Questa è una storia vera,
ma, per proteggere la privacy dei
protagonisti,
i nomi sono stati tutti
cambiati...
La Storia di Berta &… C.
Il lungo idillio con Berta è cominciato i primi
giorni del primo liceo. All’inizio, come tutte le storia d’amore, il sentimento
reciproco era molto tiepido: un’altra delle cento avventure di noi, giovani
studenti, con il corpo insegnante.
La vecchietta ultra-sessantenne si era presentata
come la nuova insegnante di Latino e Greco, per i prossimi tre anni, fino alla
maturità classica, e si era ripromessa di fare un buon lavoro in comune, per
rivelarci tutti i segreti delle meravigliose lingue di Cicerone e di Erodoto.
Impossibile dire che la lezione di apertura ci
avesse entusiasmato, comunque nessuno, a parte forse Nino, sospettava
minimamente cosa sarebbe successo di lì a poco.
Non ci mancavano certamente interessi scolastici a
quel tempo: il prossimo “derby”, le ragazze del quinto ginnasio, la nuova
Lambretta di Giacomo e la lega di calcio balilla contro il primo B, che voleva
la rivincita dalla bruciante sconfitta dei quinti dell’anno passato...
Il corpo insegnante si era completamente
rinnovato, tranne Don Pulci, il simpatico prete che ci passava l’ora
settimanale di Religione. Don Pulci era Laziale, mentre noi, Armando escluso, eravamo
tutti romanisti, quindi i pronostici del totocalcio quel giovedì avevano la
precedenza sui Dieci Comandamenti.
I miscredenti più accesi avevano perfino promesso a
Don Pulci che si sarebbero confessati, se la Lazio avesse vinto, cosa ritenuta....
impossibile.
Dal quinto al Primo avevamo perso per strada
qualche compagno, specie donne. In via del tutto naturale era diminuito
l’interesse per il sesso debole della classe, in tutto sei ragazze, di cui solo
tre passabili (+ una quarta... con la condizionale), ed era proporzionalmente
aumentato l’interesse per gli altri argomenti scolastici di cui ho parlato
poc’anzi.
Uno dei nostri sport preferiti, in cui eccelleva
specialmente Paolo, era l’a-sport-azione di... tutti gli oggetti “asportabli”.
La collezione comprendeva oggetti semplici, come il cancellino, il cestino dei
rifiuti ed i perni dell’attaccapanni, ed oggetti che difficilmente potevano
essere asportati, senza che la mancanza fosse notata: la manovella delle
finestrelle superiori e... la fòrmica dei banchi.
La tattica generalmente adottata era quella
dell’asportazione graduale, in cui l’oggetto spariva un bel giorno, per
riapparire l’indomani, se il bidello o qualcuno del corpo insegnante ne aveva
notato l’assenza. La manovella della finestra centrale aveva fatto
l’andirivieni una ventina di volte ed il ritratto del presidente della
Repubblica una decina. L’unico oggetto tabù era, ovviamente, il Crocifisso.
I perni dell’attaccapanni sostennero una strenua
lotta ad ogni intervallo, finendo per arrendersi uno ad uno, ma ritornarono
puntualmente al loro posto dopo il primo acquazzone d’Inverno, per dare la
possibilità ai più freddolosi di appendere i cappotti. Ogni tanto uno dei perni
cedeva sotto il peso degli impermeabili, ma cosa volete pretendere da un povero
pezzo di legno appena incastrato nel suo buco, senza ombra di colla o di
chiodi?
Impresa molto più complessa si rivelava
l’asportazione della fòrmica dei banchi; il possesso di un pezzo quanto più
grande possibile era innanzi tutto una questione di prestigio, un po’ come la
tessera di riconoscimento della leadership. Nino possedeva dal Quinto un pezzo
raro, grande come una mattonella, ed era considerato un po’ il capo della
classe, riguardo tutte le “azioni” future, fino a che qualcuno non fosse
riuscito ad impossessarsi di un pezzo di formica più grande.
A prima vista “spellare” lo strato di formica
piano di un banco, in tutto circa un metro quadro, può sembrare un’impresa
facile, ma in realtà esistono problemi tecnici e... sociali che la rendono
insormontabile.
Il primo problema puramente tecnico è quello di
trovare il punto debole del piano, in generale uno degli angoli, dopodiché è
possibile continuare lo spellamento, piano piano.
Due nemici giurati si
oppongono all’impresa: il primo è la colla del costruttore, nelle cui
intenzioni c’era stato un banco decisamente destinato a servire almeno tre o
quattro generazioni. Il secondo era il ”punto critico”, momento delicato in cui
la più piccola pressione causa una frattura nella formica e rende inutile tutti
gli sforzi per ottenere un pezzo più grande. Il punto critico può variare da
banco a banco e dipende dall’utensile usato per il lavoro: nel caso dell’abituale
cacciavite, è molto difficile ottenere un pezzo di formica più grande di mezza
mattonella, specie se la colla è particolarmente resistente.
Questi sono i problemi tecnici. Riguardo quelli
sociali: innanzi tutto non tutti i banchi potevano essere spellati. E’ chiaro
che se Pepe, che sedeva in prima fila, avesse deciso di darsi da fare, la cosa
sarebbe stata immediatamente notata, quindi i banchi “spellabili” erano solo
quelli dell’ultima fila: quelli di Nino, Paolo e Remo.
Dopo un mese di duri sforzi Paolo era riuscito ad
arrivare quasi al punto critico, Nino seguiva a ruota, mentre Remo era stato
costretto da un angolo particolarmente incollato a scambiarsi di posto con Pasqualino,
per procedere all’azione dalla parte opposta.
L’insegnante di Italiano era passata
dall’insegnamento alle medie inferiori a quelle superiori, per la prima volta
quell’anno; Il sabato prima del derby Ernesto, che senza dubbio era il più
acceso tifoso romanista della classe, aveva scritto sulla lavagna “M la Lazio in
caratteri cubitali. Purtroppo, prima di poter completare la scritta con le
virgolette, l’insegnante fece il suo ingresso trionfale e lo colse sul fatto.
Ernesto le dette un buongiorno rumoroso, non
celando un largo sorriso di soddisfazione da un orecchio all’altro.
L’insegnante, indubbiamente era rimasta stupefatta di essere stata accolta, il
primo giorno di lezione, non da una classe di ragazzini in religioso silenzio
sull’attenti, in trepida attesa di rispondere al buongiorno, bensì da un
giovanottone grasso dalle mani sporche di gesso, come un cantante blues che,
inoltre, le ostruiva l’accesso alla cattedra.
La reazione fu immediata
e... malpensata: Ernesto fu spedito... dietro la lavagna!
La scena era era veramente comica. In Primo Liceo dietro la lavagna! Mancava
soltanto il cappello con la scritta “ASINO” ed eravamo pronti a ritornare ai
tempi delle favole!
Ernesto non poteva
trattenere le risate, e noi, una volta ripresi dallo shock, avevamo
incominciato a muovere le sedie per protesta.
Sedevamo ai banchi a coppie, ma ognuno aveva la
sua sedia personale. Alle gambe c’erano dei tappetti di gomma che, a forza di
stofinamento, erano completamente consumati, così che il minimo movimento
causava uno stridìo insopportabile.
Nella confusione generale Ernesto produsse il suo
famoso verso della foca, un poderoso suono riproducente a perfezione il latrato
di quel nobile animale, ma “leggermente” aumentato di un bel po’ di decibel.
La povera insegnante non sapeva più cosa fare, e
la campanella della fine salvò la situazione.
Ci alzammo tutti in piedi, concludendo così, con
un poderoso stridìo, ed andammo a presentare le condoglianze a Ernesto per
l’accaduto, preparandoci alla grande festa del lunedì, per la certa vittoria
della Roma.
La Lazio vinse per 2 a 1. Il goal della vittoria
era stato segnato in presunto fuorigioco.
Lunedì Armando era raggiante, mentre tutti gli
altri erano in lutto, specie Pepe, Ernesto e Paolo.
L’insegnante di Storia dell’Arte era un tipo
decisamente nevrotico. Al minimo rumore saltava su e cominciava a parlare con
un tic nevrotico dei lavori medievali del Gotico e del Romanico, facendo
domande all’improvviso, per richiamare l’attenzione, il peggiore sistema per
richiamare l’attenzione. Gabriele e Giacomo erano sprofondati in un’accanita
partina di “pallette e quadratini” e la suddetta interrogò Gabriele, sul più
bello della mossa conclusiva, sulla differenza tra la bifora e la trifora nella
costruzione dei campanili medievali. Gabriele, decisamente scocciato per
l’interruzione, se ne uscì con la frase, poi passata alla Storia: “Ma che ne so
io di quei campanili dei tempi che Berta filava! Adeso li costruiscono di
cemento armato!”. Per un buon mese l’insegnante di Storia dell’Arte fu chiamata
Berta.
La professoressa M.L. di Latino e Greco era un
tipo piuttosto arzillo. Proveniva da una buona famiglia, il padre era stato, a suo
tempo, giudice o giù di lì. Per circa trent’anni, dopo la laurea, si era
dedicata ad opere di beneficenza facendo, a quanto pare, la crocerossina in
Africa Orientale ed in Russia, durante la Guerra. L’attività non le aveva
consentito di mettere su famiglia ed era rimasta signorina. Negli ultimi dieci
anni si era dedicata all’insegnamento nel liceo “Tasso”, in città, da dove era
passata a noi, in seguito al cambiamento dello stile di educazione impartita.
In seguito alla riforma didattica, nei migliori licei
era incominciata ad apparire una maggiore apertura mentale da parte degli
insegnanti, nei confronti degli alunni, e la vecchietta, rimasta indietro di
almeno trent’anni, non era riuscita più ad accattivarsi la simpatia degli
alunni e del corpo insegnante di quel liceo, particolarmente aperto alle
innovazioni pedagogiche.
Tutto questo noi all’inizio non lo sapevamo. Lo
siamo venuti a sapere col tempo e poco a poco. L’unica cosa che notammo,
all’inizio, era la strana forma di dialogo della profesoressa, un misto di
Latino, Greco e di parole ripetute ininterrottamente, il tutto accompagnato da
una voce in falsetto ed da una risatina di soddisfazione ad ogni perla
letteraria:
“E allora, parlando di Catullo –vero- bisogna
ricordare che è il migliore poeta della letteratura –vero- latina, a meno che
voi non siate –vero- della scuola di Virgilio, e pensiate il contrario –vero- .
Daltronde nel periodo aureo –vero- non solo il ‘Carpe Diem’, ma anche il
‘Carmis Secularis’ sono da considerarsi –vero- ...” ...
A noi del ‘Carpe Diem’ non ce ne fregava un tubo,
naturalmente, ed ancora meno del ‘Carmis-vattelappesca’. Continuammo
indisturbati a discutere sulla posizione di fuorigioco dell’attaccante Laziale del derby. Pepe
ed Armando stavano cercando di dimostrare l’uno all’altro le proprie teorie
sull’incontro. La cosa richiedeva un
certa dose di acrobazia da parte di Pepe, che sedeva non accanto ad Armando, ma
al banco davanti a lui. All’inizio Pepe sussurrava, con la mano davanti alla
bocca, ma Armando non riusciva a sentire bene. Pepe prese ad inclinare la sedia
all’indietro, sostenendosi con la mano libera al banco, ma la sua posizione era
piuttosto precaria, finché, riscaldandosi nella discussione, fece una mossa
falsa e capitombolò a terra con tutta la sedia, producendo un suono terribile,
che riuscì a svegliare Nino dal suo profondo sonno.
La vecchietta osservò
stupefatta il grosso corpo di Pepe, che cercava di tornare a galla dolorante,
ed incominciò a spiegare che “Ai miei tempi –vero- i giovani erano forti e
prestanti e non cadevano dalle sedie” e non so che altre fesserie
sull’indebolimento generale delle nuove generazioni.
Nino le appiccicò quel giorno l’appellativo di
Nonna Abelarda, la vechietta arzilla e forzuta dei fumetti.
Nino era l’appiccica-soprannomi
per eccellenza. Il professore di Cimica, un toscano giovane e simpatico, venne
chiamato “Bernardo l’eremita”, o più semplicemente “Il Paguro”. Alla fine
dell’anno il Paguro chiese a Nino il perché di quel soprannome e ricevette la
seguente risposta: “Perché sei innocuo!”.
Tranne me ed Emma (la compagna “con la
condizionale”), due persone capitate quasi per sbaglio al classico, nessuno
eccelleva nelle materie scientifiche; la situazione era ancora passabile in
Matematica, perché l’insegnante, benché fosse un tipo decisamente nevrotico,
riuscì a mantenere un buon livello e, fin dall’inizio, la disciplina; nelle sue
due ore settimanali ci limitavamo a sonnecchiare, ed il tempo passava. In
Chimica non c’era, invece, proprio nulla da fare: il più bravo insegnante non
sarebbe riuscito a far entrare nella testa di Pepe e di Ernesto la differenza
tra l’Ossigeno e l’Idrogeno, nemmeno se avesse spaccato la stessa ed infilato
un foglio con la spiegazione. Il Paguro non era stupido e capì velocemente la
situazione. Cercò di interessarci alla materia, ma sapeva bene che, a parte due
o tre persone decisamente portate per la stessa, non valeva la pena di lottare
contro i mulini a vento e, quando durante le interrogazioni suggerivamo, faceva
finta di non sentire, se non avevamo alzato un po’ troppo la voce. In quelle
occasioni io mi scambiavo di posto con Pepe, che passava al terzo banco. Dalla
mia nuova posizione strategica passavo alla fase attiva: il sistema più
silenzioso era quello del linguaggio dei muti con le mani. Spesso l’interrogato
incominciava a dare una risposta e guardava per aria: con un leggero cenno del
capo e con una smorfia gli facevo capire se la risposta era sbagliata e la
situazione poteva essere salvata in calcio d’angolo nella maggior parte dei casi.
In cambio dell’aiuto dato in Chimica, ricevevo
simili suggerimenti nelle materie in cui ero debole. Per i compiti in classe di
Latino avevamo già un’organizzazione collaudata: Pepe curava la sintassi, Giacomo
traduceva la prima parte, Enzo la
seconda, Armando faceva la ricerca delle parole difficili ed io facevo il
postino. Ad una mezz’oretta dalla fine del tempo le varie parti venivano
concentrate da Giacomo, che curava la traduzione in buona lingua, e da lì
venivano sparpagliate a tutti i collaboratori, che procedevano a cambiare qua e
là qualche parola, per non consegnare delle semplici copie.
Il passaggio dei bigliettini richiedeva una certa
destrezza: uno di noi andava a chiedere una spiegazione, richiameando
l’attenzione da un lato, ed altri due passavano velocemente il documento
incriminato dall’altra, una tecnica in uso da varie generazioni in tutto il
mondo.
Un giorno la vecchia Abelarda ci dette un compito
particolarmente difficile. Nonostante gli sforzi il tempo stringeva e Giacomo
era ancora in fase di ritocco a cinque minuti dalla campanella. Nino perse la
pazienza, si alzò senza chiedere il permesso e, presa la brutta di Giacomo, si
mise a copiare il pezzo difficile, come se la cosa fosse perfettamente
naturale. Per la prima volta facemmo la conoscenza della faccia di Nonna
Abelarda in crisi: il colore grigiastro naturale cambiò in rosso di rabbia, in
giallo di bile, per passare al verdino e di nuovo al grigio. Gli occhiali a
mezzaluna quasi caddero dal naso e la frase strozzata venne fuori a stento: “Ai
miei tempi – vero – queste cose non succedevano!”
Nino venne spedito fuori dalla classe, ma non uscì
prima di aver finito il suo lavoro e di dire: “Va bene, vecchia, ma attenta
alla pressione!” La campanella suonò di lì a poco e concluse quel giorno
intenso di avventure.
La mattina seguente l’addetto ai manifesti, Ernesto,
scrisse “M la vecchia Abelarda” sulla lavagna. Il caso volle che la prima
insegnante ad entrare in classe fosse quella di Storia dell’Arte. Appena vista
la scritta prese ad urlare non so cosa sulla mancanza di educazione e sembrava
molto offesa di quell’appellativo, credendo che fosse diretto a lei. Ernesto
cercò di spiegarle che il suo soprannome era Berta e non Abelarda; la tizia non
mostrò la minima comprensione. Voleva sospendere l’autore, ma non potette
dimostrare chi fosse stato.
Visto l’entusiasmo da parte sua, decidemmo che il
nome Abelarda fosse di sua proprietà, mentre, venendo a mancare un soprannome
per l’insegnante di Latino e Greco, questa fu chiamata Berta.
Un mese dopo l’insegnante di Storia dell’Arte fu
trasferita e l’appellativo Nonna Abelarda andò in disuso. Il soprannome Berta,
invece, fiorì e passò alla Storia.
Una penna a sfera,
svuotata del refill, è un’ottima cerbottana, il riso è un proiettile del giusto
calibro e la testa di Genoeffa è sempre stata il miglior bersaglio.
Genoeffa era la ragazza più brutta della classe.
Bassa, con le trecce e gli occhiali, si vestiva da paesana e sempre fuori moda,
non era brillante in nessuna materia e sedeva accanto a Donatella che, quasi in
antitesi, era la ragazza più “bona” della classe.
È un fatto decisamente curioso, ma ripetutamente
provato, che le ragazze vadano a coppie, quelle belle sempre acompagnate da
altre particolarmente brutte, quasi ad esaltarne le qualità fisiche, di cui
sono abbondantemente provviste. Le brutte amano andare con le belle per avere
più occasione di trovare qualcuno che si interessi a loro. Noi ragazzi facciamo
il possibile per “incominciare” con le piacenti, cercando di “scaricare” le
racchie. Pochi sono i ragazzi che comprendono la psicologia femminile e ci dava
tremendamente sui nervi che Genoeffa occupasse il posto accanto a Donatella,
perché ci impediva l’accesso.
Un giorno qualcuno portò mezzo chilo di riso, che
fu fraternamente diviso tra tutti. Al comando “Fuoco!” di Nino, una gragnuola
di colpi fu indirizzata sul bersaglio. Non avevamo “azzerato” sufficientemente
il tiro, e parecchi colpi andarono a vuoto, centrando le veneziane e producendo
un suono come di grandine sulle finestre. Ricaricammo nuovamente la bocca di
chicchi e sparammo a raffica. Questa volta i centri furono di più, ma la
maggioranza dei chicchi finì nuovamente sulle veneziane, producendo un suono
più armonico.
La terza raffica fu meno precisa: colpimmo Donatella
ed Enzo , che stava ricaricando. Per tutta risposta Enzo rispose al fuoco in direzione di Ernesto e lo
colpì in pieno nell’orecchio. Ernesto non lasciò passare l’affronto in silenzio
e sparò una raffica. La grandine si fece di nuovo sentire. Tralasciammo la
testa di Genoeffa e ci unimmo al bombardamento su Enzo, rinforzato da Dardo e
da Nino. Sergio, detto anche “il Secco” era il nostro migliore cecchino. I suoi
colpi raramente mancavano il bersaglio. Enzo
fu costretto ad arrendersi, per mancanza di munizioni, dopo essersi
ripulito da numerosi chicchi, misti a sputo, in faccia e sulla camicia.
Quando Berta entrò in classe si sentì uno strano
scricchiolio sotto le sue scarpe.
La spiegazione era tremendamente noiosa: Cicerone
è passato alla storia come il migliore oratore latino, ma a distanza di duemila
anni, ben pochi alunni, interessati per lo più all’ultimo successo dei Beatles,
capiscono la grandezza di quel nobile monumento dei tempi andati. Quanto
sarebbe stato meglio se Marco Antonio, invece di farlo semplicemente
assassinare, ne avesse fatto bruciare tutti gli scritti!
Berta parlava e parlava, il tempo non voleva
passare. Dopo la spossante battaglia con il riso non avevamo la forza di
giocare a scacchi e non riuscivamo ad addormentarci a causa di Berta. Fu allora
che Remo afferrò in silenzio i libri di Enzo e li fece volare dalla finestra. La nostra
classe era al pian terreno, ed i libri non subirono alcun danno. Enzo andò in
bestia. Si mise a bestemmiare in direzione di Remo e ad agitarsi nervosamente
sulla sedia. Berta decise che i movimenti erano dovuti all’interesse per
Cicerone e all’impazienza di essere interrogato ed esaudì il desiderio. Enzo dapprima
si schermì, ma incitato da alcune voci vicine: “Enzo-Enzo-Enzo...”, fu
costretto, suo malgrado, ad alzarsi e ad andare alla lavagna. Fece scena muta a
quasi tutte le domande sulla lezione precedente. Berta gli dette la sufficienza
premiando, se non il sapere, almeno la buona volontà.
Enzo era un buon amico con tutti, meno quando lo
facevano andare in bestia, cosa che succedeva abbastanza spesso. Buon giocatore
di calcio, nel ruolo di mezz’ala, si faceva onore a bigliardino ed era, con il Secco,
l’indiscusso campione a flipper. Era anche il più basso della classe e, per via
della statura, il più complessato.
Amava raccontare delle sue conquiste amorose con
ricchezza di particolari, per lo più inventati. Lo prendevamo in giro spesso,
ma senza esagerare, perché era un alunno diligente e faceva comodo
accattivarsene le simpatie. Era anche uno dei Veterani e fu tra i primi a
prendere la patente. In Quinto girava spesso in lambretta e scorazzava qua e là
per la città. Gli piaceva particolarmente accompagnare a casa le ragazze, per
farsi vedere.
Enzo era uno dei tre Fascisti della classe ed anni
addietro qualcuno gli aveva appicicato il soprannome “Minifascio che cammina”,
ma un soprannome deve essere una cosa corta e facile da pronunciare. Quando
studiammo in Biologia le scimmie, apprendemmo lo strano comportamento sessuale
delle stesse e qualcuno fece notare che esisteva una forte rassomiglianza tra Enzo
ed il mandrillo. Inutile dire che
quell’appellativo gli rimase appiccicato da allora in poi.
In città c’erano tre o quattro posti dove si
poteva giocare a bigliardino. Uno era vicino alla scuola ed era conosciuto come
“il buco”; un secondo, vicino a casa mia, conosciuto come “il fantasma”,
soprannome dato al proprietario, un vecchietto ossuto che sembrava più di là
che di qua. Tutti i sabati ci ritrovavamo al buco appena finite le lezioni e,
per un paio d’ore, giocavamo. Giacomo era uno dei migliori difensori della
scuola, il Secco ed il Mandrillo ottimi attaccanti. Ognuno metteva in cassa un
po’ di soldi e giocavamo finché non finivano, in tutto non meno di dieci
partite. A volte facevamo a “chi perde paga” e sfidavamo quelli della B,
giocatori assai meno bravi, così facevamo lo stesso numero di partite senza
spendere un soldo. Avevamo stabilito delle regole universalmente accettate e
chi voleva giocare con noi doveva starci, altrimenti non era considerato un
giocatore del nostro livello.
