Omar Wisyam (Claudio D'Ettorre)


La birra tiepida della sopravvivenza



Né apocalisse né rivoluzione



Quasi un'allegoria, così è da intendere la "figura" che dà il titolo al presente articolo, già una storia quella che l'allegoria raffigura (ma che non sarà l'oggetto di questo articolo). Mi riferisco qui al testo di Francesco "kuki" Santini, "Apocalisse e sopravvivenza", il cui sottotitolo recita: "Considerazioni sul libro Critica dell'utopia capitale di Giorgio Cesarano e sull'esperienza della corrente comunista radicale in Italia". Non so se altri testi affrontino con uguale intensità intrinseca la questione cruciale dell'esperienza di organizzazioni, di gruppi, di persone, in un rapporto direttamente bruciante con un autore ed i suoi libri.

Il narratore di "Apocalisse e sopravvivenza" parla al plurale, il soggetto singolare-plurale dice “noi; questo noi ha curato la pubblicazione della "Critica dell'utopia capitale" di Giorgio Cesarano, questo noi ha fondato l'Accademia dei Testardi e ha pubblicato tre numeri della rivista “Maelström”, questo noi appartiene al Centro d'Iniziativa Luca Rossi; di questo noi viene tracciato un percorso, narrata una storia.

In questo testo ci proponiamo d’inquadrare l’attività di Cesarano nel suo periodo storico, contribuendo a una delimitazione critica dell’ambiente collettivo di cui egli faceva parte. Ciò al fine di collocare meglio noi stessi nel presente, chiarendo il nostro rapporto con l’esperienza rivoluzionaria del recente passato, arma teorica necessaria per affrontare la situazione che ci circonda, che richiede la capacità di resistere e durare in condizioni complessivamente ostili, in un modo per alcuni aspetti simile a quello dei rivoluzionari dei primi anni Settanta.

Ma quanto è cambiata la situazione nel periodo in cui scrive Santini (“luglio 1994”)?

L’orizzonte storico che abbiamo davanti è talmente cambiato rispetto agli anni Sessanta e Settanta, che l’esperienza rivoluzionaria di allora è ormai storica.”

E a chi scrive? Santini, parlando al plurale, dichiara di voler stabilire una dialetticacon tutte le presenze rivoluzionarie (peraltro assai circoscritte) che ci circondano”.

Ma, infine perché scrivere, perché indirizzarsi a quelle presenze ormai assai circoscritte? Perché,dice l'autore, “i contenuti che essa [la “corrente comunista radicale”] ha sviluppato nella sua breve storia vanno studiati, integrati e approfonditi, anche allo scopo di dare una delimitazione storica definitiva al suo apporto. Anche se il bilancio di questa esperienza critica è per noi, ora, largamente positivo, i conti col passato vanno chiusi.” In questa breve citazione compaiono in corteo la storia (due volte, come sostantivo e come aggettivo), il passato e l'esperienza.

Questa insistenza marca in modo indelebile il testo con una connotazione, con una marca affettiva che potrebbero ostacolare, intrecciandovisi, il progetto di storicizzazione dell'esperienza vissuta. Si tratta di provare a rispondere come potrebbe essere altrimenti. Qualcuno dovrà provarci.

Il momento da cui si diparte (da cui si il problema si annoda, verrebbe invece da dire) l'analisi di Santini è individuato nel suicidio di Giorgio Cesarano: “All’epoca del suicidio, la sua attività teorica era in pieno svolgimento. La sua ricerca era aperta e fu troncata di netto dalla morte, mentre si svolgevano dure polemiche ed erano ancora possibili fruttuose collaborazioni e nuovi incontri.”

A ribadire la percezione di un dramma (e, sottintesa, di una colpa) nella morte di Cesarano, serva questo breve passaggio: “Gli anni Settanta sono spezzati in due dal suicidio di Giorgio Cesarano.”

Ma che accadeva in quel periodo? “Nella primavera del ’75, i giovani di Quarto Oggiaro erano già impegnati nelle piazze (insieme alla nascente Autonomia Operaia); a Milano riapparivano, anche se solo per pochi giorni, le barricate. Per tutto il ’75, e il ’76, si manifestarono, in vari episodi, aggregazioni spontanee di radicali, che già costituivano un punto di riferimento per numerosi giornalini apparsi in quel periodo in varie città d’Italia. Ai reduci del lungo ciclo di lotte degli anni Sessanta si sommava finalmente un buon numero di giovani; la corrente radicale tornava a farsi sentire, attraeva inoltre parecchi scontenti dell’Aut. Op., nelle università, nelle assemblee e nelle piazze; alla vigilia del ’77 si apprestava a essere nuovamente una presenza critica centrale che godeva di una diffusa rete di contatti.”

