Questa è una storia vera,

 

ma, per proteggere la privacy dei protagonisti,

i nomi sono stati tutti cambiati...

 

La Storia di Berta &… C.

 

Il lungo idillio con Berta è cominciato i primi giorni del primo liceo. All’inizio, come tutte le storia d’amore, il sentimento reciproco era molto tiepido: un’altra delle cento avventure di noi, giovani studenti, con il corpo insegnante.

La vecchietta ultra-sessantenne si era presentata come la nuova insegnante di Latino e Greco, per i prossimi tre anni, fino alla maturità classica, e si era ripromessa di fare un buon lavoro in comune, per rivelarci tutti i segreti delle meravigliose lingue di Cicerone e di Erodoto.

Impossibile dire che la lezione di apertura ci avesse entusiasmato, comunque nessuno, a parte forse Nino, sospettava minimamente cosa sarebbe successo di lì a poco.

Non ci mancavano certamente interessi scolastici a quel tempo: il prossimo “derby”, le ragazze del quinto ginnasio, la nuova Lambretta di Giacomo e la lega di calcio balilla contro il primo B, che voleva la rivincita dalla bruciante sconfitta dei quinti dell’anno passato...

Il corpo insegnante si era completamente rinnovato, tranne Don Pulci, il simpatico prete che ci passava l’ora settimanale di Religione. Don Pulci era Laziale, mentre noi, Armando escluso, eravamo tutti romanisti, quindi i pronostici del totocalcio quel giovedì avevano la precedenza sui Dieci Comandamenti.

I miscredenti più accesi avevano perfino promesso a Don Pulci che si sarebbero confessati, se la Lazio avesse vinto, cosa ritenuta.... impossibile.

Dal quinto al Primo avevamo perso per strada qualche compagno, specie donne. In via del tutto naturale era diminuito l’interesse per il sesso debole della classe, in tutto sei ragazze, di cui solo tre passabili (+ una quarta... con la condizionale), ed era proporzionalmente aumentato l’interesse per gli altri argomenti scolastici di cui ho parlato poc’anzi.

 

Uno dei nostri sport preferiti, in cui eccelleva specialmente Paolo, era l’a-sport-azione di... tutti gli oggetti “asportabli”. La collezione comprendeva oggetti semplici, come il cancellino, il cestino dei rifiuti ed i perni dell’attaccapanni, ed oggetti che difficilmente potevano essere asportati, senza che la mancanza fosse notata: la manovella delle finestrelle superiori e... la fòrmica dei banchi.

La tattica generalmente adottata era quella dell’asportazione graduale, in cui l’oggetto spariva un bel giorno, per riapparire l’indomani, se il bidello o qualcuno del corpo insegnante ne aveva notato l’assenza. La manovella della finestra centrale aveva fatto l’andirivieni una ventina di volte ed il ritratto del presidente della Repubblica una decina. L’unico oggetto tabù era, ovviamente, il Crocifisso.

I perni dell’attaccapanni sostennero una strenua lotta ad ogni intervallo, finendo per arrendersi uno ad uno, ma ritornarono puntualmente al loro posto dopo il primo acquazzone d’Inverno, per dare la possibilità ai più freddolosi di appendere i cappotti. Ogni tanto uno dei perni cedeva sotto il peso degli impermeabili, ma cosa volete pretendere da un povero pezzo di legno appena incastrato nel suo buco, senza ombra di colla o di chiodi?

Impresa molto più complessa si rivelava l’asportazione della fòrmica dei banchi; il possesso di un pezzo quanto più grande possibile era innanzi tutto una questione di prestigio, un po’ come la tessera di riconoscimento della leadership. Nino possedeva dal Quinto un pezzo raro, grande come una mattonella, ed era considerato un po’ il capo della classe, riguardo tutte le “azioni” future, fino a che qualcuno non fosse riuscito ad impossessarsi di un pezzo di formica più grande.

A prima vista “spellare” lo strato di formica piano di un banco, in tutto circa un metro quadro, può sembrare un’impresa facile, ma in realtà esistono problemi tecnici e... sociali che la rendono insormontabile.

Il primo problema puramente tecnico è quello di trovare il punto debole del piano, in generale uno degli angoli, dopodiché è possibile continuare lo spellamento, piano piano.