Quell’Inverno alcuni amici del Secco affittarono
uno scantinato per andare a ballare i sabati sera. Ognuno portò qualche
“ricordino” per abbellire le pareti; fu rimediato un vecchio giradischi,
dischi, panche e cuscini. I soci pagavano una certa somma mensile per
l’affitto; accettavamo ospiti solo se portavano donne o qualcosa da bere.
Una domenica, mentre
pranzavo con i miei, venne su Gabriele, con un cappottone abbottonato fino al
collo. Chiesi il permesso di alzarmi e lo feci entrare in camera mia. Mia madre
si offrì di appendere il cappotto, ma Gabriele si schermì... “Grazie, ma sono
solo venuto a chiedere una spiegazione, non voglio disturbare...”
Appena soli mi chiese se
poteva lasciare fino a sabato un “senso unico”. Non avevo capito. Fu allora che
Gabriele si sbottonò il cappotto e mi fece vedere un segnale stradale con la
scritta “senso unico”, che lo irrigidiva dai ginocchi al collo. “è per il club”
, spiegò.
Mio padre entrò in camera per invitarlo a restare
con noi a pranzo. Gabriele chiuse rapidamente il cappotto e si scusò, uscendo.
Il “senso unico” fu piazzato sul corridoio che dava al gabinetto del club,
sulla cui porta trionfava un “posteggio”.
Una mattina piovosa andando a scuola trovammo un
gattino abbandonato, che cercava di ripararsi in un portone. Lo infilammo in un
cappotto e lo contrabbandammo in classe. Il gattino si appisolò vicino al
termosifone e non fu notato da nessuno per un paio d’ore. Ma anche i gattini
mangiano e lui incominciò a miagolare debolmente. Remo gli allungò un pezzo di
cornetto sottratto ad Emma. il micio non sembrò gradire. Ernesto si impadronì
con destrezza di un panino col salame (sottratto ad un’alta ragazza,
ovviamente) e ne passò un po’ a Remo. Il resto se lo mangiò lui. Il gatto
sembrò maggiormente interssato: leccò coscenziosamente il salame, il panino, il
dito e, poi addentò con soddisfazione quest’ultimo. Remo urlò di dolore ed il
micio, impaurito più di lui, saltò dalle gambe e scappò in direzione della
porta... in quel momento entrò... Berta. Il gatto le sgusciò tra i piedi e si
dette alla fuga. Berta per poco non ci rimase. Si sedette in silenzio, scrisse
una nota sul registro di classe, aprì quello personale ed incominciò ad
interrogare a casaccio.
Dopo il quinto impreparato quasi scoppiò in lacrime
ed uscì in direzione della presidenza.
Il preside era un tipo alto, occhialuto, con i
capelli allisciati con la crema, e sordo come una campana. In onore del famoso
personaggio dantesco era chiamato il Sordello. Mugugnava sempre frasi
incomprensibili ed ascoltava con una mano sull’orecchio sinistro. Nel destro
aveva un apparecchio, che non smbrava molto efficiente. Camminava, zoppicando
per una recente frattura e procedendo dondolava a destra ed a sinistra.
Il Sordello entrò con Berta ed il silenzio piombò
in classe. Berta cominciò a raccontare la storia del gatto, protestò contro la
continua disattenzione, “Salvo poche eccezioni –vero-...”, il basso livello
dell’intero corso e specie della nostra classe, l’assoluta mancanza di disciplina,
eccetra eccetra...
Il Sordello ci chiese se “Mmm-mmm avevamo mmm-mmm
spiegazioni mmm-mmm da dare mm-mm-mm”. Nino fu abbastanta sfrontato da
rispondere che le lezioni erano noiose, lunghe e che il sistema didattico era
decrepito. Il mugolio del Sordello continuò per un buon quarto d’ora: “Mmm,
mmm” e “Mmm”. Il gattino ritrovò la strada di casa e si affacciò alla porta.
Sordello si rivelò anche miope, prché continuò a mugugnare. Perfino le ragazze
più disciplinate si sforzavano di rimanere serie. Ernesto aveva le lacrime agli
occhi e Pepe fece un movimento col piede per scacciare il micio. Quello,
credendo che Pepe volese giocare, si mise ad acchiappare le sue scarpe.
Sordello sembrava molto scocciato di non essere
preso sul serio, nel bel mezzo di un discorso sulla disciplina, ma non capiva
cosa ci fosse da ridere. Il micio scappò di nuovo ed il Sordello ritornò nel
suo buco.
Alcuni giorni dopo le
finestre a vetri della classe furono dipinti di vernice verde opaco, per non
darci la possibilità di distrarci, guardando fuori. La classe era molto cupa.
Spedimmo una commissione di alunni per far abolire questo nuovo provvedimento.
Non ci fu nulla da fare. Nottetempo i soliti ignoti spaccarono a sassate il
vetro della finestra accanto al banco di Nino. La polizia fu invitata ad
indagare e giunse alla conclusione che “ignoti avevano compiuto un atto di
vandalismo, l’indagine prosegue, per consegnare alla giustizia i responsabili”.
La maggior parte delle scuole della città erano in
sciopero per protestare contro il sistema didattico. Noi pensammo bene di fare
uno sciopero personale: rifiutammo di entrare in classe, fino a che i vetri non
fossero stati riparati. La ragione: era Inverno ed il freddo entrava dal buco
della finestra spaccata. Per due giorni arrivavamo puntualmente a scuola,
spedivamo un paio di rappresentanti a parlare col Sordello, che ci assicurava
che la richiesta di riparazione era stata inoltrata. Verso le dieci andavamo al
buco e poi ognuno per i fatti suoi.
Due giorni dopo ripararono i vetri ed entrammo in
classe, nostro malgrado....
Filosofi
Pasqualino era senza dubbio un esemplare più unico
che raro nel variopinto zoo del nostro liceo. Non che mancassero gli strani
animali, specie tra il corpo insegnante, ma almeno tra noi alunni, di persone
simili a lui non ce n’erano altre.
Era il figlio minore dei suoi genitori, nato
diversi anni dopo il fratello più grande, e probabilmente fu questa la ragione
per cui gli fu messo il nome di battesimo Pasqualino che, appena entrò a far
parte della classe, fu cambiato immediatamente nel soprannome “Pasqualone”,
visto che era il più anziano d’età: era nato ’49, due anni prima della della
maggior parte di noi.
Pasqualone era piuttosto
basso di statura (non come Enzo, ben s’intende) e ricoperto di capelli ricci
letteralmente dalla testa ai piedi. Si radeva ogni mattina, ma già a
mezzogiorno aveva una barba ispida e nera, come se non si fosse raso da due
giorni. La seconda materia scolastica in cui eccelleva sopra tutti era
l’Educazione Fisica. Ai tempi del primo liceo già si cimentava nelle riunioni
regionali di atletica leggera e correva i 100 metri piani attorno agli 11
secondi netti.
Pasqualone arrivava a
scuola in treno, da un quartiere distante una quindicina di chilometri. Presumo
che si svegliasse molto presto la mattina, perché era sempre il primo ad
arrivare, spesso e volentieri anche un’ora prima dell’inizio delle lezioni. A
differenza della maggior parte degli alunni, che a quei tempi andavano a scuola
portando i libri legati con una cintura elastica, Pasqualone si presentava
regolarmente trascinandosi appresso un’enorme valigetta di pelle nera. Cosa ci
fosse dentro, a parte i libri di scuola, era un mistero, perché amava aprirla e
richiuderla con un gesto veloce, degno dei suoi risultati di atletica.
Probabilmente il contenuto era variabile, a seconda delle occasioni.
Pasqualone era, con Giacomo, il ragazzo più maturo
della classe. Dava la sensazione a volte di non essere mai stato bambino, ma
forse la sensazione era dovuta alla differenza di età, che tra i sedici e i
diciotto è molto pronunciata. Se Giacomo era l’indiscussa autorità nel campo
delle Lettere Classiche, Pasqualone era senza ombra di dubbio il “Filosofo” per
eccellenza. Non solo filosofo, ma, per
precisare, Marxista-Leninista. E prendeva la lotta del proletariato con la
massima serietà. Mentre noi, durante le pallosissime lezioni di Berta giocavamo
a “pallette e quadratini” o ci dedicavamo all’ameno tirassegno di chicchi di
riso sulla testa di Genoeffa, Pasqualone apriva “il Capitale” di Carlo Marx od
un libro di Marcuse e se lo leggeva avidamente.
Per non essere disturbato nei suoi studi sedeva
all’ultimo banco, a volte con Giacomo, a volte con un altro.
Col passare del tempo Pasqualone
cominciò ad odiare Berta, come noi tutti, ma in maniera del tutto sua
particolare. Innanzi tutto va ricordato che da sempre si era ostinato a dare
del tu a tutti i membri del corpo insegnante, preside compreso. A quelli che
facevano obiezioni spiegava, con ferratissima logica oratoria, che dare del tu
faceva parte della sua ideologia politica. Dati i tempi che correvano (si era
nel 1968), la maggior parte dei professori ci fece presto l’abitudine, meno
naturalmente Berta, che non gli scusò mai quella mancaza di rispetto
“Inconcepibile! Ai miei tempi – vero –
mammaitantavolgarità!”. Quest’odio ideologico reciproco raggiunse il suo
climax in secondo, sotto carnevale, quando Pasqualone, buttato fuori dalla
classe, probabilmente a causa della sua disattenzione, uscì in compagnia della
sua enorme borsa. Una volta nel corridoio, estrasse dalla stessa una cappa nera
lunga fino ai piedi, denti fasulli da Vampiro, una bottiglia di vino rosso ed
un calice e fece... il suo ingresso trionfale in classe, declamando in
direzione di Berta un “Alla tua salute!” o qualcosa di simile e di meno
ossequioso. Credo che quella volta Pasqualone rischiò molto da vicino la
sospensione.
Alla fine degli anni sessanta, nell’ambito dei
giovani, non esisteva il Centro Politico. O eri di Sinistra, o eri di Destra.
Ancora meglio se di estrema Sinistra o Destra. Per noi liceali questa
presa di posizione era più che altro l’emulazione dei fratelli maggiori, già
universitari. Verso la fine del nostro Primo Liceo, a Parigi ci fu il Maggio
Francese ed all’inizio del Terzo, in Italia si era in pieno Autunno Caldo.
La “Grande Lotta” contro Berta va vista, quindi,
un po’ anche alla luce di questo sottofondo politico, anche se probabilmente,
per quasi tutti noi, era più che altro solo una scusa per fare casino.
I nostri insegnanti erano non meno politicizzati,
anche se i doveri didattici impedivano loro di esprimere le opinioni in forma
troppo esplicita. Questa legge però non funzionava per gli insegnanti di Storia
e Filosofia. Quando spieghi le orazioni di Cicerone è un po’ difficile farci
entrare la Lotta del Proletariato, ma se la lezione si aggira sui Tribuni della
Plebe, sulla Polis greca o sulle Crociate, non è molto difficile fare
un’allusione a Carlo Marx od al Ventennio Fascista. In Filosofia era
sufficiente citare qualche pezzo di Platone per parlare di Comunismo, e l’altra
materia era più precisamente definita “Storia ed Edicazione Civica”, quindi
bastava fare una piccola aggiunta al primo articolo della Costituzione:
“L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro... degli altri”. Se, poi
eri dall’altra parte della mappa politica, bastava l’Inno di Mameli: “... Dov’è
la Vittoria... , ché schiava di Roma...” ecc. ecc..
All’inizio del Primo non avemmo un insegnate di
Storia e Filosofia fisso. La prima supplente stette con noi solo per pochi
mesi. Era una donnona sulla trentina, alta e ben piazzata. Parlava con uno
spiccato accento Romagnolo, strascicando tutte le esse. La sua frase preferita
era “Sssciuulla pelle degli altri...”. Non mi ricordo più in che contesto
usasse dirla. Alla sua mastodontica mole naturale andavano aggiunti anche dei
lunghi capelli allisssciati e ssscioppasssciosi, come paglia, ed un paio di
sssctivali dal tacco a ssscpillo, alti fino al ginocchio ed allacciati
sssctretti sssctretti con dei lacci passanti per una ssscinquantina di asole.
Presumo che per calzare quegli stivali (color celestino, come i vestiti che
usava indossare) si doveva alzare alle cinque di mattina. Data la spiccata
somiglinza con la compagna di Gambadilegno, fu subito soprannominata Trudy.
Trudy era di spiccate tendenze Fasciste, e non
mancava di esprimere ad ogni occasione la sua ammirazione e la sua nostalgia
per il Duce e per il Ventennio. Spesso e volentieri la classe (con maggioranza
di Sinistra) faceva con lei delle discussioni politiche che, ad onore della
buona educazione di quei tempi, non sfociarono mai nei toni alti.
Le tendenze politiche di Trudy sembrarono ancora
più accentuate in seguito, quando fu sostituita da un prete Gesuita (o
Dominicano, non ricordo) sulla cinquantina. Veniva a scuola in giacca e
pantaloni neri, (a differenza del Don Pulci di Religione, che vestiva
regolarmente l’Abito). Se non fosse stato per il colletto, si sarebbe
facilmente scambiato per un laico. Questo prete, di cui non ricordo il nome,
era sicuramente una persona istruitissima e molto attenta alle sue espressioni
verbali: riferendosi a Benito Mussolini, usava chiamarlo “La Buonanima”, con un
sorriso malcelato. In diretta antitesi alla precedente posizione politica di
Trudy.
Nel nostro corso c’era un altro professore di
Storia e Filosofia, che venne ad insegnare definitivamente anche la nostra
classe solo più avanti. Efisio Cau, un Sardo, come si capisce dal nome. Aveva
già passato la cinquantina ed aveva i capelli brizzolati ed un pizzetto i cui
peli crescevano a stento tra le cicatrici di una faccia terribilmente
butterata. Questa sua sua apparenza fisica determinò il soprannome di Sartana
(il brutto di certi films spaghetti-western).
Sartana era un Comunista
vecchio stampo. Sembrava proprio uno dei Padri della Rivoluzione d’Ottobre.
Cicatrici a parte, assomigliava molto (anche fisicamente) a Lenin. Sartana
aveva idee pedagogiche molto liberali. Fu il primo che permise, o addirittura
promosse, il cambiamento della disposizione dei banchi in classe. Invece delle
classiche file messe di rimpetto alla cattedra, dalla quale gli insegnanti
davano le loro lezioni frontali, nelle sue lezioni spostavamo il tutto, fino a
ricavare una disposizione a forma di U, in mezzo alla quale Sartana amava
inculcarci le sue materie girovagando qua e là nello spiazzo, a contatto
diretto con tutti. La sua posa preferita era il sollevamento parziale di un
braccio con la mano aperta, a dita distese, mignolo a parte, che rimaneva
piegato in giù (credo per una forma di paralisi). Ogni tanto questa mano si
abbatteva con “forza delicata” sulle spalle di qualcuno, per richiamare
l’attenzione con un energico pizzicotto. Con lui avevamo la bellissima
sensazione di partecipare ad un seminario o ad una tavola rotonda. Insomma ci
sentivamo adulti, maturi e soprattutto attuatori di fatto di quel
capovolgimento di idee sulle decrepite e draconiane regole scolastiche. Nel
nostro piccolo, sotto la guida di Sartana, anche noi abbiamo dato il nostro
piccolo contributo alla “Rivoluzione Studentesca”. In tutte le scuole, da che
mondo e mondo è vietato fumare. Gli insegnanti erano tenuti a punire
severamente gli alunni “beccati” nella “zona fumatori”, cioè vicino ai
gabinetti. Sartana, anche lui un fumatore, a un certo punto permise di farlo
addirittura in classe. Era un’altra forma del comportamento rivoluzionario di
quei tempi, decisamente particolari, della fine degli anni ’60. La cosa però fu
interrotta a metà del terzo quando Sartana si accorse che il nostro profitto
nelle sue materie, in vista degli imminenti Esami di Maturità, era diventato
scarsissimo. Probabilmente aveva ricevuto un cicchetto dal preside, che fino a
quel momento aveva chiuso un occhio. Sartana ci fece un sermone sulle nostre
responsabilità. Mi ricordo che tra l’altro disse, con quella sua voce
baritonale dalle o tutte chiuse dell’accento sardo: “Ma no, Ernesto, ma no! ...
E io passo la cicca a te, e tu passi la cicca a lei. Ma no, Giovanni, ma no!
Voi siete i migliori della scuola, voi siete intelligenti, maturi, ma capite! Non
si può andare avanti così...”. Ascoltammo il sermone in silenzio. Sartana aveva
tremendamente ragione. Ci eramavo fatti prendere la mano un po’ troppo,
trascurando i nostri doveri, ma forse se lo sarebbe dovuto aspettare. Si sa che
in tutte le rivoluzioni, i continuatori dell’opera dei “padri” ad un certo
punto mettono questi da parte e
continuano la strada in direzione diversa dalle linee ideologiche iniziali. A
noi interessava, in fondo, solo divertirci il più possibile, e passare quegli
anni frizzanti senza pensare troppo al futuro. Una cosa è certa: siamo riusciti
nel nostro intento.
Un po’ di sottofondo storico (ovverosia: da dove
siamo arrivati...)
Il Classico, va detto, era stato per molti anni
addietro una scuola di élite, ma alla fine degli anni sessanta, proprio mentre
lo frequentammo noi, perse completamente la sua posizione di prestigio. Alcuni
anni prima, con l’avvento del Cento-Sinistra e la salita dei Socialisti al
governo era stata fatta la riforma didattica, che poi si rivelò un totale
fallimento. Fino al ’63 la scuola media inferiore era divisa in due: Le Medie
vere e proprie e Le Professionali/Magistrali. Nelle Medie si studiava il
Latino, e l’indirizzo era preminentemente letterario. Andavano alle Medie i
rampolli della borghesia, quelli che, per intenderci, sarebbero andati poi al
Liceo (Classico o Scientifico) e di lì all’Università. Alle Professionali si
studiavano, invece, i rudimenti di professioni come Elettricista, Geometra,
Ragioniere, Segretaria d’Azienda o Maestra Elementare. Le Professionali erano
considerate le sorelle povere delle Medie, ed erano frequentate dai rampolli
del Popolino Proletario o... dai più solenni somari che non riuscivano ad
arrancare alle Medie. Insomma nel Sistema della Pubblica Istruzione c’era una divisione
elittistica, remora dei tempi andati, che era considerata dalle Sinistre
Politiche una sacrosanta ingiustizia sociale. Con la salita dei Socialisti si
decise che, a partire dall’anno scolastico ’63-’64, fosse istituita la Scuola Media Unificata, dalla
quale venne abolito lo studio obbligatorio del Latino (tranne a lasciarlo
facoltativo a partire dalla seconda, per chi volesse andare al Liceo Classico)
e con l’aggiunta di uno studio più serio delle lingue vive (Inglese e Francese)
a discapito delle lingue morte. La riforma decretò, insomma la fine
dell’elittismo “borghese” sul “proletariato” ed un indirizzo meno
filosofico-letterario e più tecnico ed adatto ai tempi moderni.
La classe dei nati nel ’51 fu l’ultima a
frequentare la Vecchia Scuola Media. Ciò significa che quando arrivammo al
Quarto Ginnasio avevamo già tre anni di Latino alle spalle. Per quanto riguarda
lo studio delle Lingue Moderne, meno della metà aveva fatto Francese, gli altri
Inglese. Comunque al Classico le Ligue Moderne si studiavano solo al Ginnasio.
A partire dal Primo Liceo il Greco, il Latino, la Storia dell’Arte e la
Filosofia non lasciavano posto a quelle amenità, e questo spiega il perché gli
Italiani al di sopra della cinquantina non sanno l’Inglese. Sarebbe più giusto dire
che gli ‘Italiani che contano – sopra i cinquanta’ (cioè quelli provenienti dal Classico)
l’Inglese non l’hanno mai studiato.
Parecchi genitori della media borghesia, abituati
ancora a considerare il Classico “La Scuola per Eccellenza”, furono parecchio
preoccupati di questo cambiamento e, chi poté, fece saltare un anno ai
rampolli, per aggregarli anzitempo alla Vecchia Scuola Media, in vista del
Classico. Nel caso più prosaico della nostra classe, avvenne che diversi
ragazzi (Sergio, Pepe, Gabriele, Paolo e Armando) fossero della classe ’52, più
giovani di un anno della media.
Nel sistema didattico di quei tempi, poi, chi non
riusciva a superare le difficoltà degli studi, non passava ad un istituto
professionale, ma veniva bocciato e ripeteva l’anno. La cosa poteva accadere
anche alle medie inferiori, ma nel caso nostro avvenne soprattutto al Ginnasio,
a causa della Zona. Fatto sta che in Primo Liceo lo scarto di età variava di tre
anni, da Pasqualone (nato nella Primavera del ’49) ad Armando (Primavera del
’52).
La Zona era “La Professoressa” con la “P”
maiuscola del Ginnasio. Fu lei che determinò la composizione ed il carattere
della nostra classe. Sarebbe meglio dire che fu lei ad attuare quella
“selezione” che ridusse il numero delle ragazze rispetto a quello dei ragazzi,
e cristallizzò quella che fu senza dubbio “La classe più casinara della storia
dell’Istituto”. Con la Zona eravamo stati sotto pressione, specie disciplinare.
Quando arrivammo al Primo Liceo, la pressione esplose (in faccia a Berta,
purtoppo per lei, che non se lo sarebbe – vero-
mai aspettato –vero-).
Al nostro arrivo dalle
Medie, la Zona era già una leggenda. Donna d’acciaio. Di media statura, sulla cinquantina, aveva il
segno di una cicatrice da labbro leporino che le deturpava il labbro superiore,
conferendole un aspetto leonino. Non alzava mai la voce. Sapeva farsi
rispettare senza averne il bisogno: bastava che ti guardasse un attimo dritto
negli occhi per farti smettere immediatamente qualunque fesseria stessi facendo
in quel momento. Sia detto ben chiaro, con lei si rigava dritto e si studiava
non solo per paura, ma perché era un’insegnante preparatissima. Basta pensare
che riuscì a far piacere anche a Dario, che con le lettere non aveva la minima
confidenza, quell’immane mattone della Letteratura Romantica Italiana, che sono
“I Promessi Sposi”.