In quella situazione, scrive Santini, “la mancanza di Cesarano si fece sentire: alla crescita numerica non corrispose una crescita teorico-critica”. Secondo Santini, il completamento e la pubblicazione della “Critica dell'utopia capitale” (se il suo autore fosse rimasto in vita) avrebbero costituito un valido antidoto alla diffusione dell'ideologia francese che imperversò nel 1977. Il discorso di Santini salda, come si notava programmaticamente già a partire dal sottotitolo, degli eventi collettivi, in un certo modo epocali, al destino singolare di un individuo (Giorgio Cesarano), ma quell'intreccio e questa influenza erano effettivamente (corrispondono ad un'analisi realistica?) così vincolanti nello svolgimento dei fatti propri di quell'epoca? Che cosa fa ritenere all'autore che quegli eventi avrebbero potuto svolgersi diversamente e produrre un altro esito? Il problema è propriamente radicale, nel senso che investe dall'interno la prospettiva individuata dall'autore, il punto di vista del narratore.

Il punto di vista adottato da Santini è quello di una piccola, circoscritta, comunità (la corrente comunista radicale), in nome della quale egli parla, e dalla quale egli non manca mai di ricordare che Cesarano (per quanto una singola molecola) era riconosciuto come l'esponente teorico principale.

Secondo questa prospettiva, si deve dare per scontato che la presenza di Cesarano fosse decisiva. Ma così diventa altrettanto decisivo (e fatale) il gesto del suicidio, che priva una generazione di rivoluzionari del suo leader (la qual cosa per una corrente che non dovrebbe avere né padri né maestri in materia di rivolte risulta essere probabilmente una contraddizione). Si finisce per colpevolizzare la scelta estrema di Cesarano, per toglierle quella libertà che il gesto in sé orgogliosamente rivendicava pur nella innegabile sconfitta che, al tempo stesso, denunciava. Santini così inquadra la questione: “Al di là della sua vicenda individuale, questo atto disperato è radicato nei limiti di una corrente che poco tempo dopo avrebbe dimostrato la propria crisi”. Ma sono gli stessi giudizi presenti nella riflessione di Santini a mostrare come gli interni e profondi limiti del milieu radicale vengano raddoppiati allo specchio della fragilità del suo maître-à-penser e quindi a rivelare come quella vicenda individuale non sia stata affatto superata (come d'altronde i diversi numerosi accenni muti a varie altre vicende personali, soltanto implicite nel discorso, indicano che esse pure non siano state affatto superate).

La crisi della corrente radicale sembra essere inscritta dall'autore in una “biologica” (oggi si direbbe “genetica”) inadeguatezza a vivere secondo i tempi e i ritmi della vita quotidiana, e quella intima (quella più interiore proprietà che contraddistingue il milieu) fragilità non consente di riuscire a vivere nell'epoca della controrivoluzione (del riflusso). In questo lungo passo è espressa quell'impossibilità a durare:

Nel suo insieme, ponendo al centro dei suoi interessi la critica della vita quotidiana e la sperimentazione di possibilità che conducessero in modo diretto all’estasi, la corrente radicale ha dovuto pagare un prezzo altissimo alla controrivoluzione, subendo inesorabilmente l’autodistruzione degli individui più appassionati, che più autenticamente avevano assaporato la vita e meno potevano adeguarsi al grigiore senza speranza della quotidianità del capitale. A differenza di altre correnti coeve, e allora nostre «nemiche», la tendenza comunista radicale non è stata massacrata dalla repressione, né ha annoverato nelle sue file infami e dissociati, nel complesso non ha rinnegato se stessa. A parte pochissimi che hanno «tradito», passando anche formalmente a collaborare con le ideologie e le organizzazioni politiche del capitale, la maggior parte di noi ha abbandonato la prospettiva rivoluzionaria per inerzia e conformismo, o per risentimento accumulato (verso il proletariato che non vuole diventare rivoluzionario o verso i compagni più brillanti e ammirati in cui si riponeva fiducia e che troppo spesso non hanno saputo far seguire alla propria critica intransigente, a volte spietata, dell’esistente, fatti adeguati ad armare di efficacia la loro rabbia). Ma tutti coloro per i quali la passione rivoluzionaria era una forza «biologica», un’energia radicata profondamente nel loro essere, hanno continuato a tessere la tela di Penelope della teoria, e a sperimentare le precarie soluzioni che consentissero di sopravvivere e sottrarsi comunque all’invadenza del presente, appiattito e mistificante. Alcuni si sono buttati in «romantiche» peripezie in Paesi esotici – anche lì tallonati dall’ideologia dell’avventura turistica – altri hanno soddisfatto la propria nostalgia col crimine. Molti sono morti, altri in carcere, quasi tutti comunque «finiti male», come doveva succedere a individui non dotati di ricchezze patrimoniali né di «saper vivere» accumulato, e comunque mai interessati ad aver successo in questo mondo. Per la corrente radicale il peso della repressione diretta è stato relativamente secondario, rispetto all’autentico massacro causato dall’autodistruzione o da forme poco appariscenti di liquidazione sociale (routine poliziesca e terapeutica; regolamenti di conti in seno alla famiglia; emarginazione coatta e omologazione alla malavita; assassinio della passione). Da questa vicenda c’è una lezione di vitale importanza da estrarre, tanto più in un’epoca spietatamente cinica e nichilista come l’attuale, che esalta in modo brutale e diretto i valori del capitale, in cui i rivoluzionari sono sottoposti a un martellamento ideologico ossessivo che li spinge a considerare con amarezza e pessimismo la propria inattualità.”


