè, scelto da sé stessi. L'ho dapprima inviata a quelli che erano a Lisbona. Poiché, pochi giorni dopo, il contraccolpo che temevo si produsse nel modo più prevedibile e più disastroso, l'utilità di alcune informazioni sulla questione ha purtroppo perso la sua attualità per molto tempo ancora. A questo proposito, aggiungerò ancora che il solo uomo che, all'estero, ha preso pubblicamente la difesa della verità sulla rivoluzione portoghese quando essa ancora combatteva, secondo me deve analizzarne la sconfitta (spiegandone il meccanismo il che è molto istruttivo, e mostrandone gli stessi responsabili in un altro momento della loro azione, nel novembre 1975), anziché sottacerla, en passant, con il più grande ottimismo e come se fosse soltanto un lieve incidente di percorso; e questo soprattutto in un libro destinato alla rivoluzione iberica, giunta al suo atteso secondo scontro. Qualunque cosa abbia potuto pensare Lebovici del tuo ultimo libro, questo punto è quello che, personalmente, valuterei, se dovessi giudicare questo libro, e da lontano, come il suo più grave difetto.

Salud.

Guy Debord

 

 

Traduzione a cura di Omar Wisyam (Claudio D'Ettorre)



 

Opere incomplete

di

Omar Wisyam (Claudio D'Ettorre)



http://www.oocities.org/omar_wisyam/index.html



 

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