La Zona era una di quelle che credeva nella
missione di insegnante. Quella sua, in particolare era di “selezionare” i
ragazzi e le ragazze provenienti dalle Medie e di portarli a farsi onore nel
Liceo Classico “di una volta”. La Zona si dedicava alla sua missione con la
massima coscenza: ogni due anni prendeva un Quarto Ginnasio nuovo e ne bocciava, anzi “trombava”, come si
diceva allora, un terzo della classe, tutti quelli che lei riteneva “non
maturi” a sufficienza per continuare al Liceo. Intendiamoci: “Maturi” per la
Zona non significava necessariamente “intelligenti” o “secchioni”. Come poi
riuscisse nell’arte di distinguere le future capacità dei quattordicenni era un
mistero simile all’arte dei Giapponesi di distinguere il sesso dei pulcini. A
rigor di logica, essendo stata l’insegnante di Lettere della classe dell’anno
precedente, non sarebbe dovuta toccare a noi, ma a quelli di un anno sotto di
noi, ma il caso volle che la Zona, disgustata dalla Riforma Didattica, decise
improvvisamente di non continuare ulteriormente la sua missione coi i ragazzi
provenienti dalla Media Unificata, ed invece di “prendere sotto la sua egida”
in Quinto proprio la nostra classe, per portarla agli esami di Ammissione al
Liceo, con gran rammarico del Dardo e di altri due compagni che, “trombati”
dalla Zona in quarto, se la ritrovarono, loro malgrado, due anni dopo, in
Quinto. La Zona aveva le sue teorie, una delle quali era che le ragazze erano
“intrinsecamente” più immature dei ragazzi. Il risultato fu che ai nostri esami
di Quinto fece un’ecatombe specie del sesso debole, ma non solo: Paolo, della
classe ’52, che aveva saltato un anno ed era stato il migliore della sua classe
agli esami di Terza Media, fu solennemente bocciato come “immaturo” in Quinto,
cosa che non gli impedì, poi, di farsi onore alla maturità, con un anno di
ritardo.
C’è chi sostenne che la Zona facesse delle
preferenze ingiustificate ed avesse le sue simpatie. Una di queste presunte
simpatie era il Dario. Decisamente portato per le Scienze, era arrivato al
Classico per sbaglio, anzi per “prigionia coatta”, cioè per imposizione paterna
(il padre era un altro di quelli che al Classico elittistico dei vecchi tempi
ci credeva ancora). Il Dario era
completamente negato per le Lingue, sia morte che vive, specialmente per
l’Inglese. Fu ammesso agli Esami di
Quinto per il rotto della cuffia, con quattro insufficienze: Italiano, Latino,
Greco e, naturalmente, Inglese. Non si sa come ebbe un colpo di fortuna agli
scritti e si destreggiò sufficientemente agli orali, tranne in Inglese, dove
fece semplicemente “scena muta”. Fu così, ingiustamente, promosso a Giugno, per
voto di Consiglio. Si disse perché era il “coccolino” della Zona. Se c’è stato
del vero, certamente la Zona fece tutto di testa sua, come al solito,
d’altronde. Questa immane ingiustizia fece andare in bestia non pochi compagni,
presenti agli Orali, specie Paolo che, rimandato a Settembre, si ripromise di
pestarlo ben bene “per dargli una lezione”. Al Dario fu consigliato da alcuni compagni di stare
alla larga da Paolo, almeno per quell’Estate. Paolo poi fece pace in primo,
quando entrambi parteciparono attivamente alla lotta contro Berta, Dario aiutò un po’ tutti in Chimica ed, alla fine
dell’anno, fu rimandato in Italiano e Greco (gli abbonarono il Latino). A dir
la verità c’era una piccola nicchia letteraria in cui il Dario eccelleva: lo scrivere in versi. Un difetto
che non gli è ancora passato. In Quinto Ginnasio aveva scritto un’ode sulla
forma del naso dei suoi compagni, in Primo aveva vinto la gara di “poesia” con
una serie di sonetti romaneschi contro la burocrazia scolastica, che fecero
sbellicare di risa compagni e professori e, finalmente in Secondo, per
vendicarsi di essere stato rimandato in Italiano, compose una lunghissima
parodia dell’Inferno Dantesco, mettendo tutti i compagni e professori nel loro
girone. Ogni tanto leggeva in classe le ultime terzine Dantesche create, mentre
ognuno aspettava il suo turno ed il suo girone. Quest’opera sublime andò,
sfortunatamente, perduta quando alla fine del Secondo (facendo un’altra delle
sue regolari coglionate) “prestò” l’unica copia esistente al Sartana, che,
naturalmente non gliela restituì mai più.
Eh sì, perché il Dario era fatto così: viveva in un mondo
scientifico-intellettuale tutto suo, uscendosene spesso di fronte ai compagni
ed ai professori con elucubrazioni filosofeggianti ed incomprensibili, non solo
per i compagni, ma spesso e volentieri, per lui stesso. Ad ogni sua “uscita”
veniva “severamente ammonito” da Giacomo
con un solenne: “Cheppalle!”.
Qualche volta la smetteva subito, qualche volta no, nel qual caso si beccava un
“CHEPPAAAAAALLE!!!!” da tutta la classe in coro. E fu così che il suo
soprannome rimase “Cheppaalle !”....
Il Dario non
è stato l’unico a comporre opere in versi sulla scuola. Questa capacità fu,
infatti, condivisa con altri tre o quattro ragazzi del corso. Ovviamente fu
espressa soprattutto in forma di graffiti sconci, scritti sulla porta interna del
gabinetto (dei ragazzi). Questa volta dobbiamo ringraziare il falegname che ha
costruito la carpenteria dell’istituto: appena un ignoto fece il primo
tentativo di lasciare un ricordo delle sue azioni in quel luogo recondito,
scrivendo a penna biro il classico verso: “In questo luogo ameno e giulivo/ho
fatto uno [censura] che pesa un kilo”, fu subito chiaro che la vernice color
verde acqua non impediva affatto, anzi aiutava, a tenere l’inchiostro (di
solito in quei luoghi ameni si usava mettere una pittura ad olio, che
costringeva a grattare la penna profondamente nel legno). La risposta al
versetto fu immediata. Senza scendere in particolari, dirò che il peso aumentò
in serie esponenziale, finché qualcuno decise di ammonire l’esagerato. Così l’ode
prese la piega di un battibbecco in versi a cui si unì più tardi, ovviamente,
anche il Dario.
Contemporaneamente a queste elucubrazioni di
carattere matematico-chimicho in versi, scritte in ben ordine in colonna sulla
sinistra della porta, sulla colonna di destra ignoti presero a compilare il
“Bignami” di Storia della Filosofia: un memorandum sulle verità assolute
enunciate dai filosofi greci. Il distico d’apertura non potè essere se non il
famosissimo: “Lo disse un giorno Socrate, lo confermò Santippe/È meglio una [censura] di centomila [censura]”.
Seguì un riassunto dei Presocratici, non meno famoso: “Lo disse Anassimandro,
lo confermò Zenone/La forma della Terra è simile a un [censura]”. Gli altri
filosofi seguirono a ruota, fino ad aggirare la maniglia e continuare più
sotto. In pochi mesi, insomma, la porta interna del cesso fu letteralmente
sfruttata da cima a fondo. In caso di “bisogno” ci si poteva comodamente sedere
e leggere per una mezz’oretta quelle amenità letterarie, scritte in stampatello
su quattro colonne ordinate. L’amena lettura, purtroppo, fu censurata ad un
certo punto dal preside che, dovendo urgentemente esplicare i suoi bisogni
fisiologici, dopo aver fatto il suo solito cicchetto settimanale in classe
nostra, entrò inpunemente nei gabinetti degli alunni, invece che in quello dei
professori, e scoprì l’opera letteraria. Il giorno dopo il bidello verniciò a
nuovo la porta, con una vernice ad olio super-resistente, sulla quale fu
impossibile scrivere i graffiti, senza rompere le penne. Peccato...
Ritornando a bomba, cioè a Berta, va menzionato
che le capacità di “verseggiatore” del Dario
gli procurarono dei problemi anche con lei. Berta, infatti, tra le tante
fissazioni, aveva anche quella di essere fermamente convinta di saper leggere
la metrica latina meglio di qualunque altro essere umano. Quando incominciammo
a “studiare” (si fa per dire) l’Eneide di Virgilio, infatti, ci toccò di
sorbirci il quotidiano quarto d’ora di lettura in metrica di Berta. Ligi al
detto di “non svegliare il Nino che dorme” la lasciavamo fare, concedendole
qualche minuto di narcisistico autocompiacimento nel recitarci, anzi nel
recitarsi, quegli esametri epici. Insomma, l’ora di lettura era anche l’ora
della tregua. L’esametro epico, va ricordato, è un verso estremamente monotono,
(la miglior ninna-nanna per Nino) che suona, nel novantanove per cento dei casi
così:
Pà-parapà-parapà’- [piccola
interruzione] – parapà-parapà-parapàppa
Molto raramente, però, il verso fa eccezione e si
recita facendo due piccole interruzioni, invece di una sola.
Fatto sta che una volta successe che Berta si
incagliasse su uno di questi rari esametri fuori del comune. Dopo il quinto
inutile tentativo di venirne a capo, Berta, tutta rossa di vergogna, alzò gli
occhi nervosamente sopra gli occhiali a mezzaluna, in cerca dell’ispirazione.
Fu allora che il Dario fece il più
grosso errore della sua carriera scolastica: alzando umilmente la mano per
prendere la parola “osò” correggere Berta, recitando il fatidico verso nella
maniera giusta (cosa volete farci, il Dario
aveva la metrica nel sangue). Berta non glielo perdonò mai. Da allora in
poi, ogni volta che le capitò di recitare qualche pezzo, alla fine alzava
un’occhiata severa in direzione del poveretto e chiedeva con sarcastica soddisfazione
“Ealora – vero - , Dario – vero – ho
letto bene questa volta? – vero – Mi promuovi – vero?”. Non è da escludere che
Berta si fosse legata al dito il fatto di essere stata “pizzicata” nel Sancta
Sanctorum delle sue lezioni di Latino. Comunque questa non fu la causa per cui,
alla fine dell’anno il Dario avrebbe
dovuto essere rimandato nelle sue materie. A parte la capacità di leggere la
metrica, infatti tra il Dario ed il
Latino-e-Greco non c’era la minima simpatia reciproca.
Dotti, Dottori e... figli
I pochissimi, e giustamente esigenti, lettori di
questa storia (per dirla alla Manzoni) vorranno ora perdonare l’umile cantastorie
della stessa, se egli si vede costretto, suo malgrado, a fare un piccolo
excursus di carattere veramente... preistorico. Si spera che ciò possa aiutare
ad inquadrare meglio alcuni componenti della nostra classe. Se, poi, il cantastorie
dovesse aver fallato nel suo giudizio, al rigoroso lettore resta sempre il
diritto di replicare con il sonoro “CHEPPAAALLE” d’uopo.
Il nostro quartiere in riva al mare fu fondato
agli inizi del secolo ventesimo in una zona di bonifica, per permettere alla
Borghesia cittadina di allora di andare a “fare i bagni” nella stagione estiva.
Per quasi mezzo secolo la popolazione stabile si aggirò su non più di ventimila
anime (in inverno), per quintuplicarsi temporaneamente nei mesi di
Luglio-Agosto, con il sopraggiungere dell’invasione dei bagnanti, buona parte
dei quali avevano una “casa per le vacanze” di proprietà o da dare in affitto.
Le cose cambiarono drasticamente agli inizi degli anni ’60, con la costruzione
del nuovo Aereoporto Internazionale, distante una decina di chilometri. Essendo
il nostro quartiere ormai popolato in buona parte dalla piccola e media
borghesia, fu preso d’assalto dai nuovi venuti, ed in capo a quattro-cinque
anni la popolazione stabile triplicò o quadruplicò. Questo succedeva più o meno
quando la classe ’51 finiva le Elementari. In origine il quartiere si estendeva
per due o tre chilometri in lunghezza in riva al mare, su cinque o sei file di
case, raggiungendo in profondità non più di mezzo chilometro. La Via del mare,
proveniente dalla città, lo tagliava in due parti, orientale ed occidentale. Ancora
alla fine degli anni cinquanta la maggior parte della popolazione
medio-borghese era concentrata nella zona est, tra il mare e la ferrovia, che
ne era il confine naturale settentrionale, mentre la zona ovest, con spiagge
meno curate ed attraenti, era occupata da una popolazione meno abbiente. Ai
suoi confini estremi c’era una zona di case abusive, costruite al di fuori del
Piano Regolatore e popolata di manovali, braccianti e dai cosiddetti “Sardegnoli”. Quando la nostra classe incominciò a
frequentare le Medie Inferiori, dunque, la maggior parte di noi faceva parte di
famiglie di nuovi immigrati. Pochi erano quelli nati nel quartiere: solo Emma, il
Dario, Sergio “il Secco” e forse Giovanni. Va ricordato che il nucleo originale
degli “indigeni” era formato dai discendenti degli operai che avevano fatto la
bonifica agli inizi del secolo. Questi pionieri erano tutti originari delle
Romagne. Alcune remore di quei tempi lontani dei nostri bisnonni si possono
trovare ancora in certi nomi come “Via dei Ravennati”, “Piazza Romagna” e “Via
delle paludi rosse”, nonché dal Canale della Pescaia, che segnava l’estremo
confine orientale del quartiere. Tra le due guerre alcuni pionieri si
guadagnarono una certa posizione sociale, pur senza dimenticare, almeno
ideologicamente, le loro origini proletarie. Una di queste “vecchie famiglie”
era quella di Sergio “il Secco”. La nonna, la sóra Giulietta, era la
proprietaria dell’unica merceria ben avviata del quartiere. Mandò il figlio a
studiare Medicina. Il Dr. D., padre di Sergio, era uno dei tre medici di
famiglia del quartiere. Data la posizione sociale, stava molto bene economicamente,
ma era di idee Socialiste. Non Comuniste, sia ben chiaro, Socialiste. Agli
inizi degli anni ’60 fu, anzi molto attivo nella politica locale, lottando per
la costruzione di un ospedale che non fu mai fatto, se non negli anni settanta.
Nel nostro quartiere (si badi bene con quasi duecentomila bagnanti nei mesi
estivi), esisteva solo un attrezzatissimo Pronto Soccorso, alloggiato in un
edificio completamente inadatto. Ci si deve levare il cappello a tutti i medici,
paramedici ed infermiere che lo fecero andare avanti così bene per così tanti
anni, con l’ospedale più vicino a trenta chilometri di distanza. Ritornando al
nostro “Secco”, per lui la carriera era predestinata. Era ovvio che dopo le
Medie ed il Classico, sarebbe andato a fare Medicina che, come tutti sanno, è
una tara ereditaria. Sergio era un buon amico con tutti. Crebbe in una casa
dove non gli mancava niente. Fece le più belle Feste della classe, ma fu
educato a rispettare fin da piccolo i meno abbienti, e non si comportò mai da
snob, benché fosse il più ricco della classe. Peccato che al secondo anno di
Università se lo sia portato via un incidente stradale.
Sergio era sempre stato “il figlio del Dottore”.
In classe nostra c’erano altri due “figli di”... Insegnanti, nella fattispecie.
Eh sì, perché nel nostro “piccolo” quartiere l’élite borghese era formata anche
da alcuni “pilastri” nel campo della Pubblica Istruzione. Uno di questi
pilastri fu il padre di Maria, per tanti anni insegnante di Italiano e Latino
della sezione B del nostro liceo, mentre Giovanni era figlio (materno)
dell’insegnante della rinomata sezione E delle Medie Inferiori e figlio
(paterno) del Prof V., indomito pilastro didattico della sezione A del nostro
liceo (anche l’eterno vice-preside) e poi preside per molti anni, quando noi
avevamo già finito gli studi. Che Giovanni sia diventato un insegnante di liceo
non sorprende, visto la genetica familiare. Sorprende un po’ di più che Maria
sia andata a studiare Medicina.
Come quei due figli di professori siano finiti in
classe nostra è presto detto: nel nostro liceo c’erano tre sole sezioni. Una,
la A aveva fatto Francese alle Medie. Le altre due, la B e la C, avevano fatto
Inglese. In Quarto Ginnasio c’era anche una D (Inglese), che l’anno successivo,
però, venne sciolta e divisa tra le altre due. Se non l’avete ancora capito,
noi eravamo quelli della famosa, anzi Famigerata Sezione C. Quelli senza i
“pilastri”, con insegnanti non stabili, spesso e volentieri supplenti o di
seconda categoria. Eravamo, insomma, la bestia nera del Liceo. Perfino la lista
dei nostri cognomi non cominciava dalla A, ma dalla G!
La povera Maria, proveniente dall’Inglese, non
poteva essere messa certamente nella B, dove insegnava il padre, e Giovanni
anche lui finì il più lontano possibile dalla A. Questa distanza più alfabetica
che fisica dai “pilastri” non impedì certe dicerie di favoritismo nei confronti
di Maria che, essendo un’ottima alunna (anche estremamente secchiona), si vide
contestare dagli invidiosi gli ottimi voti. Per questa ragione, e perché la
nostra scuola era ormai diventata un casino, si vide costretta a lasciare il
nosto Liceo ed a terminare gli studi in una scuola più seria, conseguendo la
Maturità con il massimo dei voti, come si meritava, senza essere tacciata di
essere “Figlia di papà”. Per Giovanni le cose furono più facili. Essendo anche
lui un rispettato casinaro ed un alunno buono, ma non eccezionale, non ci fu
nessuno che osò tacciare il padre di nepotismo. Detto tra noi, non credo che,
conoscendo tutti molto bene il
Vicepreside, Prof V., si sarebbe potuto
trovare qualcuno tanto stupido da insinuare una simile bestialità. E lo dice
uno che ha condiviso con Giovanni otto anni sui banchi (Medie e Liceo).
Oggi come oggi le persone “arrivate” sono quelle
che si occupano di Informatica, Marketing ed Economia e Commercio
Internazionali, ma ai nostri tempi (non esistevano ancora i Personal Computers)
l’élite medio-borghese era ancora formata dalle classiche professioni liberali:
Medici, Avvocati e Professori di Liceo. I ragazzi e le ragazze delle famiglie
medio-borghesi erano ovviamente indirizzati alle professioni dei padri e delle
madri. I genitori del proletariato intelligente e della piccola borghesia, per
la maggior parte arrivati dalle piccole
cittadine della periferia, sognavano ancora per i loro rampolli quella Carriera
Universitaria che era stata negata loro per ragioni di classe sociale: il loro
sogno era quello di avere un figlio “Dottore” od “Avvocato” ed una figlia
“Professoressa”. E ci mandarono al Classico, perché allora non poteva esistere
un Medico che non sapesse di Latino, e nemmeno un Avvocato che non usasse
regolarmente i temini “Sub Judice” e “Dura Lex, sed Lex”... !!!
Non è stato, quindi, un caso, ma una questione di
genetica sociale, se la maggior parte di noi siano diventati poi quello che i
genitori avevano sognato prima. Dalla nostra classe sono usciti, infatti, quattro
medici, almeno un avvocato (la cosa si dovrebbe controllare, ma purtroppo
abbiamo perso i contatti con molti compagni) e diversi insegnanti di liceo.
Comunque lo specifico indirizzo professionale divenne chiaro alla maggior parte
di noi solo in vista della Maturità vera e propria, visto che prima eravamo
troppo occupati a divertirci a scuola, da pensare seriamente al domani. Il
destino futuro fu chiaro fin dall’inizio, solo a tre persone: il Dario sarebbe andato a studiare Chimica, il Secco
Medicina ed il Dardo a fare la Carriera Militare. Il Dardo era uno dei
Veterani. Trombato dalla Zona in Quarto Ginnasio, era il figlio di un Brigadiere
dei Carabinieri della stazione del quartiere. A quanto pare era cresciuto in un
clima molto austero e militaresco, anche se, detto tra noi, osservato con gli
occhi di un compagno di classe, era la cosa più lontana dal “Leader” di quanto
ci si potesse immaginare. Secchione, si barcamenava alla bell’e meglio tra le
ostiche e pallose materie scolastiche. Era anche piuttosto grassottello, e
soffriva di una lieve balbuzie. Forse per questo difetto di pronuncia era anche
piuttosto “imbranato” con le ragazze, tanto da beccarsi l’insinuazione di
essere un po’..., come dicevamo allora: “Sicofante” (la spiegazione del termine
segue tra un po’ ). Il Dardo però sorprese tutti: appena liberato dal guscio
del Liceo, nel quale non si sentì mai a suo agio, andò all’Accademia Militare.
Lo rivedemmo l’anno dopo, magro, senza la minima ombra di balbuzie, sicuro di sé e sulla via di diventare un
ufficiale di carriera. Finalmente rintracciato, ora sappiamo che è diventato un Alto
Ufficiale. “aT-TEnti!..., presentAT-ARM!!!”.
Un altro “Figlio di Carabiniere” era Ernesto “il
Grasso”. Il padre di Ernesto era un Maresciallo Maggiore, il comandante della
piccola stazione di ***, distante cinque chilometri da noi. Il Maresciallo P.
Era una persona simpaticissima, la cui maggiore attività era probabilmente
quella di occuparsi dei piccoli problemini quotidiani di un agglomerato di
qualche migliaio di pacifiche persone, asserragliato attorno agli Scavi
Archeologici, che si estendevano in superficie più del borgo stesso. Qualcosa
di molto simile a Vittorio de Sica nel film “Pane, Amore e Fantasia”. Quando
andavamo a visitare Ernesto in casa sua, cioè nella caserma, venivamo salutati
militarmente dal Carabiniere di Guardia, cosa che ci faceva un po’ sorridere. La
madre di Ernesto era una persona simpatica e silenziosa, che sicuramente amava
molto il marito ed i tre figli maschi. Ernesto era il maggiore e gli altri due
erano nati a... nove mesi di distanza, uno dopo l’altro. Ernesto, comunque, non
ebbe mai la minima inclinazione per il militarismo, né fu spinto dai genitori,
a differenza del Dardo, a seguire la carriera del padre.
Sicofanti ed hobbies minori
Constatato che di prendere gli studi liceali
seriamente non se ne parlava nemmeno per idea, a scuola e dintorni occupavamo
il nostro tempo nei vari hobbies dell’epoca e dell’età. I nostri hobbies
pricipali erano, quello di “fare casino, tanto per farlo” e, naturalmente,
l’interesesse per l’altro sesso. Tralascio momentaneamente l’argomento “Casino”
che, come avrete ormai capito, pervade tutta la nostra storia. Per quanto
riguarda i rapporti con l’altro sesso, come ho già scritto, tra le ragazze ed i
ragazzi della nostra classe non ci sono stati romanzi veri e propri, tranne la
breve eccezione di Sergio e Donatella, che in Primo stettero insieme per
qualche settimana. Le ragazze “bone”, cioè Donatella, Rossella e... Rossellina,
preferivano gli Universitari. “Giorgia” e Genoeffa (le racchie), sembravano
indirizzate a diventare vecchie zitelle, e per Emma, che cadeva nel mezzo, si
farà un discorso a parte.