Due nemici giurati si oppongono all’impresa: il primo è la colla del costruttore, nelle cui intenzioni c’era stato un banco decisamente destinato a servire almeno tre o quattro generazioni. Il secondo era il ”punto critico”, momento delicato in cui la più piccola pressione causa una frattura nella formica e rende inutile tutti gli sforzi per ottenere un pezzo più grande. Il punto critico può variare da banco a banco e dipende dall’utensile usato per il lavoro: nel caso dell’abituale cacciavite, è molto difficile ottenere un pezzo di formica più grande di mezza mattonella, specie se la colla è particolarmente resistente.

Questi sono i problemi tecnici. Riguardo quelli sociali: innanzi tutto non tutti i banchi potevano essere spellati. E’ chiaro che se Pepe, che sedeva in prima fila, avesse deciso di darsi da fare, la cosa sarebbe stata immediatamente notata, quindi i banchi “spellabili” erano solo quelli dell’ultima fila: quelli di Nino, Paolo e Remo.

Dopo un mese di duri sforzi Paolo era riuscito ad arrivare quasi al punto critico, Nino seguiva a ruota, mentre Remo era stato costretto da un angolo particolarmente incollato a scambiarsi di posto con Pasqualino, per procedere all’azione dalla parte opposta.

 

L’insegnante di Italiano era passata dall’insegnamento alle medie inferiori a quelle superiori, per la prima volta quell’anno; Il sabato prima del derby Ernesto, che senza dubbio era il più acceso tifoso romanista della classe, aveva scritto sulla lavagna “M la Lazio in caratteri cubitali. Purtroppo, prima di poter completare la scritta con le virgolette, l’insegnante fece il suo ingresso trionfale e lo colse sul fatto.

Ernesto le dette un buongiorno rumoroso, non celando un largo sorriso di soddisfazione da un orecchio all’altro. L’insegnante, indubbiamente era rimasta stupefatta di essere stata accolta, il primo giorno di lezione, non da una classe di ragazzini in religioso silenzio sull’attenti, in trepida attesa di rispondere al buongiorno, bensì da un giovanottone grasso dalle mani sporche di gesso, come un cantante blues che, inoltre, le ostruiva l’accesso alla cattedra.

La reazione fu immediata e... malpensata: Ernesto fu spedito... dietro la lavagna!

La scena era era veramente comica. In Primo Liceo dietro la lavagna! Mancava soltanto il cappello con la scritta “ASINO” ed eravamo pronti a ritornare ai tempi delle favole!

Ernesto non poteva trattenere le risate, e noi, una volta ripresi dallo shock, avevamo incominciato a muovere le sedie per protesta.

Sedevamo ai banchi a coppie, ma ognuno aveva la sua sedia personale. Alle gambe c’erano dei tappetti di gomma che, a forza di stofinamento, erano completamente consumati, così che il minimo movimento causava uno stridìo insopportabile.

Nella confusione generale Ernesto produsse il suo famoso verso della foca, un poderoso suono riproducente a perfezione il latrato di quel nobile animale, ma “leggermente” aumentato di un bel po’ di decibel.

La povera insegnante non sapeva più cosa fare, e la campanella della fine salvò la situazione.

Ci alzammo tutti in piedi, concludendo così, con un poderoso stridìo, ed andammo a presentare le condoglianze a Ernesto per l’accaduto, preparandoci alla grande festa del lunedì, per la certa vittoria della Roma.

 

La Lazio vinse per 2 a 1. Il goal della vittoria era stato segnato in presunto fuorigioco.

Lunedì Armando era raggiante, mentre tutti gli altri erano in lutto, specie Pepe, Ernesto e Paolo.

L’insegnante di Storia dell’Arte era un tipo decisamente nevrotico. Al minimo rumore saltava su e cominciava a parlare con un tic nevrotico dei lavori medievali del Gotico e del Romanico, facendo domande all’improvviso, per richiamare l’attenzione, il peggiore sistema per richiamare l’attenzione. Gabriele e Giacomo erano sprofondati in un’accanita partina di “pallette e quadratini” e la suddetta interrogò Gabriele, sul più bello della mossa conclusiva, sulla differenza tra la bifora e la trifora nella costruzione dei campanili medievali. Gabriele, decisamente scocciato per l’interruzione, se ne uscì con la frase, poi passata alla Storia: “Ma che ne so io di quei campanili dei tempi che Berta filava! Adeso li costruiscono di cemento armato!”. Per un buon mese l’insegnante di Storia dell’Arte fu chiamata Berta.