C'è un tocco di romanticismo (e di qualche suo addentellato meno fascinoso) in questa diagnosi, giacché non ci sono da una parte i rivoluzionari e dall'altra i “normali” (cioè i mediocri) esseri umani (loro sì capaci di adattarsi al nichilismo e al cinismo correnti); e gli errori, o comunque li si voglia chiamare, e l'erranza, come possono toccare questi e quelli, quelli e questi ne subiranno le conseguenze con analoga imperturbabilità somministrate. Quella che si sconta vivendo è la stessa vita di tutti, come si dovrebbe ricordare sempre, altrimenti ricompare, al bivio, l'homunculus.


Riannodando in una digressione vari episodi della storia recente del movimento rivoluzionario, Santini scrive:

Il punto centrale nel quale si possono identificare i contenuti caratteristici della corrente comunista radicale è la convinzione di essere entrati in un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive è tale da consentire un’affermazione diretta del comunismo, finalmente al di là dei problemi della transizione e del socialismo: lo sviluppo della scienza, della tecnica, del macchinismo e dell’automazione sono tali da consentire una radicale liberazione dal lavoro. La ricchezza accumulata dal capitale rende possibile una realizzazione immediata del comunismo.

Questo contenuto centrale ben corrisponde al senso generale del movimento che «rivoluziona i rivoluzionari», scuote i limiti della loro vita e li apre a una prassi che non segue più in alcun punto gli schemi tradizionali di tattica/strategia, lotta economica/lotta politica, sindacato/partito.”


La questione dell'affermazione diretta del comunismo, nei tempi attuali, o è veritiera o non lo è. Se fosse vera sarebbe stata verificata dalla prassi, oppure dalla prassi sarebbe stata verificata la sua falsità. Santini non differenzia sempre azione sociale e vita quotidiana rivoluzionata, ma se non è impossibile bypassare alcune mediazioni organizzative, ufficiose e no, almeno per un certo periodo, le amarezza della vita quotidiana non consentono salti qualitativi che prevedano l'estasi nei rapporti umani (“la sperimentazione di possibilità che conducessero in modo diretto all’estasi”, scrive Santini), durevolmente, intendo dire.

L'autore scrive che, ad un certo punto, all'inizio degli anni '70: “Solo la prossima ripresa del movimento avrebbe riproposto le questioni dinamicamente nella loro reale dimensione. Nel frattempo si trattava d’investire con la critica l’interiorità che tendeva a essere colonizzata dal capitale, e tutte le sfere discrete e private, sequestrate dal capitale totale che si stava impossessando degli individui. Di fronte al prossimo riapparire della rivoluzione, era necessario essere pronti avendo forgiato le armi teoriche non più della negatività, ma dell’affermazione e della fondazione teorica del comunismo. La possibilità concreta era quella di arricchire immensamente le nostre armi con l’apporto della tradizione marxiana e bordighiana. Ma da una parte la tendenza immediatista si sarebbe ostinata nella sua utopia, creando Comontismo; dall’altra Cesarano avrebbe prodotto lo sforzo teorico più intenso, assumendo su di sé, vivendole nel suo percorso teorico-pratico, le contraddizioni di tutta la corrente.”

In queste parole mi pare di avvertire non soltanto una certa sopravvalutazione del compito della teoria, come se la realtà attendesse di essere descritta da qualche teorico prima di svelare le forme originali del cambiamento, oppure che, per essere percepita come novità, qualcuno (il teoreta) ne debba descrivere quegli abiti nuovi che altrimenti nessun altro avrebbe potuto distinguere, ma anche la sensazione di una sventurata provvidenzialità nell'ultima incarnazione di questa teoria.

Santini così scrive:

La forza e i limiti di Cesarano stanno nell’aver prodotto una sintesi potente e unitaria della teoria di tutta un’epoca, creando una complessa macchina critica, contenente però anche le contraddizioni di fondo del movimento di cui era espressione. Egli stesso rimase profondamente coinvolto nell’impasse generale. Bruciandosi tutti i ponti alle spalle abbandonò anche la prospettiva collettiva che sarebbe stata necessaria proprio in quel momento. Rinviando a un movimento futuro impregiudicato la soluzione dei problemi incombenti – benché Critica dell’utopia capitale fosse il prodotto e il rispecchiamento di quella situazione –, Cesarano non si pose in modo esplicito e dichiarato il problema dell’attraversamento di una fase di riflusso. L’astrattezza di certe conclusioni di Cesarano è dunque da ricercarsi nella crisi dei comunisti radicali di fronte alla nuova fase di arretramento. La stessa profondità e ricchezza, per contro, del suo pensiero possono offrire gli elementi per spiegare e demistificare il crollo di tutta la corrente, di fronte alle possibilità e alle prove del ciclo di lotte successivo.”