Per quanto riguarda i ragazzi, in società quello
che contava di più non era la bellezza fisica in se stessa, ma la dimostrazione
di saperci fare con le donne, in genere di uno o due anni minori di età. La
maggior parte di quelli che avevano la ragazza fissa, se la trovarono al di
fuori della nostra scuola o mantennero la riservatezza: si sapeva che la
ragazza c’era, ma la si vedeva di rado in giro. Fu certamente così per i due
“più bei fichi riconosciuti” della classe, cioè Remo e Giacomo. Ma anche Dario,
che era considerato altrimenti un imbranato, se la faceva in segreto con una
ragazza della grande città. Altri ragazzi erano, invece, play-boys
riconosciuti. Avevano molte ragazze, ma nulla di troppo serio. Quando la
ragazza c’era veramente, nessuno mise il naso negli affari privati del
prossimo. In certi casi, poi, non era consigliabile fare apprezzamenti
sacastici sull’argomento, se non si cercavano grane. Questo discorso valeva
principalmente per le ragazze di Nino.
Noi ragazzi amavamo moltissimo prendere in giro
gli altri sulle loro performances amorose, vittoriose o meno, oppure inventate
che fossero, come nel caso di Enzo il “Mandrillo” che, poveretto, era
bersagliato quasi quotidianamente dai nostri sollazzi. Ma se lo meritava
certamente. Alcuni soggetti della classe, come Armando e soprattutto il Dardo,
erano stati amichevolmente bollati di tendenze, come dire... diverse. Nulla di
vero, naturalmente, ma chi non dimostrava di saperci fare con le donne, era
automaticamente catalogato dalla parte opposta, cioé in quella dei “Sicofanti”.
L’origine di questa strana terminologia va
ricercata in uno dei Dialoghi di Platone, il “Critone”, che avemmo la sfortuna
di sorbirci a scuola: Berta tradusse il termine con la parola “delatori” e ne
spiegò così il profondo significato: “L’Attica –vero- era una terra povera
–vero- la cui unica ricchezza agricola erano – vero – gli alberi di Fico – vero
-. Atene aveva messo una tassa sull’esporttazione di questi frutti – vero -. Per
non pagare le tasse, i contadini del posto facevano – vero – contrabbando di
fichi. Il Fisco Ateniese, quindi, mandava dei delatori, fare la ricerca ed a
scoprire i contrabbandieri. Questi delatori – vero – erano, appunto, - vero – “quelli
che andavano alla ricerca/scoprivano i fichi, cioè i Sicofanti”.
La definizione ci piacque
così tanto –vero – che da allora in poi chi non ci sapeva fare con le donne
divenne “uno che va in cerca dei fichi”, ovverosia un “Sicofante”.
Oltre agli hobbies principali non ci mancavano,
però, anche hobbies minori, quali la politica e... le mostre. Prendendo come
punto di riferimento l’anno scolastico ’68-’69, cioè quando noi eravamo l’ormai
ben noto e “Famigerato II C”, La nostra classe era composta da membri di tutta
la gamma politica. All’Estrema Sinistra c’era Pasqualone, il Maoista; seguivano
due o tre ragazzi di Centro-Sinistra, alcuni “Democristiani” e i tre Fascisti
di estrema Destra: Remo, Enzo “il Mandrillo” e Dardo. Gli altri erano
“simpatizzanti” che non si sbilanciavano troppo apertamente: Giacomo era di
tentenze vagamente Liberali e Maria si dava da fare nell’Azione Cattolica, ma a
dire il vero le donne della classe non espressero mai un interesse per
l’argomento Politica, che pure in quegli anni era così attuale. Pare che la
maggior parte di loro seguisse vagamente quelle dell’uomo con cui stavano in
quel momento (se ce n’avevano uno). Non vorrei eseere tacciato di misogenia, ma
con le ragazze, si sa, noi ragazzi preferivamo parlare di tutt’altri argomenti...
Le altre classi della scuola, e della sezione in
particolare, avevano idee politiche più cristallizzate: il III C, per esempio
era di spiccate tendenze rivoluzionarie. Fu quello che portò avanti la ‘lotta
di classe’ nel nostro liceo, almeno fin a quando noi gli prendemmo la mano con
il casino “in sé e per sé”. Quelli del I C, invece erano una classe
estremamente conservativa e secchiona, che non fece affatto onore al nome della
sezione. Il V C, infine era di nuovo una classe rivoluzionaria, donne comprese,
con le quali alcuni di noi avevano ottimi rapporti di amicizia. Noi ragazzi
specialmente eravamo tenuti in palmo di mano dalle ragazze del V, e facevamo un
po’ i galletti. Ci sarebbe molto da scrivere su Visca, la “Margutte” del V C, (anche
la più rivoluzionaria), ma inutile perdersi a fare la storia di tutta la
sezione. Meglio limitarsi alla nostra classe. Va ricordato che con la sezione
B, di tendenze conservative, non avevamo molti rapporti, tranne le sfide a
bigliardino (dove li suonavamo regolarmente). Con la A, poi, non c’erano
rapporti affatto. Questo perché provenivano dalle classi di Francese e, quindi
non c’erano tra noi ex-compagni di classe in comune. Anche quelli della A,
credo, erano per la maggior parte bigotti e conformisti.
Conformisti, forse, ma qualche idea buona ce
l’ebbero anche loro. Una di queste fu la “Mostra dell’Hobby”. Alcuni alunni
delle altre due sezioni, con la collaborazione di alcuni membri del loro corpo
insegnante e la benedizione del preside, un bel giorno indissero la prossima
apertura di una mostra, nella quale tutti gli alunni dotati di tendenze
artistiche furono invitati a presentare le loro opere: quadri, collages, statue
ed opere poetiche. La mostra ebbe un successo strepitoso, grazie ai quadri ed
alle sculture di alcuni alunni della B, che erano veramente dotati di capacità
artistiche. Le poesie, invece lasciavano
piuttosto a desiderare. Erano per lo più brutte copie di certi autori romantici
che ci sorbivamo nelle lezioni di Italiano. La nostra sezione decise all’inizio
di boicottare la mostra, perché era stata organizzata dai “bigotti” della
scuola, ma fu convinta proprio dal Sartana a parteciparvi: “Dimostrate a tutti
che voi siete i migliori! Vi hanno lanciato una sfida. Fategliela
vedere!”. Pasqualone ed il Dario raccolsero
il guanto.
Un bel giorno la
palestra, già ben allestita a mostra (tra quadri ad olio e poesie sulle pareti
e sculture di terracotta sul linoleum), subì l’occupazione proletaria: Pasqualone
vi trasferì una mezza dozzina di sculture moderne composte da enormi pezzi di
rami e avanzi di falegnameria (il padre faceva il carpentiere in un ministero),
completamente avvolti con nastro isolante multicolore. Queste sculture
sembravano per lo più scheletri di animali martorizzati, ed esaltavano in netto
contrasto con le fattezze Neoclassiche delle altre sculture. Erano brutte, ma
certamente molto originali. Prima di allora nessuno si sarebbe minimamente
aspettato che Pasqualone avesse qualche talento artistico. Delle sue sculture
non aveva fatto mai parola con nessuno.
Il Dario non
fu di meno. Si mise di buzzo buono ed in pochi giorni produsse la classica “Pasquinata”.
Una decina di sonetti satirici in perfetto dialetto romanesco, che mettevano in
ridicolo le decrepite istituzioni scolastiche e sociali dei tempi. Uno spiegava
l’inutile ingiustizia di dare i voti, un’altro invitava scherzosamente certi
professori a non vergognarsi di venire a
fumare nei gabinetti degli alunni e un altro prendeva in giro i genitori troppo
protettivi di certe ragazze. Il sonetto diceva che le ragazze di buona famiglia
potevano farlo anche... di giorno, di nascosto dai padri severi. L’idea gli era
venuta da Emma. Figlia unica di genitori più anziani della media, era piuttisto
bassa di statura, ma niente male di fattezze. Aveva dei bellissimi capelli
corvini, lunghi fino alla schiena. Insomma avrebbe potuto avere un certo
potenziale, se non si fosse comportata in modo così scontroso nei riguardi dei
ragazzi, guardandoli severamente dal didietro di due grossi occhialoni. Era un
tipo troppo “quadrato” per i nostro gusti. Secchiona, matematica, di poche
parole e soprattutto completamente priva di femminilità. Questo suo carattere
era molto probabilmente solo una scorza esterna, causata dal comportamento
super-protettivo dei genitori. Il padre l’accompagnava a scuola in macchina
tutte le mattine e la veniva a prendere alla fine delle lezioni, per riportarla
a casa, impedendole di unirsi all’allegra “fiumana” che si formava all’uscita
dal liceo, che era la migliore occasione (insieme alle feste) per tutti noi di “incominciare” con l’altro sesso.
Ad un certo punto, però, anche Emma fece la
Rivoluzione: si mise le lenti a contatto ed un bel giorno fece una scenata al
padre, venuto a prenderla a scuola. Da allora in poi si unì alla nosta fiumana,
ma ormai lo stigma di “noli-me-tangere” ce l’aveva già, e fino alla fine del
Liceo non glielo tolse più nessuno.
Quando arrivò il giorno
della premiazione della Mostra dell’Hobby, il Sartana aveva evidentemente fatto
bene il suo ‘lavoro di corridoio’ con gli altri insegnanti, perché i giudici
accettarono con filosofico umorismo i sonetti del Dario, assegnandogli il
Premio Poesia. Il Premio Pittura vesse assegnato ad un alunno della B, mentre
il Premio Scultura finì agli animali martoriati. E qui Pasqualone fece la sua
Dimostrazione Ploretaria. Rifiutò di accettare la pergamena, contestando il
riconoscimento ‘borghese’. Non solo, ma, imitando due atleti americani delle
ultime olimpiadi, alzò il braccio sinistro, guantato di nero, a mo’ delle
Pantere nere, mettendo in imbarazzo alunni, genitori ed insegnanti, Sartana
compreso, che lo convinse poi ad accettare il premio, spiegandogli che “Ma no, Pasqualino,
ma no! Hai dimostrato di essere il migliore, Va benissimo, ma queste scene non
c’entrano niente con la lotta Proletaria!”. Il Sartana, laureato anche in
Psicologia, sapeva che Pasqualone, anni dopo, avrebbe guardato con nostalgia
quel pezzo di pergamena ritrovato nel cassetto, unico testimone dei bei tempi
andati.
E parlando dei bei tempi andati, non si può se non
ritornare a Berta che, ormai a sess’antanni passati, ai “tempi di una volta –
vero -, quando c’era più rispetto” ci credeva veramente. E credeva veramente
anche alla Medicina di un tempo. Benché la cosa non fu mai verificata in
profondità, da certe sue frasi frammentarie, venimmo a capire che la Nostra aveva
avuto una carriera eroica. A quanto pare proveniva da una famiglia molto
benestante o comunque molto rispettata del nord. Pare che il padre fosse stato
un alto magistrato. Facendo i conti dell’età, probabilmente da prima dell’Era
Fascista. Berta si era laureata in Lettere Antiche negli anni trenta, ma non
aveva avuto bisogno di insegnare, grazie alla sua posizione sociale. Si era
quindi dedicata ad opere di beneficenza o a qualche altra forma di volontariato
per molti anni. Pare che abbia fatto la Crocerossina in Africa Orientale e poi,
nella Campagna di Russia sia stata
addirittura la direttrice di qualche ospedale militare. A furia di stare in
mezzo ai dottori si era fatta una cultura medica molto approssimativa, ma
atrettanto efficace (almeno a parole). Per nostra fortuna non ebbe mai
occasione di mostrarci le sue qualità di infermiere, ma una volta se ne uscì
con una perla molto interessante: Il Dario, che portava anche allora gli
occhiali, un bel giorno si stava letteralmente addormentando. Tra un passo di
Cicerone ed un altro, provò l’impellente bisogno di stropicciarsi ben bene gli
occhi. Berta lo osservò dal di sopra degli occhiali a mezzaluna e gli dette la
sua lezione di Medicina: “Ealora, Dario –
vero – Lo sai qual’è l’unica cosa con la quale – vero - si possono stropicciare
gli occhi?”. “Con una garza sterilizzata...?” Azzardò il poveretto. “Sbagliato
– vero - !” Ribbatté Berta. E poi aggiunse trionfante, con il suo classico
sorrisetto idiota: “Solo con i GOMITI!!!”.
Non si può negare a Berta che, almeno per quella volta, avesse reso l’idea in modo efficace.
Berta non fu l’unica ad
esprimere pareri ‘medici’ gratis. Questa storia ce l’ha ricordata Emma:
Trudy una volta chiamò alla lavagna Nino, per
interrogarlo. Ovviamente lui non era preparato. Si inventò una strana ferita
che si era procurato il giorno prima e per la quale aveva passato il pomeriggio
dal dottore. Trudy allora se ne uscì con una ricetta di altri tempi che
prevedeva l'utilizzo di quella specie di laniccia mista a ragnatele che si
deposita sotto il letto e che sarebbe stata sicuramente un toccasana, salvo poi
tacciare la padrona di casa di non essere all'altezza del suo compito. Speriamo
che Maria, Armando, Enzo e Genoeffa abbiano appreso all’Università sistemi
terapeutici più aggiornati di quelli di Berta e di Trudy!
Nel nostro Liceo non ci furono mai attività culturali
extra-scolastiche organizzate dalla scuola. Non so se questo fosse un fatto legato
al Sistema Scolastico di quei tempi, o perché il nostro era un insignificante
Liceo di periferia. Gite scolastiche, per esempio, non se ne fecero mai, ed
anche le ‘visite di classe’ a musei o mostre furono avvenimenti più unici che
rari, avvenuti grazie all’iniziativa di qualche insegnante di larghe vedute. La
cosa, a pensarci bene, sorprende un po’, se pensiamo che l’Italia ha (secondo
una statistica dell’UNESCO) non meno di un terzo dei beni culturali mondiali!
Durante gli anni di scuola non partecipai mai ad una scena come quella che mi
capitò alcuni anni fa in un museo di Parigi: in una sala vidi una ventina di
bambini dell’asilo, non più di quattro o cinque anni, seduti all’indiana, a
braccia conserte sul parquet, di fronte ad un quadro ad olio gigantesco, che
occupava tutta la parete. Mentre la maestrina dava le spiegazioni sull’opera, quei
piccoli ascoltavano in religioso silenzio. Un paio di loro fecero anche…
domande!
La nostra classe, in cinque anni di liceo, fu
portata una sola volta dall’insegnante di Storia dell’Arte a visitare il Museo
d’Arte Moderna. Un’altra volta andammo in gruppo a vedere una mostra di
tecnologia, dove gli Americani avevano esposto un modello del modulo Apollo (si
era negli anni dei voli sulla Luna). L’unico insegnante che ebbe un’iniziativa
personale fu il Paguro. ‘Bernardo l’Eremita’ faceva l’insegnate solo
temporaneamente. Pare, infatti, che fosse uno scienziato ricercatore, al quale
era scoppiato in faccia qualche apparato durante un’esperimento di Chimica.
Ebbe il suo soprannome, per via che durante le prime lezioni, quando qualcuno
faceva una domanda, si avvicinava a due millimetri per sentire e vedere meglio.
Penso che ancora fosse in convalescenza da quel brutto incidente di
laboratorio, perché in seguito si comportò normalmente. Il Paguro, dunque,
avendo ottimi rapporti con I suoi ex-colleghi, ottenne un permesso speciale
dall’università, per farci visitare il museo di Geologia e Paleontologia, che
normalmente non era aperto al pubblico, ma solo agli studenti universitari ed
ai ricercatori. La cosa che ci fece più impressione fu l’enorme scalinata di
accesso alla Facoltà, una costrizione tipica dell’Era Fascista. Nel museo, tra
i minerali e fossili vari, la cosa più interessante fu una teca con lo
scheletro di una Mammuthessa nana, grande come un cane danese, con accanto lo
scheletro di un Mammuthino grande come un barboncino. Questa visita al Museo
dell’Università conclude la lunga lista delle attività culturali
extra-scolastiche di quei tempi, in un Liceo Classico, dove le scienze
teoretiche erano all’ultimo posto. Per le scienze applicate, in classe nostra
si andava un po’meglio. In spirito coi tempi, infatti, avemmo una troika di
emulatori di Verner Von Braun: Nino, Remo e Giacomo erano esperti nel lancio
dei razzi. La zona di Cape Canaveral, cioè la rampa di lancio, era il davanzale
della finestra di fondo, che veniva lasciata “inaccuratamente” aperta per
l’occasione. I missili, costruiti accuratamente dai nostri tre ingegneri, erano
composti da tre cerini, le cui capocchie venivano unite e racchiuse
strettamente con la carta stagnola. La delicata operazione di
messa in opera consisteva nell’allargare I tre ‘gambi’ dei cerini, lasciando
un’infinitesima intercapedine per l’ugello di scarico. Uno dei gambi veniva
appogiato su una moneta, per creare un angolo leggermente inclinato sulla
verticale ed indirizzare il volo in direzione della strada. Dopo il conteggio
alla rovescia l’ignizione veniva provocta dall’accensione di un quarto cerino
sotto la rampa. Il più delle volte il lancio faceva cilecca, o perché i gambi
del razzo prendevano fuoco sulla rampa, o perché gli ingegneri avevano usato
troppa carta stagnola, creando un sovrappeso, che impediva il decollo verso lo
spazio. Nei rari casi in cui il missile partiva bene, la nostra classe
accompagnava con un applauso il lancio riuscito. Ma gli esperimenti dovettero
essere temporaneamente sospesi dopo quella volta che Remo (o Nino) fecero un
errore di calcolo di bilanciamento. Il missile partì, in direzione del soffitto
della classe. Due secondi dopo, a propellente solido esaurito, compiendo una
perfetta parabola balistica,
atterrò senza danni proprio al centro del registro di classe dell’insegnante di
Fisica. Quella volta ci andò buona: il missile non creò nessun cratere da
impatto, e l’insegnante la prese con filosofia scientifica. Figuriamoci cosa
sarebbe successo se la traiettoria, leggermente alzata, avesse portato il
missile ad allunare sulla testa della Prof…
La perfetta traiettoria del missile “Cerino 11” fu
resa possibile dal fatto che il lancio fu effetuato da un banco dell’ultima
fila. Come in tutte le classi che si rispettano, i posti erano occupati secondo
la logica dell’altezza e della secchioneria. Durante gli anni di liceo ci
furono alcuni cambiamenti di posto, ma, almeno fino alla ‘rivoluzionaria’
disposizione a U operata dal Sartana, la nostra classe era divisa in tre file
di quattro o cinque banchi ciascuna, disposti di fronte alla cattedra.
Guardando verso quest’ultima, la porta stava a destra e le grandi finestre a
vetri stavano a sinistra. Tra la cattedra e la porta troneggiava una lavagna
nero di vecchio tipo, montata su un’intelaiatura di legno, con la ‘pagina a
righe’ sul davanti e quella a ‘quadretti’ sul retro. La lavagna, superfluo
dirlo, non fu mai girata. Per essere precisi ci provò una volta l’insegnante di
matematica, ma la cosa si dimostrò così elaboriosa (probabilmente le viti erano
completamente arruginite dall’inattività) che la prof. ci rinunciò,
accontentantosi da allora in avanti di disegnare il seno ed il coseno alla
bell’e meglio sul lato ‘a righe’. Sul muro alle spalle dell’insegnante era
appeso il Crocifisso e, un po’ più in là il ritratto del Presidente della
Repubblica che, come ho avuto modo di raccontare all’inizio di questa storia,
era stato sottratto varie volte. Alla fine del Terzo il Dario riusci ad asportarlo defitivamente, ma visto
che, emigrando, non se lo poteva portare all’estero, partendo lo regalò a Gabriele,
il secondo classificato alla gara di asportazione. Ed ora, se i ricordi non fanno cilecca, alla
disposizione dei banchi:
Nella fila di sinistra sedevano al primo banco Donatella
e Rossella (per farsi vedere meglio dalla strada?), al secondo Giacoma e Genoeffa
(sperando di non farsi veder troppo dalla strada?), al terzo Dardo ed Enzo (il
nucleo fascista) ed infine nel banco di fondo i ragazzi più alti: Giacomo e Remo
(con Pasqualone e “K”). La fila centrale fu più dinamica: al primo banco
sedette per tutto il liceo Emma che, essendo bassa, secchiona ed occhialuta, aveva
tutti i requisiti per sedersi proprio di fronte agli occhi degli insegnati.
Insieme ad Emma sedeva una delle due Gabrielle. I due banchi di mezzo furono
occupati a seconda degli anni da Carlo e da altri “temporanei”. In fondo c’era Nino.
Infine nella fila di destra sedevano (per esaurimento del sesso debole) Pepe e Ernesto.
Cosa ci stesse a fare Ernesto al primo banco, riservato ai bassi ed ai
secchioni, non si capisce bene, a meno di spiegarlo con il fatto che il suo
posto era anche quello più vicino alla lavagna (Ernesto era l’addetto ai
“graffiti”) e, soprattutto alla ... porta d’uscita. Dietro a Pepe sedeva Armando
(con Sergio), poi il Dario ed infine,
dietro di lui Paolo, pronto a tirargli qualcosa addosso, in concomitanza con
gli ammonimenti “Cheppallosi ” (a distanza) di Giacomo. In terzo venne aggiunto
un ‘banco zero’ davanti a quello di Pepe e Ernesto, per far posto alle due
nuove donne (si fa per dire) arrivate: Tonia ed Allegra. Poi venne il Sartana e
l’intera disposizione cessò di esistere.
Professori Minori
Come già scritto in precedenza la sezione C era
una sezione di passaggio. Molti insegnanti erano gente in attesa di avere un
posto migliore oppure erano supplenti. Alcuni stettero con noi così poco da non
lasciare la minima impronta nei nostri ricordi, nemmeno un soprannome.
Per l’insegnante di Matematica-Fisica si dovrebbe
fare un discorso a parte. Fu la nostra insegnante per tutti e tre gli anni di
Liceo, anzi fu addirittura ufficialmente la nostra Insegnante di Classe e, come
tale, fece parte della commissione agli Esami di Maturità. Metterla, quindi,
tra i ‘professori minori’ è un po’ ingiusto, ma il fatto sta che erano le sue
materie di insegnamento ad essere considerate ‘materie minori’ in un Liceo
Classico, dove tutto girava attorno alle
Lettere. Per la maggior parte di noi la Tangente era allora (venticinque anni
prima della “Seconda Repubblica”) solo un qualcosa di vagamente obliquo, ed il
Seno era un bella parola riguardante le due prominenze femminili anteriori. Che
poi invece sia un errore di traduzione dall’Arabo al Latino, lo venne a sapere
molto più tardi solo quel rompipalle del Dario, così adesso lo sapete pure voi
(CHEPPAALLE!).