 

La professoressa M.L. di Latino e Greco era un tipo piuttosto arzillo. Proveniva da una buona famiglia, il padre era stato, a suo tempo, giudice o giù di lì. Per circa trent’anni, dopo la laurea, si era dedicata ad opere di beneficenza facendo, a quanto pare, la crocerossina in Africa Orientale ed in Russia, durante la Guerra. L’attività non le aveva consentito di mettere su famiglia ed era rimasta signorina. Negli ultimi dieci anni si era dedicata all’insegnamento nel liceo “Tasso”, in città, da dove era passata a noi, in seguito al cambiamento dello stile di educazione impartita.

In seguito alla riforma didattica, nei migliori licei era incominciata ad apparire una maggiore apertura mentale da parte degli insegnanti, nei confronti degli alunni, e la vecchietta, rimasta indietro di almeno trent’anni, non era riuscita più ad accattivarsi la simpatia degli alunni e del corpo insegnante di quel liceo, particolarmente aperto alle innovazioni pedagogiche.

Tutto questo noi all’inizio non lo sapevamo. Lo siamo venuti a sapere col tempo e poco a poco. L’unica cosa che notammo, all’inizio, era la strana forma di dialogo della profesoressa, un misto di Latino, Greco e di parole ripetute ininterrottamente, il tutto accompagnato da una voce in falsetto ed da una risatina di soddisfazione ad ogni perla letteraria:

“E allora, parlando di Catullo –vero- bisogna ricordare che è il migliore poeta della letteratura –vero- latina, a meno che voi non siate –vero- della scuola di Virgilio, e pensiate il contrario –vero- . Daltronde nel periodo aureo –vero- non solo il ‘Carpe Diem’, ma anche il ‘Carmis Secularis’ sono da considerarsi –vero- ...” ...

A noi del ‘Carpe Diem’ non ce ne fregava un tubo, naturalmente, ed ancora meno del ‘Carmis-vattelappesca’. Continuammo indisturbati a discutere sulla posizione di fuorigioco dell’attaccante Laziale del derby. Pepe ed Armando stavano cercando di dimostrare l’uno all’altro le proprie teorie sull’incontro. La cosa richiedeva  un certa dose di acrobazia da parte di Pepe, che sedeva non accanto ad Armando, ma al banco davanti a lui. All’inizio Pepe sussurrava, con la mano davanti alla bocca, ma Armando non riusciva a sentire bene. Pepe prese ad inclinare la sedia all’indietro, sostenendosi con la mano libera al banco, ma la sua posizione era piuttosto precaria, finché, riscaldandosi nella discussione, fece una mossa falsa e capitombolò a terra con tutta la sedia, producendo un suono terribile, che riuscì a svegliare Nino dal suo profondo sonno.

La vecchietta osservò stupefatta il grosso corpo di Pepe, che cercava di tornare a galla dolorante, ed incominciò a spiegare che “Ai miei tempi –vero- i giovani erano forti e prestanti e non cadevano dalle sedie” e non so che altre fesserie sull’indebolimento generale delle nuove generazioni.

Nino le appiccicò quel giorno l’appellativo di Nonna Abelarda, la vechietta arzilla e forzuta dei fumetti.

 

Nino era l’appiccica-soprannomi per eccellenza. Il professore di Cimica, un toscano giovane e simpatico, venne chiamato “Bernardo l’eremita”, o più semplicemente “Il Paguro”. Alla fine dell’anno il Paguro chiese a Nino il perché di quel soprannome e ricevette la seguente risposta: “Perché sei innocuo!”.

Tranne me ed Emma (la compagna “con la condizionale”), due persone capitate quasi per sbaglio al classico, nessuno eccelleva nelle materie scientifiche; la situazione era ancora passabile in Matematica, perché l’insegnante, benché fosse un tipo decisamente nevrotico, riuscì a mantenere un buon livello e, fin dall’inizio, la disciplina; nelle sue due ore settimanali ci limitavamo a sonnecchiare, ed il tempo passava. In Chimica non c’era, invece, proprio nulla da fare: il più bravo insegnante non sarebbe riuscito a far entrare nella testa di Pepe e di Ernesto la differenza tra l’Ossigeno e l’Idrogeno, nemmeno se avesse spaccato la stessa ed infilato un foglio con la spiegazione. Il Paguro non era stupido e capì velocemente la situazione. Cercò di interessarci alla materia, ma sapeva bene che, a parte due o tre persone decisamente portate per la stessa, non valeva la pena di lottare contro i mulini a vento e, quando durante le interrogazioni suggerivamo, faceva finta di non sentire, se non avevamo alzato un po’ troppo la voce. In quelle occasioni io mi scambiavo di posto con Pepe, che passava al terzo banco. Dalla mia nuova posizione strategica passavo alla fase attiva: il sistema più silenzioso era quello del linguaggio dei muti con le mani. Spesso l’interrogato incominciava a dare una risposta e guardava per aria: con un leggero cenno del capo e con una smorfia gli facevo capire se la risposta era sbagliata e la situazione poteva essere salvata in calcio d’angolo nella maggior parte dei casi.