Nel rispecchiamento reciproco delle rispettive mancanze, sembra che, non avendo Cesarano affrontato il tema dell'attraversamento della fase di riflusso, questo inevitabile riflusso abbia travolto molti radicali, trascinando nel crollo tutta la corrente.

Parlando dell'organizzazione, in uno dei paragrafi più interessanti di “Apocalisse e sopravvivenza”, vengono confrontati, come modelli opposti, “Comontismo” ed “Invariance”.

Le conclusioni di Santini appaiono nette:

Abbiamo qui esposto due modi di vedere l’organizzazione tipici dell’inizio degli anni Settanta, che possono essere respinti senza rimpianti, a maggior ragione senza alcuna mitizzazione da parte di elementi più giovani.

Il primo, quello comontista, è il modello della comunità umana-partito storico-banda di delinquenti. Benché stimabile su di un piano umano (come lo è il suo attuale epigono: il gruppo francese Os Cangaceiros), e sovente interessante per le soluzioni pratico-organizzative-abitative che propose (i rivoluzionari devono vivere «come se» il comunismo fosse già realizzato e possono affrontare solidalmente la terribile lotta per la sopravvivenza, per loro doppiamente dura) è fondato sul risentimento: il proletariato non è rivoluzionario, perciò «noi» (piccolo gruppetto) siamo il proletariato; siamo la comunità umana già realizzata. Ciò porta a valutare dogmaticamente e ideologicamente il proprio operato di setta e a offrire gli sbocchi più disastrosi: dal terrorismo sempre incombente dell’autocritica imposta a ogni gesto e parola, al feticcio della coerenza; dalla sempre possibile regressione politica, causata soprattutto dal fascino dell’azione, alla trasformazione pura e semplice in banda di delinquenti. Il tutto fondato sul ricattatorio feticcio-totem della «pratica», sul disprezzo ideologico per la teoria e l’azione lucida.

L’altro, quello invariantista, estesosi poi a gran parte della corrente radicale, è il modello dei rapporti tra «teorici». In questo caso l’enorme feticcio-totem della teoria nasconde l’unilateralità di rapporti limitati a una ridottissima élite di «critici». Questo atteggiamento, ora che sono scomparse le illusioni sulla rapida e abbondante «produzione dei rivoluzionari», sarebbe puro e semplice individualismo. In compenso non farebbe altro che appiattirsi sulla realtà in cui i rivoluzionari sono già isolati. Aumentare ancor più la loro attuale impotenza con una tale presa di posizione contro l’organizzazione non avrebbe senso. Il possibile sbocco di chi continuasse ancor oggi, in piena e angosciante atomizzazione dei rivoluzionari, a insistere nella fobia anti-rackettistica o nella esclusività dei rapporti tra pochi eletti (sempre che riuscisse ancora a trovare qualcuno) al livello più alto (e poi: più alto di che?) della teoria, non sarebbe particolarmente stimabile.

Mentre oggi è palese che ogni rinascenza dell’attivismo e del militantismo conduce di volata al ritorno nella politica, d’altra parte dev’essere chiaro che il feticcio della teoria separata dall’efficacia e dalla pratica collettiva, se possibile organizzata, non offre una prospettiva per niente allettante. I princìpi comunisti, unitamente a una teoria critica vivificata dal confronto con la produzione teorica dell’ultimo ventennio e al principale risultato del recente passato – e cioè l’istanza di una rivoluzione della e per la vita, la messa in discussione dei limiti dell’Ego e dell’identità personale (di cui l’opera di Cesarano costituisce un’esauriente ed entusiasmante denuncia), l’esperienza vissuta della rivoluzione nella rivoluzione –, sono le uniche garanzie contro la degenerazione rackettistica, cui non si sfugge con l’isolamento autovalorizzante e tantomeno attraverso vie originali e personali a una presunta creatività.”


Le conclusioni a cui giunge l'autore, nella loro invariata amarezza, conducono sempre allo stesso quadro, alla medesima scena, in cui l'identico eroe è raffigurato solitario (o quasi), sviando lo sguardo però, all'ultimo momento, da quelle manchevolezze che contribuivano (anche esse!) a farne un punto di riferimento esemplare di una fase storica della teoria radicale, di una corrente rivoluzionaria e dunque lo specchio per gli tutti gli altri:

Cesarano fu l’unico a muoversi davvero al più alto livello, producendo una teoria chiara ed esplicita del tutto anti-esoterica, cercando vanamente uno sbocco umano in questo ambiente pseudo-intellettuale, contraddistinto da una fragilità assoluta e da una formidabile incoerenza (se si escludono Piero Coppo e Joe Fallisi, gli unici tra i suoi collaboratori ad aver mantenuto la coerenza rivoluzionaria, senza peraltro aver mai nutrito pretese di superiorità derivanti dal possesso della teoria).”