Il nostro rapporto con l’insegnante di Mat./Fis. fu
quello di rispetto reciproco “a patto di non romperci le scatole a vicenda” e
questa convenzione fu mantenuta per tutto il Liceo. D’altronde si trattava di
sopportarci per due sole ore settimanali a materia. Di fatto furono molte di
meno, perché Fisica si faceva solo a partire dal Secondo e, quando fu chiaro a
tutti che la materia non sarebbe stata una di quelle della Maturità, in Terzo
nessuno toccò il libro. Sarebbe più giusto dire nessuno tranne Emma,
naturalmente. Matematica e Fisica, per chi non lo sapesse, al Classico erano
materie esclusivamente orali. Non esistevano i famigerati compiti in classe. Al
massimo si potevano temere le interrogazioni ed il controllo degli esercizi di
fine trimestre, ma per queste piccolezze c’era il vecchissimo e collaudato
sistema: si copiavano gli esercizi di Emila, o la si manda ‘volontaria’ a farsi
interrogare. La Prof., poi, che era tutt’altro che stupida, era perfettamente
cosciente con chi avesse a che fare, ed il più delle volte tagliava la testa al
toro, rispiegando per la seconda volta, per mezza lezione, le formule della
lezione precedente. A tale proposito il compito ufficiale di richiedere
ulteriori spiegazioni era assunto dal noto rompiscatole: il Dario. Nel
complesso i nostri rapporti con la Prof. andarono lisci come l’olio per tutto
il Liceo, al punto che non le appiccicammo nemmeno un soprannome. Anche il
cognome era finito nel dimenticatoio, finquando Giacomo ci ha ricordato che si
chiamava La Trova.
Uno degli insegnanti di Italiano di passaggio fu
un professore grasso e pelato. Data la somiglianza con un personaggio dei
cartoni animati per bambini, fu subito battezzato Papalla. Papalla aveva
insegnato per molti anni all’estero, credo in Libia, nelle scuole della “Dante
Alighieri”. Quando, dopo la Guerra dei Sei Giorni, il Governo Libico buttò
fuori tutti gli Italiani, il tizio ritornò in Patria, aggregandosi temporaneamente
al nostro Liceo, del quale la figlia era la Segretaria da sempre. Papalla amava
uscirsene con delle (Don Renzo mi scuserà il termine) cazzate per niente
divertenti. Forse in Arabo suonano meglio. La più nota era quella che lui era
un genio, perché la sua fronte cominciava dalle orbite degli occhi e finiva
sulla nuca. Per avere un’idea migliore del Papalla bisognerebbe, comunque,
assistere alla prima occasione, all’imitazione fatta da Pepe.
Un’altra insegnante che non lasciò traccia fu la
giovanissima neolaureata in Biologia che venne a sostituire il Paguro in Terzo.
Per ragioni che sfuggono dalla nostra memoria venne soprannominata “Cavallo
Pazzo”. Era una supplente alle prime
armi dell’insegnamento liceale. In Terzo la materia ‘Scienze’ non era Biologia,
ma Geografia Astronomica, nella quale la Prof. non eccelleva molto più di noi.
Nelle sue lezioni la classe, con saltuaria eccezione del Dario, ronfava
beatamente. Una volta, spiegando le Leggi di Keplero, la Prof. se ne uscì con
l’infelice frase: “Keplero inventò le leggi che permettono alla
Terra di girare intorno al Sole”. Il Dario, cogliendo la perla, ribbattè di
rimando: “Ma, scusi, e allora... prima di Keplero, come faceva la Terra a
girare attorno al Sole?”. La poverina si intrecciò e disse: “Mah... dovresti
chiederlo all’insegnante di Fisica. Di queste cose se ne intende più di me!”.
Il Dario decise
che era meglio non infierire oltre.
Quando Berta ci lasciò in Terzo, per andare
finalmente in pensione, fu cercato e trovato un’insegnante di Latino e Greco
che sapesse soprattutto mantere la disciplina ad un livello, a giudizio della
presidenza, almeno sopportabile. Quando il Prof. P. Catania, un Siciliano di...
Catania, fece il suo primo ingresso nel Famigerato III C, aveva già alle spalle
una certa esperienza in fatto di eruzioni vulcaniche, quindi partì subito in
quarta con un convintissimo monologo sui reciproci rapporti futuri, concernenti
soprattutto la disciplina. La sostanza era: “Patti chiari, amicizia lunga”. Il
tono: “Se non rigate dritti, vi faccio vedere io. Non per nulla sono un parente
di Don Corleone!”. La nostra classe, ovviamente era ormai troppo smaliziata per
impressionarsi di quel monologo alla “Savonarola”, che ebbe come unico vero
risultato, quello di trovargli subito il sopannome perfetto: “il Mistico”.
Il Mistico ebbe con noi
la vita abbastanza facile, non tanto perché riuscisse a farci rigare dritti, ma
piuttosto perché eravamo in Terzo, ed era chiaro che non potevamo ignorare il
fatto che Latino e Greco sarebbero state certamente materie da presentare alla
maturità. Di fatto arrivammo presto ad un ‘modus vivendi’ basato, da parte
nostra sul principio: “Tu pensa a prepararci agli esami decentemente, senza
renderci la vita troppo difficile con rotture di scatole superflue, e noi
staremo buoni. Tu sarai forse parente di Don Corleone, ma noi siamo veterani
della Bertarivoluzione !”. Il Mistico
era un insegnante preparato e fece il suo dovere, tanto è vero che non mi
risulta che nella nostra classe ci furono trombati alla Maturità. Del Mistico
ricordiamo soprattutto che usava assumere spesso una posa stortignaccola (per
l’imitazione rivolgersi a Pepe) nella quale si metteva gli occhiali sulla
fronte e, leggendo qualche passo di Cicerone, sparava la sua famosa frase,
pronunciata con tutte le è e le ò aperte dell’accento Catanese: “...sòtto certi
aspetti, ... ... sòtto altri, mèèèno...”
Le Feste
Ad uso e consumo delle giovani generazioni che
dovessero imbattersi per caso in questa storia, racconteremo adesso qualche
cosa sulle feste da ballo. Con ogni probabilità i giovani di oggi, ormai
abituati ad un mondo libero e smaliziato in fatto di sesso, leggeranno con un
malcelato sorrisetto di sufficienza il nostro comportamento quasi ingenuo di
allora, ma sia permesso ricordare alle nuove generazioni che proprio noi vecchi
decrepiti siamo stati quelli che hanno attuato la rivoluzione sessuale tanto
famosa dei famosi anni ’60. Quella rivoluzione che li ha fatti nascere nel
mondo di oggi. Prima di noi c’era il Medio Evo, dopo di noi c’è stato l’Amore
Libero.
Per noi “vecchi”, poi, questi sono i bei ricordi
dell’età dell’adolescenza. Non guasterebbe un po’ di romantica anche ai giovani
di oggi.
Facciamo la descrizione di una tipica festa tenuta
a casa di Sergio, un 9 Gennaio (giorno
del suo compleanno), o a casa di Pepe il 19 Marzo (S. Giovanni) o dove e quando
vi pare e piace.
La prima regola di una buona festa da ballo era
che il numero di donne e di uomini fosse pari, quindi non potevamo limitarci ad
invitare solo le donne della nostra classe. Alcuni di noi erano incaricati, quindi,
ad invitare altre ragazze del ginnasio o non provenienti dalla scuola.
L’incombenza di portare le altre donne veniva data in genere a Sergio o meglio
ad Enzo, che era uno specialista in proposito. Enzo faceva l’entrata trionfale
con tre o quattro ragazze ‘nuove’. Una di loro in genere se lo trovava
appiccicato per tutta la festa, mentre le altre si dileguavano, ballando con
gli altri ‘bei fichi’ di turno. Allora non esistevano i CD, ma i veri e propri
dischi, quelli che si suonavano col giradischi a puntina, e che contenevano un
solo pezzo per lato. Sergio forniva la materia prima, mentre una delle ragazze
meno piacenti di turno si incaricava di sostituire i dischi uno dopo l’altro
senza soluzione di continuità. All’inizio della festa venivano messi balli
movimentati. Il Rock-and-Roll ai nostri tempi era già fuori moda. Il Twist
stava dando gli ultimi respiri. Per lo più si ballava lo Shake, che è quello
che oggi viene chiamato semplicemente Disco. Ognuno si dimenava senza una
regola precisa. In questo già si poteva vedere la Rivoluzione Giovanile:
proprio ai nostri tempi, dopo secoli, cessarono finalmente di esistere i balli
con i passi obbligati, che avevano riempito le sale dal Minuetto al
Rock-and-Roll.
I balli movimentati erano, ovviamente solo il
preludio della festa vera e propria, che entrava nel suo meglio nei ‘lenti’. La
luce veniva abbassata e si formavano le coppie. E qui lo stile di ballo
dipendeva dall’età e dalla natura delle coppie. Di regola non era permesso di
accaparrarsi una bella ragazza per tutta la festa, a meno che non fosse la tua
ragazza riconosciuta. Le coppie fisse non erano ben viste alle feste fatte in
casa. La regola era che, se volevi paccare con la tua ragazza, eri tenuto ad
andartene in pineta. Le feste erano fatte per dare a tutti, fichi e meno, la
possibilità di divertirsi, di ‘incominciare’ e di ‘farsi vedere incominciare’
(Enzo). Le coppie, quindi si scambiavano ad ogni ‘lento’. Di regola era il
ragazzo ad invitare la ragazza. Raramente si usava fare il contrario, solo per
un ballo o due, più che altro come gioco di società. Questa regola sociale, che
nelle generazioni seguenti venne poi abrogata, creava delle difficoltà specie
alle ragazze meno belle, perché i ragazzi non ci tenevano particolarmente ad
invitarle. Esse finivano a fare da ‘tappezzeria’, come si diceva allora.
Osservando le coppiette nei ‘lenti’, si potevano
notare (nella penombra) pose diverse, che indicavano chiaramente il rapporto
dei due ballerini. Di norma, se la ragazza invitata era decente, ed il ragazzo
possibile e più alto di lei, la posa classica prevedeva le due mani del ragazzo
a metà schiena della ballerina e le mani della stessa attorno alla nuca di lui.
Il contatto fisico frontale prevedeva un leggerissimo sfioramento della zona
toracica, una separazione millimetrica della zona addominale e delle due guance,
mentre i piedi facevano perno sulla ‘stessa mattonella’ girando in senso
orario.
Se la ragazza era racchia (era buona regola
invitare anche la ‘tappezzeria’ di tanto in tanto), o se la ragazza non voleva
‘incominciare’, alle mani di lui veniva consentito di poggiarsi delicatamente
sui fianchi, mentre la distanza corporale si allargava fino ad alcuni
centimetri. In caso di coppie fisse (o di ragazze ‘spregiudicate’), le mani del
ragazzo si univano tra loro dietro la schiena, le guance si appiccicavano e
così pure le parti addominali. La classica procedura del ragazzo per incominciare
era quella di passare, nel buio, dalla posizione normale a quella di ‘coppia
fissa’. Se la ragazza ci stava, bene. Se no usava il metodo dei gomiti: li
chiudeva in modo di impedire il contatto frontale del torace di lui con il
petto di lei. L’antifona veniva capita, ed il ragazzo passava a ‘provarci’ con
un’altra.
Due parole
sull’abbigliamento. Come i teen-agers di oggi, anche allora andavamo vestiti in
modo molto uniforme. Per i ragazzi il vestiario era (stranamente) legato alle
opinioni politiche. I pochi che si presentavano alle feste costantemente in
giacca e a volte addirittura in cravatta, erano i tre fascisti della classe: Remo,
Enzo e Dardo. Sergio, anche se meno “ufficiale”, sfoggiava camice costose di
marca, altrimenti molto simili a quelle degli altri. Era questo il suo unico
vezzo da rampollo ricco, e se lo poteva permettere. Gli altri ragazzi andavano
più con il golf alla dolce vita (la Sinistra Politica invernale) o col solito
completo camicia colorata e pantaloni scuri. Alle feste quasi non si usavano gli
jeans, che erano ancora considerati ‘troppo sportivi’. Per le ragazze alla fine
dei ’60 era di prassi il vestito corto o la minigonna e i collant in tono. La
lunghezza della mini andava in relazione biunivoca alla bruttezza delle gambe:
quella di Genoeffa arrivava fin quasi al ginocchio, mentre quella di Donatella
non lasciava troppo all’immaginazione. Capitava spesso che le ragazze facessero
sfoggia alle feste di vestiti nuovi, secondo l’ultima moda, cosa che una volta
creò una situazione imbarazzante. Si era ad una festa a casa di Maria, verso la
fine del quinto. L’ospite accolse gli invitati vestita con un vestito ultimo
grido: un modello attillato, azzurro con il disegno ad anelli intrecciati
gialli e rossi, che finiva due dita sopra il ginocchio. Bellino, ma niente di
speciale su un corpo di ragazza altresì castigata, troppo seria, non troppo
magra, occhialuta, che spesso faceva da ‘tappezzeria’. Ad un certo punto arrivò
la bella Piera: alta, bionda, molto desiderata e dal corpo perfetto, dentro...
esattamente lo stesso vestito! Beh... non c’e dubbio che gli abbigliamenti si
somigliassero solo nella... stoffa. Il che dimostrò anche ai più scettici che,
se l’abito non fa il monaco, fa certamente... la monaca! Ad onore di Maria e
Paola diremo che le due ragazze si ripresero subito dall’imbarazzo, e che la
festa fu un successone.
Nelle feste per lo più si ballava e si parlava.
Raramente si facevano giochi di società o il ‘ballo della scopa’ se c’erano
troppe poche ragazze (o molta ‘tappezzeria’). Nelle case medio-borghesi di
allora non si fumava la droga o ci si prendeva a botte. Se ti capitava di dover
fare i conti con qualcuno su qualche faccenda privata (o ragazza privata), eri
tenuto ad andartene a sistemare i tuoi affari fuori. Prendersi a botte poteva
succedere sì, ma erano casi rari. Uno dei casi in cui il Dario ed Enzo ci andarono vicini, successe a casa
di Giovanni. Il Dario sostiene in
proposito che, nonostante che più tardi nella vita abbia partecipato ad un paio
di guerre vere e si sia aggirato spavaldamente durante la guerra civile in
Libano alla guida di una jeep aperta, quelle furono quisquilie, in confronto al
pericolo per la sua salute in seguito all’azione “commando” che si permise di
fare nei confronti di Enzo a quella festa. Il nostro “Mandrillo” stava
facendosi vedere, come al solito, nell’azione di ‘cominciare’ con una ragazza.
Una ‘nuova’ che si era portato alla festa. La festa stava andando per le lente.
Mancava un po’ d’azione. Il Grasso, chiacchierando con il Dario, espresse
l’opinione di ‘punire’ Ezio: “Bisognerebbe
calmargli i bollenti spiriti!”. Il Dario
espresse la sua: “beh? Perché non ti dai da fare?”. Giacomo ribbatté:
“Ti ci vogli vedere a te, che fai tanto il saputone. Una volta tanto facci
vedere che sei buono, non solo a parole”. Il Dario, punto sul vivo, rispose:
“O.K.!”, prese la caraffa dell’acqua fresca e, avvicinatosi furtivamente alle
spalle del Mandrillo, gli vuotò con salomonica calma, l’intera caraffa sulla
testa. Dopo un paio di secondi di attonimento, Enzo ebbe una reazione
decisamente esplosiva: ben trattenuto da due compagni forzuti, tentò di
lanciarsi sul Dario urlando:
“Lasciatemi!... lo ammazzo!!”. Il Dario fu
‘gentilmente’ pregato da Pepe di abbandonare la festa. Due giorni dopo si scusò
con Enzo (la caraffata, con effetto ritardato, aveva calmato i bollenti
spiriti) di aver esagerato un po’ troppo e, da allora in poi, i due rimasero
buoni amici.
Il Teatro
Dai frammenti buttati giù finora vi potrebbe
sembrare che la nostra classe fosse formata da compatte amicizie, durevoli alle
intemperie dei tempi. Non è così. Ne sia testimone la storia del “teatro”, che
causò uno screzio abbastanza profondo tra Giacomo e “Don” Ernesto “il Grasso”.
Quando noi frequentavamo
il Terzo, in Secondo c’era un ragazzo di nome Marco, paralizzato alle gambe da
Poliomielite. Marco era del nord e viveva con una sorella sposata e col
cognato, che lo portava a scuola in macchina tutte le mattine, lo prendeva in
braccio per le scale, per poi adagiarlo delicatamente accanto al muro
dell’entrata. Da lì Marco, con l’aiuto delle stampelle, si incamminava in
classe. Marco era un tipo molto cordiale e, nonostante l’invalidità, fece
presto amicizia con tutti. Ovviamente non poteva partecipare con noi alle
partite a pallone o ballare alle feste. Non so come un giorno gli venne l’idea
di fondare un “circolo culturale”, che poi fu chiamato “il teatro”. Alcuni
ragazzi e ragazze del corso si riunivano una o due volte alla settimana a casa
sua, in salotto, attorno a lui, a preparare la messa in scena dell’ “Opera da Tre
Soldi” di Bertolt Brecht. C’erano, oltre a Marco che fungeva da regista, Salvatore
(della sua classe, fratello della nostra “Rebecca” - Mackie Messer), quattro
ragazze del Primo: la bella Clara (Polly Peachum), la compassata Lidia (Celia Peachum),
la piccola Donatella (Lucy Brown) e Lara Volpi, la “Genoveffa” del Primo C (chi
non se... Jenny delle spelonche!). Del terzo c’erano Giacomo (Gionata Peachum),
Marco (Il Capo Brown), Gabriele (Giacobbe, uno della banda di Mackie) ed il Dario (Filch), in funzioni di comparse
La messa in opera dell’Opera da Tre Soldi non
venne mai portata a termine, perché gli incontri erano fondamentalmente solo una
scusa per fare compagnia a Marco e per dedicarsi in quella che allora veniva
definita dalle Estreme Sinistre Popolari “Masturbazione Intellettuale”, termine
di uso rivoluzionario per dire “circolo culturale della borghesia
intelletualoide”.
La storia del Circolo del Teatro si riseppe, e si
tirò addosso i sollazzi dei membri “popolani” della classe, primo fra tutti Ernesto,
che non la smise per un po’ di fare apprezzamenti sarcastici, soprattutto in
direzione di Giacomo che era, a ragione, il più intellettuale della nostra
classe. Le prese in giro girarono per lo più attorno al fatto che il teatro era
una scusa come un’altra per ‘incominciare’ con le ragazze del Primo, ma... con
chi, poi? Una (Clara) aveva notoriamente un ragazzo fisso, un’altra (Lidia) era
un tipo frigido, una terza (Donatella) era troppo bassa, da sembrare una
bambina ed infine soprattutto Volpi, considerata non solo brutta, ma
soprattutto la più grande rompipalle del corso. Questi apprezzamenti, non
proprio “delicati” nei confronti delle ragazze e del “Circolo del Teatro” fecero andare giustamente Giacomo su
di giri, e lui probabilmente tacciò Ernesto di cafoneria e di buzzurità.
Insomma, quello che era nato come una buona azione per alleviare l’infermità di
Marco e stare insieme a fare un po’ di vera cultura, si trasformò in una forte
divergenza di idee e di comportamento tra gli “Intellettuali Borghesi” ed i
“Popolani” con a capo Giacomo da una parte ed Ernesto dall’altro. Da allora in
poi, fino alla Maturità, i due si parlarono poco o niente.
Giacomo sostiene che più che di uno screzio tra
lui e il Don (con cui per altro è rimasto in rapporti cordiali) si trattò
semplicemente della presa d'atto del fatto che, passata l'età del bigliardino,
si erano ormai fatte troppo forti le differenze caratteriali e di gusto,
tipiche dell'età adulta. Il teatro fu solo l'occasione del divorzio, altrimenti
ci sarebbe stato qualcos'altro.
Il problema, a detta di Giacomo, è che non è
possibile che gente diversissima in tutto, che casualmente si ritrova insieme a
14 anni, possa poi continuare a farlo anche a 18-19 come se niente fosse. La
colpa è al solito della scuola, che dura troppo. "Compagno di scuola,
compagno di niente", proprio come canta il grande Venditti.
Non sono d’accordo con Venditti. Qualcosa è
rimasto di quell’amicizia. Qualche simpatico ricordo sbiadito, che abbiamo
cercato di mettere in questa storia, e la scusa di incontrarci di tanto in
tanto, per chiederci come ce la passiamo, per presentare le mogli, i mariti, i
figli. Per esclamare “Ma come... ha già finito l’Università?, me la ricordo
ancora in carrozzina!”. La scusa per dire al Dario: “Ma dove sono finiti i tuoi
capelli? Si sono bruciati, perché dalle parti vostre il sole incoccia di più, o
te li sei strappati chiedendoti perché non sei rimasto in Italia”. La risposta
ve la dico quando ci rivediamo.
Avrete certamente notato che nonostante questo
racconto sia stato intitolato “La Storia di Berta & C.”, ci siamo
soffermati su gli “& C.” Molto di più che su Berta. Non c’è bisogno di
spiegare agli eroi chi sia stata la protagonista di questa saga, ma, ora che
conoscete le comparse, è d’uopo raccontare
(magari con qualche abbellimento qua e là) il nocciolo della Bertarivoluzione .
Come già accennato, ai nostri tempi al liceo era
di moda la “contestazione”. Il Maggio Francese aveva fatto il suo effetto anche
nel pacifico quartiere di periferia in riva al mare.
Ogni generazione, giunta all’età della maturità
sessuale, ha bisogno di scaricare la tensione e la frustrazione delle delusioni
amorose in un modo o nell’altro. Le vittime di questo processo biologico sono
in genere i genitori e gli insegnanti. Purtroppo la generazione dei Padri
dimentica con gli anni, e la tensione a volte esplode come un fulmine a ciel
sereno sui poveri adulti, senza che loro si rendano conto del come e del
perché. Anche per la nostra generazione liberale del dopoguerra le cose non
sono state molto diverse, perché non è cambiato il processo biologico che
permette la continuazione del genere umano: i cuccioli litigano tra di loro, i
bambini delle elementari qualche volta fanno a pugni, ed i Liceali esaperano
gli insegnanti.
La Natura impone il comportamento irriverente
della generazione in fase di maturazione.