In cambio dell’aiuto dato in Chimica, ricevevo simili suggerimenti nelle materie in cui ero debole. Per i compiti in classe di Latino avevamo già un’organizzazione collaudata: Pepe curava la sintassi, Giacomo traduceva la prima parte, Enzo  la seconda, Armando faceva la ricerca delle parole difficili ed io facevo il postino. Ad una mezz’oretta dalla fine del tempo le varie parti venivano concentrate da Giacomo, che curava la traduzione in buona lingua, e da lì venivano sparpagliate a tutti i collaboratori, che procedevano a cambiare qua e là qualche parola, per non consegnare delle semplici copie.

Il passaggio dei bigliettini richiedeva una certa destrezza: uno di noi andava a chiedere una spiegazione, richiameando l’attenzione da un lato, ed altri due passavano velocemente il documento incriminato dall’altra, una tecnica in uso da varie generazioni in tutto il mondo.

Un giorno la vecchia Abelarda ci dette un compito particolarmente difficile. Nonostante gli sforzi il tempo stringeva e Giacomo era ancora in fase di ritocco a cinque minuti dalla campanella. Nino perse la pazienza, si alzò senza chiedere il permesso e, presa la brutta di Giacomo, si mise a copiare il pezzo difficile, come se la cosa fosse perfettamente naturale. Per la prima volta facemmo la conoscenza della faccia di Nonna Abelarda in crisi: il colore grigiastro naturale cambiò in rosso di rabbia, in giallo di bile, per passare al verdino e di nuovo al grigio. Gli occhiali a mezzaluna quasi caddero dal naso e la frase strozzata venne fuori a stento: “Ai miei tempi – vero – queste cose non succedevano!”

Nino venne spedito fuori dalla classe, ma non uscì prima di aver finito il suo lavoro e di dire: “Va bene, vecchia, ma attenta alla pressione!” La campanella suonò di lì a poco e concluse quel giorno intenso di avventure.

La mattina seguente l’addetto ai manifesti, Ernesto, scrisse “M la vecchia Abelarda” sulla lavagna. Il caso volle che la prima insegnante ad entrare in classe fosse quella di Storia dell’Arte. Appena vista la scritta prese ad urlare non so cosa sulla mancanza di educazione e sembrava molto offesa di quell’appellativo, credendo che fosse diretto a lei. Ernesto cercò di spiegarle che il suo soprannome era Berta e non Abelarda; la tizia non mostrò la minima comprensione. Voleva sospendere l’autore, ma non potette dimostrare chi fosse stato.

Visto l’entusiasmo da parte sua, decidemmo che il nome Abelarda fosse di sua proprietà, mentre, venendo a mancare un soprannome per l’insegnante di Latino e Greco, questa fu chiamata Berta.

Un mese dopo l’insegnante di Storia dell’Arte fu trasferita e l’appellativo Nonna Abelarda andò in disuso. Il soprannome Berta, invece, fiorì e passò alla Storia.   

 

Una penna a sfera, svuotata del refill, è un’ottima cerbottana, il riso è un proiettile del giusto calibro e la testa di Genoeffa è sempre stata il miglior bersaglio.

Genoeffa era la ragazza più brutta della classe. Bassa, con le trecce e gli occhiali, si vestiva da paesana e sempre fuori moda, non era brillante in nessuna materia e sedeva accanto a Donatella che, quasi in antitesi, era la ragazza più “bona” della classe.

È un fatto decisamente curioso, ma ripetutamente provato, che le ragazze vadano a coppie, quelle belle sempre acompagnate da altre particolarmente brutte, quasi ad esaltarne le qualità fisiche, di cui sono abbondantemente provviste. Le brutte amano andare con le belle per avere più occasione di trovare qualcuno che si interessi a loro. Noi ragazzi facciamo il possibile per “incominciare” con le piacenti, cercando di “scaricare” le racchie. Pochi sono i ragazzi che comprendono la psicologia femminile e ci dava tremendamente sui nervi che Genoeffa occupasse il posto accanto a Donatella, perché ci impediva l’accesso.