Ma se questo frammento di comunità umana (i cosiddetti radicali, comunisti, rivoluzionari), se questa provvisoria Gemeinwesen, frammentata, asfittica e circoscritta com'era, risulta così tanto deludente, perché allora si deve continuare guardare solo ad essa, e solo ad essa rivolgere parola? Infatti Santini riferendosi ad una precisa fase storica del movimento di un ambiente rivoluzionario che “in quanto tale è troppo asfittico”, scrive che appare come “una parodia nostalgica di quello che fu”. Al tempo stesso, come le cause della delusione si mostrano irrisolte se non irrisolvibili, neppure l'ipotesi di una fuoriuscita dalla segregazione della prospettiva in un ambiente fallimentare appare se non risolutiva nemmeno concepibile, se poi l'autore, imperterrito, come se nulla avesse affermato prima, prosegue a narrare le vicende successive di quel milieu, e di quello soltanto.


Quando parla della rivoluzione biologica di Cesarano e Collu (cioè di Apocalisse o rivoluzione), l'autore di Apocalisse e sopravvivenza così conclude:

Nei primi anni Settanta, la consapevolezza che la catastrofe del capitale minaccia realmente la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta, e la scommessa disperata e passionale sulla vitalità della specie che ha dato già prova di sé nel ciclo di lotte appena conclusosi, è una caratteristica forte, di fondo, che può giustamente costituire una sintesi delle posizioni, pur diversificate, di tutta la corrente radicale all’alba della nuova epoca. La forza dell’alternativa, la vita contro la morte, invece che proletariato contro capitale, è segno della relativa vitalità teorica, ma è anche segno di difficoltà a fondare le proprie ragioni nella contraddizione specificamente sociale. Nel disconoscimento del dato di fatto che a produrla è stato un ben preciso movimento sociale, si annuncia anche l’insterilirsi di tutta la corrente, che, illusoriamente, allucinatoriamente, «alza la posta» delle proprie affermazioni, ma si appresta a vivere il proprio declino e tramonto nel giro di pochi anni.”

Su questo punto ci sarebbe un che da dire, e cioè che l'indicazione immediata e prospettica di una rivoluzione biologica non poteva essere lanciata altrimenti che per abbandonare definitivamente l'orizzonte politico-sociale delle concezioni rivoluzionarie precedenti, e che, con quelle, questa non aveva più niente a che spartire, nessuna eredità e nessun debito. Ma una prospettiva di liberazione della specie umana, quindi non più politica né sociale, non la si rafforzava attardandosi a contare i morti sul terreno disprezzato e abbandonato della politica, non si elaborava una strategia globale unendo il proprio destino alle disavventure degli ultimi soldati dispersi delle concezioni burocratico-militari del passato, sventolando ancora le lacere bandiere di quelle feroci illusioni. Quella che Cesarano e Collu avevano cominciato ad elaborare non era una parata nostalgica di vecchie glorie (ed orribili misfatti) e da quell'intuizione poco più che germinale e che stentava a muovere i primi passi doveva seguire un lavoro collettivo di grande impegno e di più vasta diffusione. Questo non fu fatto. Sostanzialmente, le novità che provenivano da Cesarano e Collu non ebbero alcun seguito.

Santini rievoca le piste (di cui rimanda il racconto, la storia) di una sperimentazione collettiva:

Nei primi anni Settanta vi fu un grande allargamento della prospettiva e delle fonti teoriche dei rivoluzionari, corrispondente anche a una notevole ricchezza esistenziale e alla sperimentazione di nuove dimensioni. La volontà di realizzazione pratica immediata non trovava più sbocco nelle lotte sociali, e vi era il tentativo di mantenere una dimensione radicale nella vita quotidiana. Le teorie immediatiste trovavano un vasto terreno di applicazione: criminalità, follia, sperimentazioni sessuali corrispondevano alla verità pratica di molti di noi. Sotto forme comunitarie o come avventure individuali, esclusa ormai totalmente dai nostri interessi la «politica», si cercò di passare a una dimensione creativa, affermativa, che corrispondesse alla esigenza teorica prevalente: quella di fondare il comunismo. La ricchezza di queste esperienze sfugge in gran parte alla ricostruzione a posteriori, giacché si tratterebbe di discutere peripezie individuali che non sono state mai raccontate. Un notevole peso ebbero anche i movimenti di liberazione sessuale, femministi, omosessuali. Nell’insieme, malgrado i rischi, e le cadute, la portata dell’esperienza complessiva di quegli anni ci pare molto ricca e nel complesso degna del movimento che l’ha preceduta, tanto da meritare, all’occasione, una trattazione a parte.”


Forse quei tentativi (e la ricchezza di quelle esperienze) furono più velleitari che fruttuosi, e quella presunzione che incarnavano - di cui l'immediatismo era la conseguenza -, di travolgere decine di secoli di addomesticamento in un batter di ciglia, avrebbe dovuto essere il primo degli obiettivi di una critica radicale conseguente.