Cosa importa al liceale medio della trigonometria,
o quanto sia interessante quel verso irregolare latino, quando proprio ieri
Mariella ti ha detto di no, e poi l’hai vista sul molo, sbaciucchiarsi con
Franco? E cosa ti importa la Terza Coalizione contro Napoleone se proprio il
giorno prima del Derby a cui volevi portare Lucilla, il portiere bel fusto che
piace a lei non giocherà, perché si è infortunato in allenamento?
Giacomo e Dario decisero un giorno di mettere su un duetto di
armoniche a bocca, e la logica imponeva di allenarsi durante le lezioni di
Latino di Berta. Rintanati nei banchi dell’ultima fila, Giacomo e Dario accordarono gli strumenti, nel bel mezzo di
un noiosissimo pezzo di Cicerone. Enzo ridacchiò in silenzio e “Don” Ernesto
approvò, con un breve colpo di tosse-foca. Berta smise di leggere ed alzò gli
occhi sopra gli occhiali a mezza luna, fulminando lo sguardo sul Dario. Berta
aveva l’udito fino. Dario fece la faccia
d’angelo. Berta continuò a leggere ad alta voce. Giacomo suonò una scala di
semicrome alte. Una delle ragazze si lasciò scappare una risatina della stessa
tonalità. Berta guardò in direzione di Giacomo con gli occhi fiammeggianti. Il
compagno di banco di Giacomo, Pasqualone, stava leggendo, come al solito, un
libro sul marxismo. Pasqualone, come già accennato, era di Estrema Sinistra
ed odiava tutto quello che aveva odore
di Fascismo, di Antico, di Decrepito, di Borghese. Soprattutto odiava Berta,
come simbolo di tutte le qualità più negative del potere costituito. E Berta
odiava Pasqualone, come simbolo della rivoluzione anarchica, dell’irriverenza,
eccetra... invece Giacomo “Era – vero – un ragazzo sempre educato – vero – ed
ossequioso...”. Quando Giacomo tentò una scala di semicrome basse, Berta
esplose: “Ma insomma, Pasqualino - vero – smettila con quel fischietto!”. Pasqualone
alzò gli occhi dalla pagina con il commento sul ‘Manifesto’. “Che vuoi, Berta?
Non scocciare!”, Disse, e riprese a leggere il libro. Berta allibì, ma poi si
riprese: “Porta rispetto e smetti di far finta di leggere!”. “Rispetto si porta
ai Compagni, non ai Borghesi!”. Era troppo anche per Berta, che buttò Pasqualino
fuori dalla classe. Pasqualone si alzò, con il libro in mano e la sua
mastodontica borsa nera in mano, e si incamminò verso la porta, mormorando:
“Oppressione Fascista!”. Berta segnò una nota di condotta nei confronti di Pasqualino
sul registro di classe.
Giacomo si sentiva un po’ colpevole del sopruso di
Berta. Era stata appena commessa un’ingiustizia nei confronto del povero Pasqualone,
che non c’entrava niente. Si alzò in piedi e prese le difese del compagno di
banco. “Ti ci metti anche tu – vero – che sei sempre stato un bravo ragazzo!”.
Il Grasso sbottò: “Come sarebbe a dire... ‘Anche tu...’, Che ‘è... speciale, Giacomo?”
. “Nessuno ti ha interpellato – vero - . Fuori anche tu!”. Il Grasso spinse la
sedia rumorosamente, bestemmiando. Berta aggiunse una nota di condotta nei
confronti di “Don” Ernesto. Il Grasso uscì, sbattendo la porta, facendo un
poderoso verso della foca. Tutta la classe mormorò al alta voce, protestando
per il sopruso e facendo un chiasso infernale ‘raschiando’ le gambe delle sedie
sul pavimento. Berta, esasperata, scarabbocchiò una nota di condotta generale
ed uscì dalla classe, in direzione della presidenza, accompagnata dalla nota
più bassa dell’armonica del Dario, quella che ricoda il suono che viene
prodotto da chi ha mangiato molti fagioli la sera prima.
Durante la guerra contro Berta ognuno ebbe le sue incombenze
militari. “Don” Ernesto, per esempio, si occupava di scrivere sulla lavagna l’Ordine
del Giorno e di suonare la carica ‘Focosa’. Pepe era di vedetta: il suo compito
era quello di segnalare l’avvicinamento del ‘nemico’ dalla direzione del
corridoio. Enzo ed Emma si ‘sacrificavano’, offrendosi volontari di arrestare
lo ‘sfondamento’ causato da qualche controffensiva nemica (interrogazioni a
tradimento). Le ragazze in generale si occupavano della Sussistenza,
provvedendo (involontariamente) alle cibarie necessarie allo sforzo bellico dei
ragazzi al fronte. Il nostro ‘trombettiere’ Ernesto non sarebbe potuto andare
avanti nell’incitamento, se non in grazia ai sostanziosi panini e cornetti
forniti (cioè sottratti) da Emma, Donatella e Genoeffa. La missione principale del Dario era quello di distrarre l’attenzione del
nemico, con domande astruse e cervellotiche, durante le azioni di salvataggio
in ‘Zona Cesarini’, cioè di impedire i calci di rigore di Berta nei confronti
di qualche interrogato, cinque minuti prima della campanella. Dovete
riconoscere che, in questa incombenza, il Dario
si fece onore. Un altra funzione, un po’ meno nota, del Dario, fu quello di ‘Ufficiale di Logistica’. Sussistenza
a parte, lo sforzo bellico richiedeva un armamento diversificato, a seconda
delle missioni da portare a termine. Nella precedente storia del duetto le armi
del delitto, cioè le armoniche a bocca, erano state fornite da lui. Fu
nuovamente il Dario a fornire una delle attrezzature
ausiliarie di quella che fu la più importante ‘Azione Commando’ che la storia
della Bertarivoluzione ricordi. La chiameremo in codice...
Operazione “Satirata”
(Documento riservato)
1. Descrizione
della Zona di Operazioni:
Berta viveva in un villino a tre piani, sul
lungomare. Il villino era una costruzione degli anni trenta, intonacato esternamente
di un rosa di pessimo gusto. Come molte ‘case per le vacanze’ fatte secondo il
gusto dell’epoca, aveva la forma ‘a nave’: un rettangoloide con un lato lungo
sul lungomare e i due lati corti adornati da terrazze a forma di
‘semicilindro’. L’entrata principale si
trovava sul lato lungo posteriore. Il
portone era di legno massiccio, adornato da due grosse maniglie di ottone,
sistemate orizzontalmente a metà altezza di ognuna delle due ante.
A circa cinque minuti a piedi dal villino c’era
una fermata d’autobus, dalla quale Berta scendeva, per recarsi a casa,
percorrendo a piedi una strada scarsamente illuminata.
2. Consistenza
delle Forze nemiche:
Berta viveva da sola. Non si sa se il villino
fosse di sua proprietà, o se l’avesse preso in affitto, ma ciò non ha
importanza ai fini dell’Operazione. Le difese passive del nemico consistevano
in un alto ed invalicabile muro di recintazione sui tre lati principali. Sul lato
posteriore, unico attaccabile, oltre alla scalinata di accesso alla ‘fortezza’
c’era il massiccio portone già descritto, munito di poderosi chiavistelli. Le
difese attive consistevano in un sistema di comunicazioni efficientissimo (il
telefono).
3. Scopi dell’
“Operazione Satirata”:
Definita principalmente Azione di Rappresaglia, la
“Satirata” portava il fronte nel cuore del territorio nemico, ed aveva come
ultimo fine quello di contribuire a convincere Berta ad andarsene in pensione e
smettere definitivamente di rompere.
4. Il
Programma generale:
Vista l’impossibilità di espugnare la roccaforte
con un attacco diretto, fu deciso dallo Stato Maggiore (Nino?) di tendere
un’imboscata al nemico, sulla via tra la fermata ed il villino.
Ora X: Tardo pomeriggio/sera, all’arrivo di Berta
alla magione, di ritorno da qualche ignota incombenza.
5. Forze Partecipanti:
Il Servizio di Sicurezza non ci
ha consentito ancora di rivelare l’esatta consistenza e natura del personale
partecipante al “commando”, pertanto questo comma rimane TOP SECRET.
6. Armamenti:
Le armi principali consistevano in:
A.
Lenzuoli bianchi,
sufficientemente grandi da consentire sia la completa mimetizzazione delle
forze del commando, sia di conferire l’aspetto spettrale di fantasmi alle
stesse.
B.
Sistema ausiliario che
consisteva in vari strumenti a percussione (per fare il massimo rumore, ben
s’intende, non per colpire il nemico).
Le attrezzature ausiliarie:
C.
Attrezzatura di bloccaggio della ritirata: una catena
ferrea lunga un paio di metri, con
lucchettone Yale.
D.
Panini della Sussistenza.
7. Tempi
d’Azione:
Ora X meno quaranta minuti:
“Forza Cheppalle ” suona al
portone di Berta, per controllare se lei è in casa. In caso negativo, procede a
passare la catena 6 C tra le due maniglie, a chiudere il lucchettone ed a
buttare la chiave.
Ora X meno trenta minuti:
“Forza Occhio di Lince” di
avvertimento viene mandata perlustrazione all’angolo della fermata, per
avvertire l’arrivo del nemico.
Ora X meno cinque minuti:
Arrivo dell’autobus e discesa di
Berta dallo stesso.
Mimetizzazione della “Forza Satirica
Principale”, tramite armamento 6 A di cui sopra.
Ora X:
Spiegamento della forza attorno
al nemico, in abbigliamento mimetico 6 A e attivazione del Sistema Ausiliario 6
B.
Ora X più cinque miniti:
Ritirata strategica.
(Fine documento riservato)
Nonostante che l’operazione fosse stata
programmata nei minimi particolari, i risultati non furono quelli sperati.
La “Forza Cheppalle ”, mandata in avanscoperta in
perfetto orario, suonò al campanello con insistenza varie volte . Dopo due
minuti di attesa dal di là del portone si udì una flebile voce, proveniente dal
corpo di guardia: “Ma chi è – vero – a quest’ora della sera?”. La “Forza Cheppalle
” si fece riconoscere dal nemico. “Scusi l’ora, sig. Professoressa, ma volevo
chiedere un chiarimento sul compito in classe di domani... a che ora sarà”. Si
aprì un piccolo spiraglio incatanellato, e dall’alta parte della penombra della
breccia, un paio di occhiali a mezza luna ed un naso vagamente grigio risposero
all’ambasceria: “Ma non potevi chiederlo – vero – a qualche tuo compagno – vero
? Ti sembra questo il modo di venire a disturbare a quest’ora, con una domanda
così stupida?”
La porta venne rapidamente richiusa. La “Forza Cheppalle
” tornò a riferire e lo Stato Maggiore dette il comando di “Missione Abortita”
e “Scioglimento dei Ranghi”.
Meno male. Figuratevi che cosa sarebbe potuto succedere se, in
consegueza alla riuscita dell’ “Operazione Satirata”, Berta fosse finita non in
pensione ma... all’ospedale con un attacco cardiaco!
Tralasciamo di nuovo, per un po’, la “Bertarivoluzione ”, per ritornare alle relazioni uomini-donne
in classe nostra. Queste relazioni hanno avuto alti e bassi durante gli anni di
Liceo, cosa perfettamente normale a quell’età. In fatto di amori, le più uniche
che rare coppiette furono estremamente temporanee. Le rare “cotte”, mantenute
nel più stretto segreto, specie dalle ragazze. A quei tempi se ad una ragazza
piaceva un ragazzo della classe, ci faceva per lo più a pugni. Se ad un ragazzo
piaceva una delle ragazze meno belle (quelle belle piacevano a tutti, ma non ti
filavano), si limitava a non prenderla in giro, che era uno degli sporti
preferiti dei ragazzi. Tutto questo derivò, naturalmente, dal fatto che la
nostra classe era molto “maschile” e, come conseguenza, molto frizzante. Fummo,
in sintesi, veramente “la classe più casinara della storia del nostro istituto”,
e le profonde radici di questo fatto vanno cercate molto lontano.
Chi dovesse credere a certi strani segni del
destino, avrebbe potuto notare sin dall’inizio che la nostra non sarebbe stata
una classe ‘normale’. Provenivamo da una Scuola Media dove le classi Maschili e
Femminili erano separate. Il fatidico primo Ottobre, alla prima ora di lezione
di quel lontano IV C, ci trovammo per la prima volta in classe mista. Pochi si
conoscevano da prima, e fu subito chiaro che il numero dei maschi soverchiava
quello delle femmine. Questo sbilanciamento sessuale fu poi, come già scritto,
esasperato dalla Zona. Quando l’insegnante di lettere cominciò a fare il primo
appello, fu subito chiaro che in IV C non c’erano né Aldobrandini, né Borgia,
né Caetani. Anzi non c’erano nemmeno Falconi o Ferrari. Il primo ad essere chiamato
all’appello fu un biondino dall’accento vagamente toscano di nome Ganimedi Gabriele.
La lettura dei nomi procedette per una buona mezz’ora, terminando con una
ragazza bella, alta e bionda di nome Zucchi Piera. Dicevamo dei segni del
destino che avrebbero dovuto far presentire che quella classe non sarebbe divenuta
una ‘classe regolare’: Dopo aver chiamato all’appello la signorina Narcolone Emma
ed il signor Narci Anselmo, la Prof. di Lettere procedette indisturbata verso
il signor Olivieri Odoacre (che nome!), si dilungò poi attraverso i due Verdi
(Ma che ti fai la solita domanda cretina se siamo fratelli? Non lo vedi che ci
somigliamo solo... negli occhiali?) e dopo aver fatto conoscenza con la
signorina Ranieri Genoeffa e con la signorina Raviani Rossella, fu chiamata la
signorina Remo Nora. Fu allora che, dall’ultimo banco, si
alzò uno spilungone magro che rispose il fatidico: “Presente!”. La Prof. lo
guardò sospettosa. Ma tu..., lei, non è la signorina Remo? Come ti chiami... tu?
Il ragazzo fece la faccia innocente e rispose con malcelata enfasi: “Remo
Nora!”. Il registro di classe fu sostituito con uno nuovo di zecca, dove il
nostro Remo occupò definivamente il suo posto tra Anselmo ed Odoacre.
I ragazzi, dunque, erano più delle donne, e si dedicarono
coscenziosamente allo sport di rendere loro la vita il più difficile possibile
in classe (fuori classe, alle feste, la situazione cambiava drasticamente).
Le ragazze portavano a scula con loro la
‘colazione’. In genere si trattava di un panino o di un cornetto, da mangiare
alla ‘ricreazione’, cioè alla fine della seconda o (a partire dal Secondo
Liceo) della terza ora. I ragazzi in genere non si portavano niente, ma
sottraevano la colazione delle ragazze. Alcuni di noi, Nino, Remo e soprattutto
Ernesto erano dei veri campioni. Credo che ad un certo punto alcune ragazze si
portarono la colazione doppia, Un panino, messo bene in vista, veniva
sottratto, l’altro, ben nascosto, sopravviveva all’operazione sottrazione e
fungeva da colazione alla ragazza.
Ora vi racconterò un fattaccio che ho tenuto
gelosamente segreto. Spero che il crimine sia caduto in proscrizione e che Donatella
voglia perdonare la malefatta, dopo aver letto la confessione.
Il Dario era
l’unico ad avere passione (ed a capire) la Chimica. A casa si era costruito un
piccolo laboratorio per gli esperimenti, racimolando vari prodotti e reagenti,
vuoi in farmacia, vuoi dal ferramenta. Tra i vari idrossidi e solfuri (no,
celenterati no. Sono degli animali), per la maggior parte polveri bianche di
aspetto zuccherino, c’era anche il Solfato di Magnesio (Epsomite), detto anche
Sale Inglese, notissimo e potentissimo
lassativo. Un bel giorno al Dario venne
la diabolica idea di ‘punire’ i sottrattori di merende, soprattutto il Don, che
negli ultimi tempi si erano fatti eccessivamente sfrontati. L’idea era
chimicamente semplice: mimetizzare un pizzico di Sale Inglese (la sostanza è
piuttosto amara) nello zucchero di un cornetto ed attendere il risultato della
‘sottrazione’. Per l’operazione fu scelto il cornetto di Genoeffa. Il Dario fece la cosa di primo mattino, nel massimo
segreto, non mettendo al corrente nessuno. Voglia il caso che quel giorno Ernesto
si assentò e Genoeffa, alla ricreazione, dette fraternamente il suo cornetto a Donatella.
La poveretta fu presa da poderosi attacchi intestinali e dopo alcune visite ai
gabinetti, si vide costretta ad abbandonare la lezione in pianto. Il nostro Cheppalle
chiede perdono. Come avrebbe dètto il
Mistico: “L’intènziòne era buona, il risultato mèèèno”.
Secondo liceo, secondo quadrimestre. I giochi si
stavano compiendo e i più erano alle prese con l’affannosa conquista della
salvifica sufficienza e del recupero degli “impreparati” All’epoca dei fatti,
anche io avevo delle pendenze, allora, come ora un po’ tutti, anche se di altra
natura, con Storia dell’Arte. Ricordo che con il K, durante le sessioni di
pratica dal La Busta, americana classica chi-perde-paga, così si ripassava:
<una cattedrale costruita in prossimità di un porto è probabile che abbia
una navata, se ne ha due allora si chiama battistereo>.
Naturalmente tale situazione di stress era la norma per tutti, in particolare per Remo.
L’eccezione in Biologia era Rossella, da sempre sogno irraggiungibile della
iper-ormonizzata fauna maschile della II C. Costei, perennemente alle prese con
il pressing degli spasimanti, era stata di un abilità sopraffina nel primo
quadrimestre a non farsi interrogare ed era riuscita con improbabili
giustificazioni e promesse di “volontariato” ad arrivare indenne alla fine di
maggio, esaurendo la pazienza del non più mite Paguro.
Insomma l’interrogazione di Rossellina era da
qualche settimana argomento ricorrente, un atto incompiuto che vedeva ogni
volta la protagonista nascondere la testa sotto la sabbia, come certi uccelli
che non volano una sorta di interruptus consumato pubblicamente,
tantochè una “ola” (o forse era un “olè”) collettiva accompagnava la faccia
sgomenta del Paguro quando, entrando, notava per l’ennesima volta l’assenza
della nostra, nonostante le promesse e i giuramenti fatti nel corridoio fuori
orario, qualche ora o il giorno prima.
Per cui l’ora trascorreva tra le noiose
disquisizioni del Dario con il prof sugli idrossidi, solfuri e celenterati, e
per evitare la frammentazione degli ioni di cobalto[1] che inevitabilmente e
copiosamente si formavano, si coltivava la pratica del rastrellamento dei testi
con collaudato gioco di squadra spesso per restituire con gli interessi qualche
nefandezza subita (reddere ationem), nel completo e complice
disinteresse per le lamentazioni di Emma (redde rationem ovvero
restituitemi la merenda).
Su altri fronti imperversava Berta che ci
ammorbava con Cicerone e le sue opere Pro Caelio, Pro Ligario, Pro Milone. E’
in questo humus culturale che avviene
l’avvicinamento di molti di noi alle Pro Stitute.
All’epoca dei fatti, inoltre, era di moda la
pratica del “suggerimento falso”, nata per caso a seguito di un effettivo
disguido (Lucrezio in partenza dal Leopa
, Panezio il rilancio del Mellibeo all’interrogando) che causò
l’ennesimo scompenso ad una Berta ormai debilitata da un anno di scaramucce e
scontri frontali.
Il misfatto:
Sulla base del fatto che la scaltra Rossella aveva
via via negoziato con il Paguro impegni decrescenti (tutto il programma, gli
argomenti del secondo quadrimestre, l’esclusione della chimica, …) pervenendo
infine al risultato di una interrogazione su un argomento a piacere, il piano
elaborato dal narrante Galassi, sostenuto operativamente da Nino, era
articolato in due fasi. In quella preliminare si doveva convincere Rossella che
una mossa vincente era trattare un particolare argomento : i rettili e gli
anfibi, con particolare riguardo per questi ultimi. Nella seconda, da attivare
immediatamente a ridosso dell’interrogazione, era quella di farle dire uno
“sfondone”, così macroscopico da suscitare la pubblica ilarità senza
comprometterne l’esito.
La prima parte fu facile, quasi banale. Stante le
croniche assenze della nostra alle lezioni, argomentammo il suggerimento con
l’estasi quasi mistica con cui il Paguro si era soffermato nella spiegazione
della metamorfosi delle rane, l’enfasi della meraviglia della natura che
consentiva la trasformazione di un quasi pesce, il girino, in un individuo
adulto con connotati specifici, la sonorità con il caratteristico
rigonfiamento, la morfologia delle zampe del maschio e la loro funzionalità
nella fase di accoppiamento, la deposizione delle uova in ammassi
rotondeggianti, l’habitat terracqueo, la doppia vita con la separazione delle
attività di alimentazione, svolte di giorno, dal resto delle attività relegate
alla notte, la commestibilità (<ottimo il risotto con le rane consumato nel
vercellese durante una gita con la fidanzata >
Fu invece dura il
fatidico giorno attuare la seconda parte. Il sacrificio si sarebbe consumato
alla quarta ora, subito dopo la ricreazione, e la poverina quella mattina si
presentò dimessa negli abiti, bianca come un cencio, senza un ombra di trucco e
con occhiaie da marsupiale, per la notte insonne. Virilmente superai la pena e
recitai la mia parte. <A proposito della tua interrogazione – esordii,
mentre lei stava ripassando seduta al banco- ho letto l’altra sera sull’ultimo
numero de Le Scienze, di una scoperta effettuata da alcuni studiosi
inglesi. Secondo loro, a conferire elasticità alle ossa delle zampe della rana
per consentirle l’effettuazione di salti apparentemente impossibili stante la
massa muscolare, è un particolare sale, l’ANURO DI RANIO che permea gli snodi e
le parti gelatinose degli arti inferiori. La notizia a detta dell’articolista
ha suscitato l’interesse dell’intera comunità scientifica internazionale per i
risvolti e la funzionalità che tale sale potrebbe svolgere nello studio della
morfologia dei vertebrati. Tale composto chimico rivela poi … Con questa
primizia stupirai il Paguro, che diventerà docile come un agnellino>. Al buon Nino il compito durante l’intervallo
ricordarle di non dimenticarsi della “dritta” di Gabriele per fare una bella
figura e farsi perdonare qualche lacunosità su eventuali domande di
approfondimento.
Tesissima si avvicinò alla cattedra e dopo alcuni
convenevoli del Paguro, del tipo “finalmente”,”alla fine ce l’abbiamo fatta”,
“ha mai sentito parlare della Zona Cesarini ?”, iniziò la sua esposizione sugli
anfibi, prima un po’ titubante poi, vedendo i cenni di assenso del prof, sempre più sicura. A quel punto, quando le
parole erano fluide ed ogni incertezza era svanita, piazzò il suo acuto. Non si
preoccupò della perplessità mostrata dal Paguro quando disse che sfogliando Le
Scienze, aveva letto un articolo pertinente all’argomento trattato. Quando
invece referenziò l’anuro di ranio, io, Nino, il Secco e qualche altro,
che era al corrente, scoppiammo a ridere.