Un giorno qualcuno portò mezzo chilo di riso, che fu fraternamente diviso tra tutti. Al comando “Fuoco!” di Nino, una gragnuola di colpi fu indirizzata sul bersaglio. Non avevamo “azzerato” sufficientemente il tiro, e parecchi colpi andarono a vuoto, centrando le veneziane e producendo un suono come di grandine sulle finestre. Ricaricammo nuovamente la bocca di chicchi e sparammo a raffica. Questa volta i centri furono di più, ma la maggioranza dei chicchi finì nuovamente sulle veneziane, producendo un suono più armonico.

La terza raffica fu meno precisa: colpimmo Donatella ed Enzo , che stava ricaricando. Per tutta risposta Enzo  rispose al fuoco in direzione di Ernesto e lo colpì in pieno nell’orecchio. Ernesto non lasciò passare l’affronto in silenzio e sparò una raffica. La grandine si fece di nuovo sentire. Tralasciammo la testa di Genoeffa e ci unimmo al bombardamento su Enzo, rinforzato da Dardo e da Nino. Sergio, detto anche “il Secco” era il nostro migliore cecchino. I suoi colpi raramente mancavano il bersaglio. Enzo  fu costretto ad arrendersi, per mancanza di munizioni, dopo essersi ripulito da numerosi chicchi, misti a sputo, in faccia e sulla camicia.

Quando Berta entrò in classe si sentì uno strano scricchiolio sotto le sue scarpe.

La spiegazione era tremendamente noiosa: Cicerone è passato alla storia come il migliore oratore latino, ma a distanza di duemila anni, ben pochi alunni, interessati per lo più all’ultimo successo dei Beatles, capiscono la grandezza di quel nobile monumento dei tempi andati. Quanto sarebbe stato meglio se Marco Antonio, invece di farlo semplicemente assassinare, ne avesse fatto bruciare tutti gli scritti!

Berta parlava e parlava, il tempo non voleva passare. Dopo la spossante battaglia con il riso non avevamo la forza di giocare a scacchi e non riuscivamo ad addormentarci a causa di Berta. Fu allora che Remo afferrò in silenzio i libri  di Enzo  e li fece volare dalla finestra. La nostra classe era al pian terreno, ed i libri non subirono alcun danno. Enzo andò in bestia. Si mise a bestemmiare in direzione di Remo e ad agitarsi nervosamente sulla sedia. Berta decise che i movimenti erano dovuti all’interesse per Cicerone e all’impazienza di essere interrogato ed esaudì il desiderio. Enzo dapprima si schermì, ma incitato da alcune voci vicine: “Enzo-Enzo-Enzo...”, fu costretto, suo malgrado, ad alzarsi e ad andare alla lavagna. Fece scena muta a quasi tutte le domande sulla lezione precedente. Berta gli dette la sufficienza premiando, se non il sapere, almeno la buona volontà.

Enzo era un buon amico con tutti, meno quando lo facevano andare in bestia, cosa che succedeva abbastanza spesso. Buon giocatore di calcio, nel ruolo di mezz’ala, si faceva onore a bigliardino ed era, con il Secco, l’indiscusso campione a flipper. Era anche il più basso della classe e, per via della statura, il più complessato.

Amava raccontare delle sue conquiste amorose con ricchezza di particolari, per lo più inventati. Lo prendevamo in giro spesso, ma senza esagerare, perché era un alunno diligente e faceva comodo accattivarsene le simpatie. Era anche uno dei Veterani e fu tra i primi a prendere la patente. In Quinto girava spesso in lambretta e scorazzava qua e là per la città. Gli piaceva particolarmente accompagnare a casa le ragazze, per farsi vedere.

Enzo era uno dei tre Fascisti della classe ed anni addietro qualcuno gli aveva appicicato il soprannome “Minifascio che cammina”, ma un soprannome deve essere una cosa corta e facile da pronunciare. Quando studiammo in Biologia le scimmie, apprendemmo lo strano comportamento sessuale delle stesse e qualcuno fece notare che esisteva una forte rassomiglianza tra Enzo ed il mandrillo. Inutile dire che quell’appellativo gli rimase appiccicato da allora in poi.

In città c’erano tre o quattro posti dove si poteva giocare a bigliardino. Uno era vicino alla scuola ed era conosciuto come “il buco”; un secondo, vicino a casa mia, conosciuto come “il fantasma”, soprannome dato al proprietario, un vecchietto ossuto che sembrava più di là che di qua. Tutti i sabati ci ritrovavamo al buco appena finite le lezioni e, per un paio d’ore, giocavamo. Giacomo era uno dei migliori difensori della scuola, il Secco ed il Mandrillo ottimi attaccanti. Ognuno metteva in cassa un po’ di soldi e giocavamo finché non finivano, in tutto non meno di dieci partite. A volte facevamo a “chi perde paga” e sfidavamo quelli della B, giocatori assai meno bravi, così facevamo lo stesso numero di partite senza spendere un soldo. Avevamo stabilito delle regole universalmente accettate e chi voleva giocare con noi doveva starci, altrimenti non era considerato un giocatore del nostro livello.