In questo senso un inciso di Santini (autobiografico ed autocritico) sul senso e sullo scopo della teoria è, in qualche modo, illuminante:

Poiché la teoria è previsione o non ha ragione di essere, le profezie, fondate su calcoli accurati dei cicli di crisi, formulate da Bordiga negli anni Cinquanta, divennero spontaneamente tra di noi un «articolo di fede» semiserio, in quanto risolvevano tutti i dubbi teorici: una profezia faceva riferimento al ’75, un’altra, maggiormente precisa e specifica, indicava nel ’77 la data di una crisi e di una violenta convulsione del capitalismo: per noi, tout court, la data della rivoluzione.”


Santini, nel passo seguente, piuttosto esteso, durante il panegirico dell'autore di Critica dell'utopia capitale, si scopre a parlare in realtà dell'impazienza di Cesarano, mentre scorre l'ampiezza del suo scontro con le invasive e concorrenti ideologie del dominio sull'uomo:

Al rifiuto netto e reciso di continuare la lotta nei modi della «politica rivoluzionaria», che inevitabilmente ci avrebbe integrati all’essere del capitale, non corrispondeva alcun cedimento sul piano individuale. La critica dell’ideologia quotidianista, dell’«ideologia della critica della vita quotidiana», non deve trarre in inganno. Essa non corrispondeva affatto a un ripiegamento nel «privato» o nella dimensione dimessa del «teorico» rivoluzionario. La tensione individuale restava fortissima. Anzi. La «pratica dell’isolamento» costituì una radicalizzazione estrema della dimensione rivoluzionaria, che si sottraeva a ogni compromesso. E continuava a sperimentare l’avventura della passione individuale, del sovvertimento dei rapporti familiari e borghesi, dell’ampliamento in ogni direzione e con ogni mezzo della coscienza. Di questa dimensione Critica dell’utopia capitale costituisce un’esemplificazione cristallina. Nell’opera di Cesarano è assolutamente evidente la tensione cui si sottopone l’individualità stessa del rivoluzionario: il tono drammatico esprime come non si tratti certo «solo» di «teoria». L’attacco contro l’identità fittizia è portato a fondo. La critica mette in discussione l’Ego «rivoluzionario» stesso, le sue maschere autovalorizzanti, e i diversi ruoli che deve forzatamente interpretare nella dimensione irreale della sopravvivenza. La vera guerra è una dimensione di cui, sottolineando la natura «biologica» della rivoluzione, si chiarisce, al di là di ogni possibile equivoco, la materialità.

È «guerra d’amore»: di carne, sangue, sofferenza ed estasi.

Ciò che, di questa dimensione soggettiva specifica, può, dopo tanti anni, e tante disfatte, sfuggire al rivoluzionario che legga oggi Critica dell’utopia capitale è l’esigenza, quasi preliminare, di Cesarano di sfuggire a ogni nuova ideologia. Infatti, mentre lottava a fondo contro la riconciliazione, sotto qualsiasi forma, con la società del capitale, egli doveva mantenere una critica intransigente di quella neo-precettistica rivoluzionaria, di quei nuovi modelli di «stile di vita», che proprio in quegli anni erano ben presenti nell’ambiente a lui più vicino.

Ricapitolando, la lotta di Cesarano doveva svolgersi simultaneamente su vari piani: da una parte la critica concreta, la vera guerra, l’affermazione della dimensione più profonda del comunismo, risoluzione di tutte le contraddizioni dello sviluppo della preistoria, «affermazione della specie umana», della vera Gemeinwesen dell’uomo, affermazione «a titolo umano», ma che non prescinde assolutamente dalla contraddizione vivente che la sostanzia: l’individuo rivoluzionario, «sospeso» sull’ignoto, ma in movimento con una direzione ben precisa verso l’estasi, l’avventura, la passione, messo alla frusta dalla sua fame di nuovo e di autentico: armato solo di capacità critiche e di creatività, privo di esperienze storiche prefabbricate, incontrava sul suo cammino trappole sempre più numerose. Per cui Cesarano doveva evitare ogni possibile ricaduta in una precettistica della radicalità, in quell’intransigenza formalizzata di cui aveva già potuto constatare gli effetti. Nello stesso tempo aveva ben presente lo stemperarsi del movimento rivoluzionario nella sua dimensione più ampia, mondiale, nelle nuove ideologie fornite dal recupero dello «stile dei Sixties». Se, per esempio, fino al ’67, l’esperienza degli hippies statunitensi aveva costituito un aspetto nuovo e autentico del movimento rivoluzionario, già all’inizio degli anni Settanta il capitale aveva fatto saldamente propria l’ideologia «trasgressiva» degli «alternativi» californiani, e la stava diffondendo su tutti i mercati dell’ideologia.