Rossella in un attimo passò dallo stupore ad un pianto a dirotto e uscì
dall’aula sbattendo la porta. Qualche compagna corse a consolarla, mentre io
spiegai al Paguro la burla architettata, chiedendo scusa. Quella volta non ci
furono rappresaglie e tutto finì in gloria, con me e lei promossi in Biologia.
Continuando a narrare la
storia della ‘crudeltà mentale’ dei ragazzi nei confronti delle ragazze, non si può fare a meno
di ricordare quella attuata contro Flavia, anzi contro “Giacoma”, perché
nessuno di noi ha usato chiamarla per nome proprio in tutti gli anni di Liceo.
Non che questa fosse una sua prerogativa speciale, dato che la maggior parte di
noi veniva generalmente chiamato per cognome o, meglio per soprannome, ma Flavia
era una ragazza così grigia, da essere considerata dai ragazzi, più che una
compagna, un mobile messo lì per caso. Flavia era uno degli alunni più anziani.
Incominciò già il Quarto con noi come ripetente, ma sicure informazioni (di cui
non posso rivelare la fonte) la danno di almeno due anni più anziana della maggior
parte di noi. Quasi sicuramente aveva ripetuto anche una classe alle Medie
Inferiori. Giacoma, l’avrete capito, non brillava in intelligenza. Si
barcamenava nell’eterno grigiore di quel secondo banco vicino alla finestra.
Taciturna, alta, brutta ed attrezzata di un paio di occhiali con lenti a fondo
di bottiglia, che servivano solo ad accentuare il suo aspetto quasi spettrale.
Aveva forse solo due anni più di noi, ma sembrava già una vecchia zitella. Ma
forse la ragione di tutto questo era proprio legata a quelle lenti:
ripensandoci ora, a distanza di trent’anni, Flavia era praticamente quasi
cieca. Magari il suo grigiore non dipendeva da una scarsa intelligenza, ma
piuttosto dalla difficoltà di leggere i testi e di seguire le spiegazioni alla
lavagna. Fatto sta che, nel suo grigiore, ce la trovammo ad ogni nuovo anno
come compagna, e non si perse mai per strada.
Fino al Pimo Liceo i giorni di scuola cominciavano
verso le otto e mezza di mattina e si prolungavano per quattro o cinque ore,
con un solo intervallo di dieci minuti, la ricreazione, alla fine della seconda
ora. Il numero di giorni con cinque ore aumentava di anno in anno, finendo, in
terzo a comprenderli tutti, meno il sabato. Non si sa per quale ragione, in Secondo,
il Sordello decise di cambiare le regole, alle quali eravamo abitiati fin dalle
medie, e di spostare la ricreazione alla fine della terza ora, aggiungendo
altri cinque minuti. L’innovazione aveva una sua sana logica: quella di
sfruttare meglio le ore mattutine, in
cui alunni ed insegnanti erano ancora svegli (a quei tempi si andava a letto
presto). Ma la nostra classe, nel bel mezzo della Bertarivoluzione , vide in quel cambiamento arbitrario un
altro sopruso delle ‘Forze Costituite’. La nostra reazione (appoggiata
silenziosamente dal Sartana) fu di fare una dimostrazione ‘di Non Violenza’.
Appena suonava la campanella della ricreazione, tutti i banchi venivano
spostati e trasformati in una grossa tavolata
Comparivano tovaglie, piatti e cibarie prelibate ed abbondanti di tutti
i generi. Venivano invitati i professori di passaggio ad accettare un assaggio
(ovviamente accettava solo il Sartana). Passato il quarto d’ora, al suono della
campanella, il tutto veniva rapidamente ripiegato e si continuava la lezione
della quarta ora. Se c’era Storia e Filosofia, si lasciava la disposizione dei
banchi com’era. Da qui forse ebbe origine la Rivoluzione Sartanica di cui ho
già parlato.
La cosa andò avanti per
un po’, finche ci stancammo e prendemmo l’abitudine di fare le prime tre ore di
filato. Proprio in questo periodo di manifestazione alla Ghandi, venimmo a
sapere dell’incipiente compleanno (il diciottesimo, se non addirittura il
diciannovesimo) di Giacoma. I ragazzi indissero tra di loro una competizione.
Per il fatidico giorno, ognuno di noi portò a colazione una carota ed un
finocchio, delle dimensioni più grandi
possibili, chiaro riferimento alla situazione di ‘Vecchia Zitella’ di Flavia.
Al suono della campanella ci sedemmo tutti attorno a lei sgranocchiando i mastodontici
ortaggi. Non ricordo chi vinse, ma la carota pià grossa misurava settanta
centimetri in lunghezza e cinque in spessore. Crudeltà mentale, anche se non mi
pare che Giacoma se la prendesse troppo. Furono le altre ragazze a portarci il
broncio per un po’.
Proseguiamo la nostra storia. Avrete notato che gli
avvenimenti raccontati non hanno un ordine preciso, né temporale, né logico.
Ciò è spiegato dal fatto che su queste pagine sono stati raccolti i ricordi
frammentari di tempi ormai lontani e, come si sa, i ricordi spesso si
accavallano tra di loro. A volte vengono in mente particolari sfuggiti in
precedenza. Nel nostro caso, poi, la Storia di Berta & c. non è stata buttata
giù da una singola persona, ma da diversi ex-compagni, che hanno avuto e, spero,
continueranno ad avere fino alla fine, la pazienza di collaborare con il loro
ricordi personali. Grazie a questo Team-work, le rimembranze si corraborano le
une con le altre ed il quadro si fa sempre più chiaro. Ma non stiamo scrivendo
un libro di Storia per le generazioni future. Siamo qui solo a farci quattro
risate tra vecchi “camerati”. La maggior parte di quanto è stato scritto
finora, e sarà scritto nelle prossime pagine, non potrà mai essere assaporato fino
in fondo da chi non l’ha vissuto di persona. Al massimo l’estraneo lettore
potrà fare qualche analogia con situazioni analoghe vissute personalmente.
Rileggendo la prima parte di questo scritto,
buttata giù più di trent’anni fa, quando i ricordi sarebbero dovuti essere più
freschi, ci siamo accorti di aver detto diverse inesattezze. Non sono cose
essenziali, beninteso, ma la pignoleria impone di ritornare e di ampliare
alcuni avvenimenti, alla luce dei nuovi ricordi venuti a galla col tempo.
A tale proposito si è raccontato che dopo la
“storia del gattino” e la verniciatura delle finestre di verde opaco, i “soliti
ignoti” spaccarono a sassate i vetri della classe. Si è detto che ci rifiutammo
per due giorni di entrare nell’aula, con la scusa degli spifferi invernali,
finché i vetri furoro riparati, nostro malgrado.
I ricordi, ritornati a galla da allora, raccontano
i fatti con più particolari:
La burocrazia comunale lavorò con maggiore
lentezza di quanto si è detto. Il preside, dopo due giorni di sciopero, si rese
conto che era necessaria una soluzione di ripiego, in attesa dell’agognato
vetraio comunale, e decise di far continuare temporneamente le nostre lezioni,
in mancanza di aule libere, nella biblioteca del Liceo.
Era questa una stanza non pià grande delle altra
aule, per tre quarti occupata da alti scaffali metallici dal soffitto al
pavimento. L’unico spazio libero era rappresentato da un lungo ‘corridoio’,
largo un paio di metri, tra gli scaffali ed il muro. Lo spazio in questione era
occupato da un lungo tavolo di lettura (allora non c’erano i PC). Il tavolo era
di fatto costituito da tre o quattro “cattedre”, i grandi tavolini occupati, in
classe, dai professori. Nelle normali aule la cattedra era posta su un rialzo
(che è poi – vero – la katedra originale, come – vero - ci insegna Aristotele).
La cattedra era un grosso scrittoio, chiuso su tre lati da uno spesso strato di
compensato, in spirito con i preistorici costumi della vecchia scuola, (per non
far vedere le gambe delle professoresse bellocce e per permette a qualche
professore di grattarsi i... senza essere visto dagli alunni, a seconda dei
casi).
Nella biblioteca sarebbe stato molto più pratico
mettere dei tavolini ‘aperti’ da tutti e due i lati, ma, evidentemente, il
Ministero della Pubblica Istruzione riteneva l’assegnazione speciale una cosa
troppo complessa.
Quando entrammo a far lezione nella biblioteca
eravamo già sufficietemente eccitati dalla novità. Il Sartana ed il Paguro, si
sedettero, ovviamente a ‘capotavola’ ed ebbero un po’ di difficoltà a mantenere
la disciplina di una classe seduta di qua e di là sui lati lunghi, una dozzina
di compagni per lato.
Quando, alla terza ora, Berta entrò per la prima
volta a far lezione, decise che il posto a capotavola non le consentiva sufficiente
spazio per mettere il registro e le scartoffie personali e, spavaldamente, fece
alzare uno di quelli che sedeva dalla parte del ‘lato aperto’ del tavolo
centrale. In men che non si dica attorno a lei si fece il vuoto. Tutti i
ragazzi che sedevano fino a quattro sedie di distanza alla sua sinisrta ed alla
sua destra, si alzarono e trasportarono le loro sedie sul lato opposto, il più
lontano possibile da Berta, prendendo posizione in seconda fila, in ‘galleria’.
Inutile dire che quelli davanti non volevano concedere un po’ spazio a quelli di
dietro, e che le due ‘file’ incominciarono a darsi un po’ di spinte sotto la
linea dell’orizzonte, gli uni contro gli altri. A un certo punto un ignoto
della fila posteriore sferrò un calcetto in avanti e la tavola di compensato
produsse un rimbombante suono di “Tamburo principal della banda d’Affori”,
amplificato dalla risonanza dei tavolini limitrofi. Fatta la scoperta, il
concerto di Tam-Tam andò avanti ad ogni nuova ‘perla’ di Berta, dapprima in
sordina (Adagio ma non troppo), per passare ad Allegro vivace, e
per finire a mo’ del “Bolero di Ravel” in un
Finale in crescendo Maestoso con brio, che fece crollare
definitavente i nervi di Berta.
Mi pare che quella fu la volta che lei ci lasciò
temporaneamente per fare un tentativo di insegnare alla sezione A, prima di
andare definivamente in pensione.
E poi c’è di dice che visitare le biblioteche non
serve a niente!!
Lambrette, Vespe e... portajella
Il nostro liceo era situato in posizione
‘fuorimano’, all’estremo Est del nostro Lungomare. I compagni più vicini
abitavano a diverse centinaia di metri di distanza, la maggior parte di noi ad un
chilometro o due, per non parlare di quelli che, come Pasqualone, Kappa, Don Ernesto
e Borsa, dovevano prendere il trenino o due autobus ogni mattina. Dato che
c’era da scarpinare un bel po’, il ritorno a casa alla fine delle lezioni era
sempre una festosa fiumana, specie nelle belle giornate primaverili. Spesso e
volentieri la fiumana si spezzettava in piccoli gruppetti od in timide
“coppiette”, dove un ragazzo cercava di attacare discorso con qualche ragazza
libera, e di “incominciare”. La fiumana si frammentava strada facendo, specie
al Cavalcavia, passaggio obbligato per quelli che abitavano dietro la ferrovia.
Se la fine delle lezioni ci vedeva uscire gioiosamente in formazione compatta,
l’arrivo mattutino ci vedeva sopraggiungere a piccole gocce, più o meno secondo
un ordine stabilito: Primo tra tutti Pasqualone. Quando arrivavano gli altri
era già lì, come se ci avesse dormito la notte. Gli altri arrivavano un quarto
d’ora prima della campanella (venti minuti prima, per copiare gli esercizi di
Latino da Giacomo). Emma arrivava in macchina, accompagnata dal padre, alla
campanella meno dieci, ed il Dario arrivava
in eterno ritardo, due secondi prima dell’inizio delle lezioni.
Verso il Quinto cominciò la motorizzazione. La
patente di guida si poteva prendere solo a 18 anni, ma già dai 16 era
consentito andare in motoscooter di 50cc di cilindrata (senza targa). Si
formarono subito due partiti: quello della Vespa e quello della Lambretta. Le
Vespe erano più maneggevoli, erano colorate in una vasta gamma di colori
pastello alla moda, ma erano considerate meno sicure sulla strada. Le Lambrette
erano più solide, affidabili e, soprattutto, avevano più posto per un secondo
passeggero (tra l’altro vietato dal codice della strada fino ai 18 anni).
Non tutti i padri si potevano permettere il lusso
di motorizzare il propri rampolli, ancora meno erano quelli che acconsentivano,
pur potendolo, di dare in mano ai ragazzi un aggeggio pericoloso, anche per
quei tempi di traffico relativamente modesto sulle strade.
In classe nostra il primo a raggiungere l’età
della motorizzazione fu Ezio. Optò per la Lambretta. Bianca. La parcheggiava
proprio di fronte alla finestra ed, almeno all’inizio, sbirciava ogni cinque
minuti, per controllare se era ancora al suo posto. C’era sempre. Al ritorno a
casa si dedicava all’accensione con noncelataffatto soddisfazione, tra un
nugulo di compagni (finché ci stancammo di seguire la “scena”) e la ragazza ‘accompagnata
di turno’. Non che Enzo ci facesse di più, con la ragazza, ma, sapete com’è:
era una buona scusa per farsi abbracciare. La ragazza era pur costretta ad
appigliarsi a qualcosa, per non cadere per strada dalla Lambretta...
Enzo poi, arrivato ai 18, fu anche il primo a
prendersi la patente ed a farsi la macchina, una cinquecento, naturalmente bianca
anche quella, ma la portò a scuola una volta sola: ricevette il nostro benvenuto
trovando subito una ruota a terra, cosa che lo fece andare in bestia sul serio.
Ma era di prassi. In Israele i piloti dell’Areonautica che fanno il primo
“solo”, ricevono catinelle d’acqua in testa e calci in... dai colleghi
veterani.
Quando arrivarono all’età, altri si aggregarono al
club dei motorizzati. Il Secco optò per la Vespa, ma la maggior parte rimasero
appiedati. Qua e là venivano fraternamente caricati dai motorizzati (se il
posto non era già occupato da qualche ragazza).
Non tutti optarono per la macchina. Giacomo si
comprò una Lambretta 150 e Vito, un “Roscio”
del Primo una ‘Gilera’ tutta cromata (come la canzone di Battisti). E fu qui
che il Dario si beccò la fama di essere
un “Portajella”.
Il Dario era
uno degli ‘appiedati’. Arrivato ai 18 non tentò nemmeno di prendere la patente,
per non correre il rischio di fare qualche incidente, che gli avrebbe causato
il ritiro del Passaporto. La Capiteneria di Porto (Sì, era stato chiamato in
Marina, pur non sapendo nuotare!) glielo aveva concesso per soli tre mesi, e
lui avrebbe avuto pochissimo tempo per uscire dalla patria, come turista,
immediatamente dopo la Maturità, per segnarsi all’Università estera. Non era il
caso di correre rischi.
Verso la fine degli studi, nel giro di due o tre
giorni, in due occasioni diverse. Vittorio e Giacomo ‘caricarono’ il Dario per dargli un passaggio. Sulla via del
ritorno, subito dopo averlo ‘scaricato’ a destinazione, “ingripparono”. Vittorio
si ruppe un braccio e Giacomo si presentò a scuola con un vistoso cerotto sul
sopracciglio.
Fino alla fine dell’anno nessuno corse più il
rischio di dare un passaggio a quel Portajella.
Ci ricorda il Dardo che la questione “portajella”
aveva avuto un precedente più serio. Nell’Agosto del ’68, durante le vacanze
tra il Primo ed il Secondo, ci ritrovammo, un gruppetto di compagni nella
Pineta di Caltelfusano. Il Dario era
attrezzato della sua solita bicicletta priva di freni. Uno di noi (non ricordo
chi) era motorizzato con un ciclomotore “Ciao”, un mezzo privo di marce, con le
maniglie del manubrio fungenti l’una da freno, l’altra da accelleratore. Allora
il casco non era d’obbligo. Il Dardo chiese ed ottenne di provare il “Ciao” e,
presa (troppa) confidenza, sorpassò spavaldamente il Dario sul vialetto. Per sfregio lo salutò
focosamente, abbandonando la mano dall’accelleratore. Il “Ciao” protestò,
riducendo improvvisamente la velocità. Il Dardo si aggrappò al manubrio con
l’altra mano, azionando... il freno. Risultato: Fu portato d’urgenza al Pronto
Soccorso e poi all’Ospedale, con una commozione cerebrale. Per sua fortuna (e
per la bassa velocità) se la cavò con poco. La causa dell’incidente,
naturalmente era stata la vicinanza del Dario...
Tifosi e sportivi
Saltiamo di palo in frasca. Con immenso rammarico
dei pochi lettori, abituati alle nostre spesso comiche avventure liceali, avverto
che questo pezzo della Storia non sarà particolarmente ilare. Direi,
addirittura che, per alcuni di essi, che non ne sono stati gli eroi, sarà
persino noioso, ma, visto e considerato che la nostra storia, originariamente
pensata come l’epopea della guerra contro Berta, è diventata, a furor di
popolo, l’epopea della nostra classe, non possiamo fare a meno di menzionare le
attività sportive, che per alcuni di noi, sono state parte indivisibili delle
esperienze di quei giorni.
Come in tutto il mondo, nella nostra classe
c’erano due tipi di sportivi, quelli che lo sport lo facevano per davvero, e
quelli che lo dicevano soltanto.
Il nostro sport
principale era ovviamente il calcio, praticato da tutti i ragazzi e da qualche
ragazza. Il calcio veniva giocato in tre forme diverse. Quello vero e proprio,
praticato principalmente sul campo sterrato della Parrocchia, aveva in Nino ed
in Enzo i principali campioni. Un secondo, quello di tipo “Balilla”, detto
comunemente bigliardino, era giocato sul campo “Lambusta”, al “Buco” o dal
“Fantasma” e veniva praticato a coppie difensori-attaccanti, secondo un regolamento
draconiano: Divieto di fare “girello” (cioè di far ruotare le stecche più di
360°) e di toccare la palla in gioco con le mani. I trasgressori venivano puniti
con il classico “rigore”, che obbligava la squadra punita ad alzare gli
attaccanti, mentre il difensore dell’altra squadra “sparava” un tiro micidiale
con i terzini, tiro che, se sparato da Giacomo, piegava la “mano” del portiere ed
entrava in rete nel 100% dei casi. Giacomo era, appunto, il miglior difensore
della scuola, e per questo in genere giocava in coppia col Dario, che pur
essendo un pessimo giocatore, sapeva alzare tempestivamente (non sempre) i suoi
mediani ed attaccanti, prima del colpo da terzino di Giacomo. Superfluo dire
che in caso di eccessiva lentezza da parte del Dario, la palla veniva
rimbarzata all’indietro, causando spesso un autogol e l’ammonimento CHEPPALLE!
Da parte di Giacomo.
Altri ragazzi, specie il Mandrillo, il Secco e Paolo,
se la cavavano più che bene, chi in attacco, chi in difesa, per cui la nostra
classe era l’indiscussa campionessa del liceo. La partita consisteva in dieci
palline da giocare, con una moneta da cinquanta lire. Quando la palla andava in
gol, era persa. In alcuni casi era possibile estrarla con velocità e destrezza
dalla “rete” e rimetterla in gioco. Don Ernesto era un esperto in proposito. Il
metodo veniva attuato dalla rapidissima introduzione in porta della mano
sinistra dell’attaccante avversario, mentre contemporaneamente il portiere si
spostava di lato con rapidità, per consentire l’accesso della stessa, prima che
la pallina scomparisse nel buco. Questa tecnica veniva applicata, però, raramente,
solo in caso di momentanee ristrettezze economiche, perché era oltremodo
pericolosa: spesso e volentieri il portiere veniva spostato istintivamente
dalla parte sbagliata, acciaccando ineluttabilmente e dolorosamente le dita
dell’estraente. La normale “sessione” giornaliera consisteva in una dozzina di
partite, sponsorizzate equamente (alla Romana) da tutti i giocatori,
centocinquanta lire a testa. Questo per le partite “amichevoli”. Per le partite
di campionato si usava il metodo “Chi perde paga”. Durante le sfide ufficiali
uno degli spettatori fungeva da arbitro. Le nostre vittime preferite erano
quelli della B, meno bravi di noi, che “spellavamo” regolarmente, facendo le
dodici partite a spese loro.
Il terzo modo di giocare al calcio era quello
classico del tifo per la squadra preferita, fatto davanti alla televisione o,
meglio, allo stadio la Domenica. Il tifo non era limitato solo ai ragazzi. Per
i più giovani va ricordato che alla fine deglio anni ’60 l’Italia era in cima
alla graduatoria mondiale di questo sport. I nostri eroi avevano nomi
leggendari: Rivera, Mazzola, Riva, Facchetti e chi più ne ha, più ne metta. Un
mese prima della maturità (e chi avrebbe potuto realmente studiare?) ci fu quel
famoso Mondiale in Messico che vide l’Italia battuta in finale per 4 a 1 dal
Brasile del grande Pelè, dopo la sofferta vittoriosa semifinale contro la
Germania di Haller e Schnellinger e Beckenbauer (3 a 2 per l’Italia ai
supplementari). Il Brasile si portò a casa definitivamente, ma giustamente, con
nostro grande rammarico, la Coppa Rimet
a casa[2].
La nostra classe era formata da una compatta
maggioranza Romanista, eccezion fatta per Melibeo, che era
nientepopodimenoché... Laziale. Il fatto è totalmente inspiegabile. Interista o
Juventino si sarebbe potuto anche capire, ma Laziale? La ragione di
questa strana preferenza forse ce la potrà dare lui. A quei tempi il
campanilismo calcistico era molto ben definito: o eri per una squadra di
successo nazionale (Inter, Milan, Juve), oppure eri per una squadra locale. Da
noi la maggior parte del ‘popolo’ preferiva i colori sanguigni Giallorossi,
mentre gli snob dell’alta borghesia, optavavano, per antitesi, per gli eterei
colori Biancazzurri. Laziali erano pure i ‘paesani’ originari dei paesini del
circondario. Don Pulci era Laziale, ma questo era un fatto accettato amichevolmente,
perché il simpatico Sacerdote era nato a Rocca Di Papa.
Anche le ragazze partecipavano blandamente al
‘tifo’, per lo più in relazione alla presenza di un calciatore particolarmente
‘fico’ nella squadra del cuore. Maria, per esempio, era Interista. Bisognerebbe
chiederle se in questro c’entrasse il famoso Facchetti.