Quell’Inverno alcuni amici del Secco affittarono uno scantinato per andare a ballare i sabati sera. Ognuno portò qualche “ricordino” per abbellire le pareti; fu rimediato un vecchio giradischi, dischi, panche e cuscini. I soci pagavano una certa somma mensile per l’affitto; accettavamo ospiti solo se portavano donne o qualcosa da bere.

Una domenica, mentre pranzavo con i miei, venne su Gabriele, con un cappottone abbottonato fino al collo. Chiesi il permesso di alzarmi e lo feci entrare in camera mia. Mia madre si offrì di appendere il cappotto, ma Gabriele si schermì... “Grazie, ma sono solo venuto a chiedere una spiegazione, non voglio disturbare...”

Appena soli mi chiese se poteva lasciare fino a sabato un “senso unico”. Non avevo capito. Fu allora che Gabriele si sbottonò il cappotto e mi fece vedere un segnale stradale con la scritta “senso unico”, che lo irrigidiva dai ginocchi al collo. “è per il club” , spiegò.

Mio padre entrò in camera per invitarlo a restare con noi a pranzo. Gabriele chiuse rapidamente il cappotto e si scusò, uscendo. Il “senso unico” fu piazzato sul corridoio che dava al gabinetto del club, sulla cui porta trionfava un “posteggio”.

 

Una mattina piovosa andando a scuola trovammo un gattino abbandonato, che cercava di ripararsi in un portone. Lo infilammo in un cappotto e lo contrabbandammo in classe. Il gattino si appisolò vicino al termosifone e non fu notato da nessuno per un paio d’ore. Ma anche i gattini mangiano e lui incominciò a miagolare debolmente. Remo gli allungò un pezzo di cornetto sottratto ad Emma. il micio non sembrò gradire. Ernesto si impadronì con destrezza di un panino col salame (sottratto ad un’alta ragazza, ovviamente) e ne passò un po’ a Remo. Il resto se lo mangiò lui. Il gatto sembrò maggiormente interssato: leccò coscenziosamente il salame, il panino, il dito e, poi addentò con soddisfazione quest’ultimo. Remo urlò di dolore ed il micio, impaurito più di lui, saltò dalle gambe e scappò in direzione della porta... in quel momento entrò... Berta. Il gatto le sgusciò tra i piedi e si dette alla fuga. Berta per poco non ci rimase. Si sedette in silenzio, scrisse una nota sul registro di classe, aprì quello personale ed incominciò ad interrogare a casaccio.

Dopo il quinto impreparato quasi scoppiò in lacrime ed uscì in direzione della presidenza.

Il preside era un tipo alto, occhialuto, con i capelli allisciati con la crema, e sordo come una campana. In onore del famoso personaggio dantesco era chiamato il Sordello. Mugugnava sempre frasi incomprensibili ed ascoltava con una mano sull’orecchio sinistro. Nel destro aveva un apparecchio, che non smbrava molto efficiente. Camminava, zoppicando per una recente frattura e procedendo dondolava a destra ed a sinistra.

Il Sordello entrò con Berta ed il silenzio piombò in classe. Berta cominciò a raccontare la storia del gatto, protestò contro la continua disattenzione, “Salvo poche eccezioni –vero-...”, il basso livello dell’intero corso e specie della nostra classe, l’assoluta mancanza di disciplina, eccetra eccetra...

Il Sordello ci chiese se “Mmm-mmm avevamo mmm-mmm spiegazioni mmm-mmm da dare mm-mm-mm”. Nino fu abbastanta sfrontato da rispondere che le lezioni erano noiose, lunghe e che il sistema didattico era decrepito. Il mugolio del Sordello continuò per un buon quarto d’ora: “Mmm, mmm” e “Mmm”. Il gattino ritrovò la strada di casa e si affacciò alla porta. Sordello si rivelò anche miope, prché continuò a mugugnare. Perfino le ragazze più disciplinate si sforzavano di rimanere serie. Ernesto aveva le lacrime agli occhi e Pepe fece un movimento col piede per scacciare il micio. Quello, credendo che Pepe volese giocare, si mise ad acchiappare le sue scarpe.