Cesarano affermava il profondo contenuto «individuale» della rivoluzione, la critica implacabile di tutte le forme della quotidianità alienata incorporata definitivamente dalla rivoluzione a partire dagli anni Sessanta; negava l’autonomizzarsi della teoria in dogmatismo terroristico, in quella sorta di falloforia del negativo che aveva preso, attorno a lui, la forma di ideologia dell’«illegalità», di elogio del teppismo e del furto; e attaccava la diffusione ormai generalizzata di frammenti di critica della vita quotidiana da parte delle centrali culturali direttamente sottoposte al capitale, che coinvolgeva ampi settori di movimento giovanile già contestatari.”


Un aspetto del panegirico di Santini riguarda il rapporto tra la teoria di Cesarano e l'uso dell'LSD.

A partire da questo passo:

La partenza non può essere che l’intuizione folgorante, e in questo senso concretamente e vitalmente iniziatica, del punto di vista della totalità. Questa frase sorprendente balza fuori dalle pagine del libro e dà la dimensione dell’esperienza di Cesarano. Se nelle restanti pagine di questo nostro scritto, per scelta, non si parla di lui se non come singola molecola di un movimento storico e, all’interno di quest’ultimo, come esponente della corrente più radicale e portatrice del più ricco e innovativo apporto teorico, per un momento vogliamo sottolineare la singolarità di Cesarano. «Intuizione folgorante […] del punto di vista della totalità»! Come non pensare, immediatamente all’LSD?”

Varie volte [Cesarano] rimanda all’esperienza-prova dell’acido lisergico”, scrive Santini, che afferma (non pare ironicamente) che Cesarano “si temprava con l’acido lisergico”.

Uno dei “riferimenti chiarissimi all’LSD” è il seguente, citato dallo stesso Santini (il passo è tratto da “Critica dell'utopia capitale”, pag.31):

«Per denaro si “vive” morendo asserragliati nelle case, per vivere si spende sangue sui marciapiedi del denaro. Di stupefacenti sarebbero, secondo i sapienti, avvelenati i selvaggi. Infatti, la droga guadagna spazio, mentre sulla droga guadagna il capitale. Ma la droga allucinogena, quella per intenderci che libera dall’allucinazione della “vita”, con l’abbassare la soglia che filtra cioè economizza le percezioni, attacca direttamente l’economia che impoverisce ciascuno inchiodandolo alla scheda perforata delle percezioni programmate per lui dalle gerarchie del sapere, e, con il consentirgli finalmente di vedere ciò che non aveva mai visto prima, lo dischioda dal “reale”, gli restituisce la verità che gli pertiene. Non può essere, tale verità, che atroce: umiliante e terrifica. Ma definitiva, indimenticabile. Lo strappo non è reversibile, si lamentano i sapienti. Terrorizza, sgomenta, inselvatichisce. Ciò che terrorizza, ciò che sgomenta e ciò che, nei migliori dei casi, inselvatichisce non è, al contrario, che la visione della loro “verità”, di colpo denudata.»


Santini ha contrapposto l'apologia dell'eroina da parte dei Comontisti a quella dell'LSD da parte di Cesarano (ma per farne che, di questa polarizzazione?).


Su questa china si può notare anche il ricorrere terminologico dell' “estasi” (e della ricerca dell' “esperienza estatica”) nell'autore di Apocalisse e sopravvivenza. Quando, per esempio, esaltando la rivoluzione biologica, scrive che essa “è «guerra d’amore»: di carne, sangue, sofferenza ed estasi.” Quanti dubbi possono scaturire da una sola parola, quando si legge che “la rivoluzione moderna si affaccia sull’abisso degli istinti, dell’inconscio, del rimosso, per spiccare il volo alla ricerca dell’estasi” (!) .

Quando Santini squarcia i veli del significato da questa espressione (inquietante) ecco che ne salta fuori:

Il decennio ’67-’77 ha modificato irreversibilmente la soggettività rivoluzionaria e il suo modo di percepirsi. In questo senso torna sul cammino delle tradizioni religiose e della magia, per svelare conoscenze che nei secoli sono state sequestrate dall’esoterismo delle caste dominanti precapitaliste.”



Infine, secondo Santini, che cosa è stato recepito della teoria di Cesarano? E in che modo?

Non molto e male. Già il titolo del diciassettesimo paragrafo: “Esaurimento della corrente radicale nel periodo di riflusso” non brilla per ottimismo.

La citazione che segue è tratta da quel paragrafo:

Si potrebbero ripercorrere tante vicende individuali, ma sostanzialmente quel che importa sottolineare è l’indebolimento generale della corrente rivoluzionaria. In questo senso fu possibile fare un uso «controrivoluzionario» dello stesso Cesarano. Tipica fu la cantonata di coloro che pervennero alla «critica della politica» proprio nel momento in cui – dal ’75 in poi – la situazione sociale cominciava a riaprirsi. Il sabotaggio di «Puzz» fa parte di questo percorso (cfr. i due numeri pubblicati di «Provocazione»). In parte anche come reazione al cripto-gruppo comontista che collaborava con «Puzz» (Comontismo, benché sciolto, continuò a esistere informalmente fino al 1977), alcuni degli animatori della rivista imitarono l’atteggiamento d’«Invariance»: distruzione di ogni forma organizzativa, ancorché informale, nonché di ogni espressione collettiva, per non parlare di azione pratica o d’intervento a fianco dei movimenti sociali di più ampia portata che cominciavano a manifestarsi. Proprio quel rinascere dell’effervescenza sociale che aveva tanto appassionato Cesarano alla fine della sua vita, fu liquidato in quanto «politica» o «nichilismo», una tipica scoperta dei neofiti della teoria radicale.”