Pochi e rari furono i ragazzi che si dedicarono ad
altri tipi di sport, soprattutto Atletica. A quei tempi alle Olimpiadi potevano
partecipare solo atleti “dilettanti”. Lo sport di professione era ancora (in
teoria) riservato al calcio, alla pallacanestro ed al ciclismo. Naturalmente in
tutte le nazioni del mondo si provvedeva ad aggirare questa regola
anacronistica, col medoto ‘militare’. I campioni olimpici erano segnati a
società sportive dell’Esercito o della Polizia, ricevendo un sostanzioso
salario da graduati istruttori sportivi. Di fatto passavano il loro tempo, allenandosi
in attrezzatissimi apparati paramilitari, preparandosi per le Olimpiadi e per i
Campionati Europei e Mondiali di atletica. Una di queste società sportive,
Appartenente alla Guardia di Finanza, le “Fiamme Gialle”, era basata nella
grande caserma, situata sul viale omonimo. La caserma era ufficialmente la
Scuola Sottufficiali della GF, ma in pratica comprendeva un attrezzatissimo
campo sportivo con prato curatissimo e pista olimpica di tartan, l’ultimo grido
di quei tempi in fatto di piste sintetiche.
Le Fiamme Gialle accettavano (forse per obbligo)
di allenare una guardia di giovani atleti, provenienti dalle scuole locali, su
proposta degli insegnanti di ginnastica. Alcuni della nostra classe, dal quinto
al secondo liceo, andarono ad allenarsi in quel magnifico campo sportivo un
paio di volte alla settimana, in varie branche di Atletica. In Terzo, poi,
quasi tutti smisero, dovendo riservare le forze ed il tempo libero, chi per
studiare per la Maturita’, chi per dedicarlo alla ragazza. Quattro di noi
frequentarono gli allenamenti con una certa costanza: Pasqualone ed il Dario nella corsa veloce (100 e 200 metri piani e
110 mmetri a ostacoli), Remo (Mezzofondo e Corsa campestre) e Dardo (Marcia).
Entravamo nella caserma, presentando il cartellino
di riconoscimento, salutati dalla sentinella, che usciva dalla garitta,
battendo i piedi sull’attenti. La cosa, all’inizio ci fece un po’ ridere, ma
poi ci abituammo persino a rispondere al saluto militarmente. Qualche volta uno
zelante ufficiale di picchetto, col nastro azzurro a tracolla, si degnava di
salutarci e ci chiedeva le tessere per un controllo. Sulla pista a volte ci
capitava di vedere qualche vero olimpionico in allenamento. Una volta trovammo
un disco, apparentemente dimenticato e facemmo una piccola gara, a chi riusciva
a mandarlo più lontano. Sì e no riuscimmo a lanciare quei 7 kili a una decina
di metri di distanza. Poco dopo apparve il camione europeo Simeoni (quel disco
non era stato lasciato lì per caso). Ci venne istintivo abbassare la testa,
vedendo quell’ UFO (Disco Volante) volare sulle nostre teste da una parte
all’altra del campo (in lungo), durante il “riscaldamento” di quel campione. Ci
ridimensionammo subito, ritornando alle nostre modeste attività agonistiche.
Alla fine del Primo il
nostro insegnante di Educazione Fisica riuscì ad organizzare una vera e propria
competizione sportiva del Liceo, coronata da una partita di pallone dei Liceali
contro gli Universitari provenienti dalla scuola. Non mi ricordo il risultato,
ma fu una bella festa, tenuta allo stadio locale, con tutto il Liceo che faceva
il tifo sugli spalti. Non mi pare che le ragazze partecipassero in costume da
Cheerleaders.
La sessione di Atletica fu ricca di avvenimenti
agonistici, con la notoria rivalità tra la sezione C e la B, che aveva anche
lei una nutrita squadra di velocisti. Ma noi avevamo Pasqualone, l’Invincibile.
Vinse senza contestazione i 100 e i 200 metri piani, lasciando dietro di lui di
alcuni metri il secondo ed il terzo classificato, della B. Poi ci fu la
cigliegina: la staffetta 4x100, della sezione C contro la B (con la IV C in
veste di comparsa). L’esito era incerto, per la presenza dei due ottimi
velocisti della B (Argento e Bronzo nei 100 m) da una parte, e del nostro Pasqualone
dall’altra.
La nostra sezione poteva presentare solo tre
ragazzi che si allenavano regolarmente: Pasqualone, il Dario ed un ragazzo del III C, di cui non ricordo
il nome. Ma era questione di Onore. Per quel tipo di gara non potevamo fare
affidamento né su Remo, né su Dardo, che erano mezzofondisti. Chiamammo in
aiuto Nino, allenandolo, pochi minuti prima della gara, alla bell’e meglio, alla
tecnica di passaggio del testimone (fase critica nella staffetta), assegnandogli
la seconda frazione (rettilineo) e lo spassionato consiglio: “Tu prendi il
testimone dal Dario, afferralo bene (il testimone, non il Dario) e corri,
sempre dritto, come un matto. Alla fine del rettilineo ti aspetta ... , che lo
passerà ad Pasqualone. Se non sbagli, è fatta, e l’Onore è salvato!”.
Il Dario era
l’unico (con Pasqualino) che conosceva la tecnica della partenza. Pur non
essendo molto veloce, non c’era scelta se non di dare a lui la prima frazione. Pasqualone
aveva da poco ricevuto in regalo un paio di scarpe chiodate “Adidas” nuove di
zecca dalla Società, per partecipare ad una imminente gara regionale. La
fortuna voleva che la sua misura di scarpe e quella del Dario fossero uguali. Pasqualone concesse al Dario,
per quell’occasione fatidica le sue scarpe chiodate vecchie. Gli altri corsero
con le normali scarpe da ginnastica. Grazie ai chiodi il Dario si sentì volare. Passò il testimone
(contemporaneamente al primo frazionista del IV C e della sezione B). Nino
afferrò il testimone con tecnica perfetta (il che dimostra che, quando voleva,
sapeva imparare presto e bene) e corse come un matto dritto davanti a sé. Passò
il testimone con cinque metri di vantaggio al terzo frazionista. Il resto è
Storia. Un errore all’ultimo cambio della B, ed Pasqualone tagliò il traguardo
quasi al passo, seguito all’onorevole distanza di trenta metri dal... IV C
! Vittoria schiacciante della nostra
sezione, cadetti compresi!
La meritata medaglia d’oro non fu mai messa al collo dei vincitori: la
staffetta era stata l’ultima gara, e di medaglie ne erano state aquistate dalla
scuola quattro di meno. Il Preside ci chiese gentilmente di rinunciare alle
nostre, a favore dei giovani del Quarto. Niente Patacche, ma ci è rimasta la
Gloria!
La Maturità
In “Zona Cesarini”
Nonostante quanto possa pensare il Dardo, l’Unità
d’Italia esiste solo sui libri di Storia. Il Popolo che occupa quella regione
del mondo a sud delle Alpi è solo un’apparenza, un complesso mosaico di
minoranze etniche, che hanno in comune solo il “sì”. Anche questo con riserva:
basta andare in su ed in giù per la Penisola, per sincerarsi che la lingua
cambia ogni pochi chilometri. Anche lo stomaco e le altre parti del corpo: ogni
città ha i suoi piatti tradizionali, i suoi vini speciali, e soprattutto la sua
Squadra del Cuore.
Ma qualcosa in comune gli Italiani ce l’hanno: gli
spaghetti al dente, il caffè ristretto, le calze nuove nel primo cassetto, la Bandiera
in tintoria... Come si fa a spiegare ad un Francese, ad in Inglese o ad un...
Israeliano il profondo significato di quest’ultima sacrosanta verità: “La
Bandiera in tintoria”?
Il Nazionalismo italiano dorme da sempre il sonno
dei giusti. Si risveglia solo quando la Nazionale Azzurra va’ a difendere
l’Onore ai Mondiali di Calcio. E lì si ritira dalla tintoria il Tricolore (che
si era sporcato all’ultima partita allo Stadio), si spiega al vento e... ci si
siede davanti alla televisione a fare il tifo. E allora, guai a disturbare
“l’Italiano Vero” con le piccolezze di questo mondo...
Giugno 1970. La nostra classe si prepara agli
Esami di Maturità. “Si prepara... ??”. Come ci si può preparare agli Esami,
quando la Nazionale e’ impegnata nella fatidica conquista definitiva della
Coppa Rimet?
Nona Edizione. Sedici squadre, suddivise in
quattro gironi. Tre squadre con due conquiste ciascuna (Italia, Brasile,
Uruguay), due con una singola conquista (Germania ed Inghilterra). La regola
del campionato dice che chi vince tre volte, si porta a casa la coppa
definitivamente. Il girone italiano comprende Svezia, Uruguay e la cenerentola
Israele, alla sua prima ed unica apparizione, in rappresentanza dei Paesi
dell’Asia-Oceania. I compagni fanno qualche allusione sarcastica in direzione del
Dario: “Allora chi vince, Italia od Israele?”. Cheppalle risponde con un diplomatico: “Io sono per il
pareggio, purché l’Italia salga ai quarti di finale!”. Italia-Israele finisce
0-0 e tutto va a posto. Ai quarti si supera l’ospite Messico e si arriva alla
fatidica semifinale contro la Germania. La più sofferta partita della storia
del calcio italiano: 4 a 3 per gli azzurri, dopo i tempi supplementari.
Come si fa a studiare Cicerone, quando la voce è
finita, urlando: “Forza Azzurri!” e le forze sono esaurite sbandierando il
tricolore in quella notte insonne dopo la favolosa vittoria contro i “Crucchi”
di Beckenbauer?
Siamo esausti. Come si fa ad affrontare il
“Paradiso” di Dante, quando i “Diavoli” gialli di Pelè si portano giustamente
la coppa Rimet a casa, dopo aver strapazzato in finale una Nazionale Azzurra completamente
svuotata di energia, dopo la vittoriosa battaglia contro i discendenti del
Barbarossa?
La Bandiera ritorna in tintoria, si sfilano i
“Bignami” dallo scaffale più alto e si cerca di consolarci, ripassando la Storia:
“... 1938 – La Germania occupa la Cecoslovacchia – I patti di Monaco. La
Francia protesta...”. Ma va’... “1938 – l’Italia vince per la seconda volta la
coppa Rimet, in Francia, dopo averla vinta per la prima volta quattro anni
prima contro la Cecoslovacchia...”. La commissione d’esame accetterà questa
versione della Storia?
I Calcoli
Ripensandoci bene, i “nostri” Esami di Maturità,
in quella fatidica sessione di Luglio 1970, furono una barzelletta. Non bisogna
denigrare sempre quelli del Ministero della Pubblica Istruzione per la mancanza
di lungimiranza e per voler sempre fare difficoltà agli esaminandi. Ne sia la
dimostrazione il fatto che il Ministero fece del suo meglio per renderci la
vita facile, affinché i nostri esami di Maturità non venissero a distrarci
dall’impegno di fare il tifo per gli Azzurri. Il Ministero si dette da fare con
ben due anni d’anticipo, dimostrando una capacità di organizzazione
notoriamente inesistente nella Storia del nostro Paese.
Negli anni 1969 e 1970 fu fatto un curioso
esperimento didattico: fino ad allora gli Esami di Maturità erano stati una
cosa molto seria. Al Classico si facevano tre prove scritte e si portavano
all’orale i programmi di tre anni di tutte le materie. Chi superava l’estenuante
prova, veniva considerato veramente “maturo” per andare all’Università e
diventare uno della Classe Dirigente del Paese.
Con la Riforma didattica che aveva creato la Media
Unificata, qualcuno al Ministero si accorse che i primi rampolli della riforma
avrebbero dovuto affrontare gli Esami di Maturità nella sessione del 1971. Ma
la Media Unificata non era più l’anticamera del Liceo elittistico di una volta.
Anche i metodi per misurare “La maturità” erano cambiati completamente.
Bisognava adattare i fatidici Esami ai tempi. Fu così deciso di cambiare
completamente la formula degli Esami di Maturità, in forma “sperimentale” per
due anni, per poi decidere se applicare il nuovo sistema in forma definitiva.
Fu messo l’accento sulla “qualità” invece che sulla “quantità”. Ci si era ben
resi conto che milioni di date di battaglie e chilometri di letteratura latina
dal “De Bello Gallico” a Tacito, non dimostravano minimamente quanto lo
studente fosse capace di affrontare la vita moderna. In concomitanza con la
Rivoluzione Studentesca, si era arrivati finalmente alla conclusione che il/la
ragazzo/a diciottenne dovevano soprattutto dimostrare di saper pensare con la
loro testa, invece di dimostrare di essere dei pappagalli.
Si cominciò, quindi con la riduzione dei “programmi” da portare. Per ogni materia,
solo quelli dell’ultimo anno. Per il Classico le prove scritte furono ridotte a
due, e due sarebbero state pure le materie all’esame orale, sulle quattro
decretate dal Ministero a Pasqua. In teoria bisognava studiarle tutte per
ottenere l’Ammissione, ma in pratica chi si sarebbe sognato di toccare le
materie “non decretate”? Bastava ottenere la sufficienza, facilmente ottenibile
dall’insegnante in questione, che avrebbe messo, naturalmente, l’accento sulla
materia d’esame. Non solo, ma delle due materie orali d’esame, una veniva
“portata” dall’alunno, mentre la commissione poteva sceglierue una qualunque
delle tre restanti, a patto che non fosse quella (secondo il “suggerimento
ministeriale”), “nella quale l’alunno era più debole delle altre. Come dire:
“lo potete bocciare solo se è un solenne somaro”.
Per il 1969, primo anno dell’esperimento, il
Ministero decretò Italiano e Latino scritti ed Italiano, Greco, Filosofia e
Fisica orali. Una decisione logica: Italiano non poteva mancare. Latino e Greco
non potevano essere esclusi (uno di qua, uno di là). Rimanevano le “materie
minori”, l’una umanistica, l’altra scientifica. Probabilmente al Ministero
tirarono a sorte, come per gli accoppiamenti delle squadre ai Mondiali.
Agli orali si poteva accedere se si erano superati
gli scritti. La commissione d’esame era formata da sei membri, cinque esterni più
l’Insegnante di Classe. La commissione doveva decidere, innanzi tutto, se
l’alunno avesse passato gli esami con successo, se, cioè era “Maturo”,
dopodiché ogni commissario dava un voto tra il 6 ed il 10, così che, se si
superava l’esame, il voto andava da 36 a 60.
Gli Esami del 1969 furono ancora “tosti”. Non
tutti i commissari avevano ancora capito lo spirito della Riforma. Qualcuno
infierì sui poveri esaminandi, e ci furoro alcuni “caduti”. Nel nostro Liceo
furorono “trombati”, tra gli altri, Cecco, Tina ed Angelina, che si unirono
gloriosamente alla nostra classe in Terzo, per riprovarci di nuovo (per Cecco,
terzo tentativo).
L’anno successivo dimostrò che al Ministero della
Pubblica Istruzione c’era gente che aveva capito lo spirito dei tempi cambiati.
Gli Esami di Maturutà, a rigor di logica, dovevano controllare “la maturità”
dell’esaminando. Quale poteva essere la miglior prova di maturità, se non quella di poter
dimostrare di non lasciarsi confondere le idee dai trucchi ministeriali?
Il Ministero fece con noi la prova del nove. Chi
ci fosse cascato, avrebbe dimostrato di non comprendere la Logica Italiana e,
giustamente sarebbe stato considerato un’Immaturo.
Le due domande d’esame più importanti, forse le
uniche domande reali, furono poste con la conclusone della Maturità del 1969:
1. Quali saranno nella sessione del 1970 le due
materie scritte e le quattro orali?
2. quale sarà la materia che ti chiederà la
commissione?
La Risposta alla prima domanda sarebbe stata data
a Pasqua, quella alla seconda domanda, il Giorno del Giudizio, all’ora x.
Veramente? ... Manco pe’ gnente!
Si trattava di un tranello, per vedere se eravamo
maturi:
Le materie scritte erano scontate: Italiano e
Greco. Italiano non poteva mancare. Era d’obbligo. Latino e Greco si sarebbero
scambiate di posto. Dunque Greco scritto e Latino orale, insieme
all’onnipresente Italiano. Due materie “principali”. Rimanevano le materie
“minori”. Storia, ovviamente avrebbe preso il posto di Filosofia (uscita l’anno
prima). Per le Materie Scientifiche c’era più scelta: o Matematica o Scienze.
Scelta apparente, perché l’insegnante di Matematica-Fisica insegnava ben
quattro ore settimanali, contro le due dell’insegnante di Scienze. Quindi,
Matematica.
A Storia dell’Arte si poteva fare a meno: il
Ministero poteva controllare con comodità l’andamento dell’esame di questa
materia al Liceo Artistico.
Dunque la risposta alla prima domanda era
lapalissiana.
La seconda domanda era più difficile solo in
apparenza. Ovviamente dipendeva dalla materia scelta dall’esaminando, ma si
ricorda l’esplicita circolare ministeriale, che “pregava” la commissione di NON
interrogare l’allievo su quella delle restanti tre materie, nella quale fosse
più debole...
Per qualche alunno particolarmente dotato (o
particolarmente idiota) sarebbe potuto, sì, accadere di essere interrogato su
una delle materie maggiori, dopo aver portato l’altra, ma era chiaro che per la
maggior parte di noi ci sarebbe stata una materia “pesante” ed una “leggera”.
Bisognava quindi preparae solo due materie e non quattro.
Per portare una “materia minore” ed essere
interrogati sull’altra, si avrebbe dovuto avere (Don Renzo mi
perdoni l’espressione) un culo grande come il turbante di Solimano il
Magnifico.
L’esame del Dardo
Come volevasi dimostrare: fu proprio quello che
successe al Dardo. Portò Storia, la sua materia preferita, e la commissione
scelse per lui Matematica.
Ma le cose non stanno proprio così. Come lui
stesso ci racconta trent’anni dopo, La scelta della commissione fu “concordata”
dal Dardo stesso con la Prof La Trova, di Matematica, l’insegnante di classe,
membro interno della commissione. Mafia? Non proprio. Mentre noi tutti facevamo
finta di prepararci, tra una partita di Mondiale e l’altra, a quegli esami da
barzelletta, il nostro Dardo stava studiando molto seriamente, per prepararsi
ad una prova ben più impegnativa: gli Esami d’Ammissione all’Accademia di
Modena, per i quali Matematica era materia d’obbligo. In vista della dura
prova, chiese ed ottenne dalla Prof. di essere interrogato agli Esami di
Maurità, nella materia che, in ogni caso, stava studiando molto seriamente, per
tutt’altra ragione. E, giustamente, fu accontentato.
Il sudore che uscì dalle meningi spemute del
nostro futuro colonnello, per ottenere quel suo meritato 49, fu solo un piccolo
anticipo di quello che sarebbe sprizzato da tutti i pori del Dardo nei prossimi
anni.
L’esame del Dario
Superati gli scritti, grazie ad una prova di Greco
piuttosto facile ed alla innata capacità del nostro cantastorie di trovare sul
vocabolario le “parole chiave”, quelle che si accompagnavano alla traduzione di
intere frasi bell’e pronte, il Dario presentò
agli Orali, ovviamente, Matematica. Non cadde nel tranello, quando gli chiesero
di usare la formula di Erone, per calcolare l’area di un triangolo con lati
lunghi tre, quattro e sette[3].
E finalmente arrivò il fatidico momento della scelta della commissione:
Italiano, come previsto. Sapendo della prossima emigrazione, furono oltremodo
benevoli: “Ci parli di un argomento a piacere”. Sia per solidarietà
professionale, sia per campanilismo, Cheppalle aveva preparato un poeta minore: Giovanni
Gioacchino Belli. Il Dario partì subito in
quarta con una erudita dissertazione “apacica” sulla scrittura fonetica
inventata da quel rinomato scrittore di Sonetti Romaneschi. La commissione
stette ad ascoltare annoiata: tra i commissari non c’era nessun romano,
probabilmente i professori, il Belli non lo avevano neanche letto. Per qualcuno
di essi il monologo del Dario sembrò
quasi sicuramente una dissertazione sulla semantica ostrogota. Dopo un buon
quarto d’ora di pallosa attesa che il nostro la finisse (se lo avessero saputo,
gli avrebbero gridato in faccia: “CHEPPAALLE!”), il capo commissione, sbirciò
l’orologio, sospirò e lo interruppe: “Bene, ora ci dica del XXXIII canto del
Paradiso...”. A causa dei Mondiali, Il Dario
aveva fatto a tempo a leggere sul “Bignami” solo il riassunto dei primi trenta.
“Mah, non mi ricordo molto bene...”. Allora ci racconti del XXXII...”. “A dire
la verità, nemmeno quello me lo ricordo...”. “il XXXI...”. “Mah, credo...
forse... non sono sicuro...”. Il presidente della commissione dette un occhiata
significativa agli altri insegnanti e
liberò il nostro dalla tortura. “Va bene, vada, vada pure...”. Il Dario aveva
fatto la seconda, dopo l’esame di quinto Ginnasio. Scena muta sulla Divina
Commedia. Sarebbe Bastato?
Bastò.
La commissione lo promosse con un misero 37/60,
forse il voto più basso della classe. Ma anche la commissione sapeva che al
nostro ‘Cheppalle ’ sarebbe servito solo il pezzo di carta. In Terra Santa
nessuno gli avrebbe contestato la sua ignoranza sul Paradiso dantesco.
E qui concludiamo la nostra Commedia, in ringraziamento alla Divina
Provvidenza che permise agli eroi del Terzo C di disfarsi finalmente del Verdi ,
mandandolo in Medio Oriente, con le parole del Sommo Vate, che il nostro “Cheppaalle!”
non fece in tempo a leggere sul “Bignami”:
A l’alta
fantasia qui mancò possa:
anche l’Cheppalle è a corto di favelle,
per narrar come andammo alla riscossa,
e come
giunse ‘l Terzo C alle stelle.
[1] L’elemento chimico Cobalto ( simbolo Co) è
notoriamente bivalente. In soluzione libera ioni positivi: i Co++ ioni.
[2] Non racconterò in questa Storia ciò che
successe al Dario due mesi dopo: appena
entrato nella camera assegnatagli ai dormitori dell’università estera, si trovò
di fronte il suo compagno di stanza, un Brasiliano, che lo accolse con un
eloquente gesto “all’italiana” (quello che si fa ponendo e staccando
ritmicamente la mano sinistra sulla parte interna del gomito del braccio
destro, disteso in avanti), ed un sonoro saluto, in perfetto Italiano:
“UNO-DUE-TRE-QUAAATTTRO!!!”.
[3] Per chi non lo sapesse, tale triangolo ha area
zero!