Sordello sembrava molto scocciato di non essere preso sul serio, nel bel mezzo di un discorso sulla disciplina, ma non capiva cosa ci fosse da ridere. Il micio scappò di nuovo ed il Sordello ritornò nel suo buco.

Alcuni giorni dopo le finestre a vetri della classe furono dipinti di vernice verde opaco, per non darci la possibilità di distrarci, guardando fuori. La classe era molto cupa. Spedimmo una commissione di alunni per far abolire questo nuovo provvedimento. Non ci fu nulla da fare. Nottetempo i soliti ignoti spaccarono a sassate il vetro della finestra accanto al banco di Nino. La polizia fu invitata ad indagare e giunse alla conclusione che “ignoti avevano compiuto un atto di vandalismo, l’indagine prosegue, per consegnare alla giustizia i responsabili”.

La maggior parte delle scuole della città erano in sciopero per protestare contro il sistema didattico. Noi pensammo bene di fare uno sciopero personale: rifiutammo di entrare in classe, fino a che i vetri non fossero stati riparati. La ragione: era Inverno ed il freddo entrava dal buco della finestra spaccata. Per due giorni arrivavamo puntualmente a scuola, spedivamo un paio di rappresentanti a parlare col Sordello, che ci assicurava che la richiesta di riparazione era stata inoltrata. Verso le dieci andavamo al buco e poi ognuno per i fatti suoi.

Due giorni dopo ripararono i vetri ed entrammo in classe, nostro malgrado....

 

 

 

Filosofi

 

Pasqualino era senza dubbio un esemplare più unico che raro nel variopinto zoo del nostro liceo. Non che mancassero gli strani animali, specie tra il corpo insegnante, ma almeno tra noi alunni, di persone simili a lui non ce n’erano altre.

Era il figlio minore dei suoi genitori, nato diversi anni dopo il fratello più grande, e probabilmente fu questa la ragione per cui gli fu messo il nome di battesimo Pasqualino che, appena entrò a far parte della classe, fu cambiato immediatamente nel soprannome “Pasqualone”, visto che era il più anziano d’età: era nato ’49, due anni prima della della maggior parte di noi.

Pasqualone era piuttosto basso di statura (non come Enzo, ben s’intende) e ricoperto di capelli ricci letteralmente dalla testa ai piedi. Si radeva ogni mattina, ma già a mezzogiorno aveva una barba ispida e nera, come se non si fosse raso da due giorni. La seconda materia scolastica in cui eccelleva sopra tutti era l’Educazione Fisica. Ai tempi del primo liceo già si cimentava nelle riunioni regionali di atletica leggera e correva i 100 metri piani attorno agli 11 secondi netti.

Pasqualone arrivava a scuola in treno, da un quartiere distante una quindicina di chilometri. Presumo che si svegliasse molto presto la mattina, perché era sempre il primo ad arrivare, spesso e volentieri anche un’ora prima dell’inizio delle lezioni. A differenza della maggior parte degli alunni, che a quei tempi andavano a scuola portando i libri legati con una cintura elastica, Pasqualone si presentava regolarmente trascinandosi appresso un’enorme valigetta di pelle nera. Cosa ci fosse dentro, a parte i libri di scuola, era un mistero, perché amava aprirla e richiuderla con un gesto veloce, degno dei suoi risultati di atletica. Probabilmente il contenuto era variabile, a seconda delle occasioni.

Pasqualone era, con Giacomo, il ragazzo più maturo della classe. Dava la sensazione a volte di non essere mai stato bambino, ma forse la sensazione era dovuta alla differenza di età, che tra i sedici e i diciotto è molto pronunciata. Se Giacomo era l’indiscussa autorità nel campo delle Lettere Classiche, Pasqualone era senza ombra di dubbio il “Filosofo” per eccellenza.  Non solo filosofo, ma, per precisare, Marxista-Leninista. E prendeva la lotta del proletariato con la massima serietà. Mentre noi, durante le pallosissime lezioni di Berta giocavamo a “pallette e quadratini” o ci dedicavamo all’ameno tirassegno di chicchi di riso sulla testa di Genoeffa, Pasqualone apriva “il Capitale” di Carlo Marx od un libro di Marcuse e se lo leggeva avidamente.

Per non essere disturbato nei suoi studi sedeva all’ultimo banco, a volte con Giacomo, a volte con un altro.