Nel diciottesimo paragrafo, Santini accenna al '77 , al riaccendersi della protesta giovanile e alla complessiva debolezza degli elementi radicali al suo interno:


Si dovette constatare che l’esperienza collettiva di cui avevamo fatto parte, si era esaurita, non aveva retto al logoramento del quinquennio precedente.

In alcuni aveva prevalso un atteggiamento risentito verso la classe che non aveva «voluto» essere rivoluzionaria. Da cui l’analisi che rinnegava totalmente la concezione della lotta di classe, considerava il proletariato come controrivoluzionario, ed elogiava l’immediatismo, purché aggressivo, violento, folle. Grosso modo è questo atteggiamento psicologico-teorico che avrebbe dato il via al nichilismo attivo, armato. La sfiducia nella classe rivoluzionaria – non più tradita ma traditrice – produsse la sostituzione del proletariato da parte dell’avanguardia rivoluzionaria stessa, che provvedeva a prendere direttamente le armi in prima persona. Questa tendenza provò a ricattare tutti col senso di colpa verso le vittime che ben presto la repressione statale fece nelle sue fila, diffondendosi nelle metropoli dove lo scontro era più duro. Ma ebbe breve durata, dato il suo scarso respiro organizzativo. Più che altro brillò di luce riflessa delle imprese degli stalinisti delle Brigate Rosse.

In altri, invece, il ruolo privilegiato assunto dalla teoria generò l’equivoco d’identificare la rivoluzione con la produzione di qualche pamphlet in cui criticare tutto e tutti. Questa tendenza, che aveva i suoi precedenti nel nichilismo passivo già descritto prima, ebbe l’effetto più disastroso: alla passione rivoluzionaria si sostituirono grottesche ambizioni intellettualistiche. Tale atteggiamento ebbe la sua più tipica diffusione in paciose realtà di provincia, dove un certo atteggiamento saputo poteva produrre risultati autovalorizzanti. Oppure in altre realtà, al primo affievolirsi del movimento, mancando le occasioni per criticare il gauchisme degli autonomi, la «teoria» dei radicali finì con l’isterilirsi da sola per mancanza di oggetto, e la pratica con l’esaurirsi nel solito isolamento compiaciuto dalla realtà della volgare plebaglia rossa.

Entrambe queste tendenze avrebbero potuto trovare il loro antidoto nelle opere di Cesarano, se lo avessero capito. Tra l’altro egli aveva fornito tutti i dati per una critica dei processi di autovalorizzazione dell’Ego e per il rifiuto senza appello delle putride piste dell’arte e della cultura, e in Cronaca di un ballo mascherato – testo scritto insieme a Piero Coppo e Joe Fallisi – aveva prodotto per tempo una critica esauriente dello sviluppo e del destino del lottarmatismo.”


Una voce isolata (come quella di Cesarano) non poteva essere un antidoto ad alcunché (come analogamente, in quello stesso periodo, non furono ascoltati Debord, Sanguinetti o Capa). Come prima di loro non furono ascoltati Bordiga (i “mitici Bordiga e Vercesi - Ottorino Perrone -”) o Pannekoek o molti altri ancora.

Delle due tendenze isolate da Santini, la prima, quella affascinata dal lottarmatismo, era la più frastornata e debole, la meno avvertita riguardo alla falsa posizione in cui veniva a trovarsi, quella che più superficialmente aveva orecchiato i discorsi di Cesarano o di Invariance o di Puzz-Provocazione.

Della seconda, il minimo che si può dire è che non ebbe sufficienti capacità per far avanzare di un passo le intuizioni di Cesarano e per iniziare ad inserirle in quel puzzle (sterminato) che l'autore di Critica dell'utopia capitale aveva in mente (per averne un'idea, basta scorrere l'elenco delle letture e le note, gli appunti che compongono quel libro).

Eppure, che nella distruzione delle forme ideologiche e organizzative del passato si conservasse il cuore di un'embrionale comprensione della posta in gioco offerta dalla teoria di Cesarano non può essere escluso senza barare con essa. Proprio in quel rifiuto e non altrove. Ma questo non significava certamente che ci si dovesse fermare a quel punto. Inoltre ci voleva grande pazienza, e ce ne vorrà ancora tanta, affinché prosegua il duro lavoro del negativo e ci si avvicini all'obbiettivo che Cesarano credeva di avere davanti agli occhi, come se fosse a portata di mano.


25 luglio 2007