Col passare del tempo Pasqualone cominciò ad odiare Berta, come noi tutti, ma in maniera del tutto sua particolare. Innanzi tutto va ricordato che da sempre si era ostinato a dare del tu a tutti i membri del corpo insegnante, preside compreso. A quelli che facevano obiezioni spiegava, con ferratissima logica oratoria, che dare del tu faceva parte della sua ideologia politica. Dati i tempi che correvano (si era nel 1968), la maggior parte dei professori ci fece presto l’abitudine, meno naturalmente Berta, che non gli scusò mai quella mancaza di rispetto “Inconcepibile! Ai miei tempi – vero –  mammaitantavolgarità!”. Quest’odio ideologico reciproco raggiunse il suo climax in secondo, sotto carnevale, quando Pasqualone, buttato fuori dalla classe, probabilmente a causa della sua disattenzione, uscì in compagnia della sua enorme borsa. Una volta nel corridoio, estrasse dalla stessa una cappa nera lunga fino ai piedi, denti fasulli da Vampiro, una bottiglia di vino rosso ed un calice e fece... il suo ingresso trionfale in classe, declamando in direzione di Berta un “Alla tua salute!” o qualcosa di simile e di meno ossequioso. Credo che quella volta Pasqualone rischiò molto da vicino la sospensione.

 

Alla fine degli anni sessanta, nell’ambito dei giovani, non esisteva il Centro Politico. O eri di Sinistra, o eri di Destra. Ancora meglio se di estrema Sinistra o Destra. Per noi liceali questa presa di posizione era più che altro l’emulazione dei fratelli maggiori, già universitari. Verso la fine del nostro Primo Liceo, a Parigi ci fu il Maggio Francese ed all’inizio del Terzo, in Italia si era in pieno Autunno Caldo.

La “Grande Lotta” contro Berta va vista, quindi, un po’ anche alla luce di questo sottofondo politico, anche se probabilmente, per quasi tutti noi, era più che altro solo una scusa per fare casino.

I nostri insegnanti erano non meno politicizzati, anche se i doveri didattici impedivano loro di esprimere le opinioni in forma troppo esplicita. Questa legge però non funzionava per gli insegnanti di Storia e Filosofia. Quando spieghi le orazioni di Cicerone è un po’ difficile farci entrare la Lotta del Proletariato, ma se la lezione si aggira sui Tribuni della Plebe, sulla Polis greca o sulle Crociate, non è molto difficile fare un’allusione a Carlo Marx od al Ventennio Fascista. In Filosofia era sufficiente citare qualche pezzo di Platone per parlare di Comunismo, e l’altra materia era più precisamente definita “Storia ed Edicazione Civica”, quindi bastava fare una piccola aggiunta al primo articolo della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro... degli altri”. Se, poi eri dall’altra parte della mappa politica, bastava l’Inno di Mameli: “... Dov’è la Vittoria... , ché schiava di Roma...” ecc. ecc..

 

All’inizio del Primo non avemmo un insegnate di Storia e Filosofia fisso. La prima supplente stette con noi solo per pochi mesi. Era una donnona sulla trentina, alta e ben piazzata. Parlava con uno spiccato accento Romagnolo, strascicando tutte le esse. La sua frase preferita era “Sssciuulla pelle degli altri...”. Non mi ricordo più in che contesto usasse dirla. Alla sua mastodontica mole naturale andavano aggiunti anche dei lunghi capelli allisssciati e ssscioppasssciosi, come paglia, ed un paio di sssctivali dal tacco a ssscpillo, alti fino al ginocchio ed allacciati sssctretti sssctretti con dei lacci passanti per una ssscinquantina di asole. Presumo che per calzare quegli stivali (color celestino, come i vestiti che usava indossare) si doveva alzare alle cinque di mattina. Data la spiccata somiglinza con la compagna di Gambadilegno, fu subito soprannominata Trudy.

Trudy era di spiccate tendenze Fasciste, e non mancava di esprimere ad ogni occasione la sua ammirazione e la sua nostalgia per il Duce e per il Ventennio. Spesso e volentieri la classe (con maggioranza di Sinistra) faceva con lei delle discussioni politiche che, ad onore della buona educazione di quei tempi, non sfociarono mai nei toni alti.

Le tendenze politiche di Trudy sembrarono ancora più accentuate in seguito, quando fu sostituita da un prete Gesuita (o Dominicano, non ricordo) sulla cinquantina. Veniva a scuola in giacca e pantaloni neri, (a differenza del Don Pulci di Religione, che vestiva regolarmente l’Abito). Se non fosse stato per il colletto, si sarebbe facilmente scambiato per un laico. Questo prete, di cui non ricordo il nome, era sicuramente una persona istruitissima e molto attenta alle sue espressioni verbali: riferendosi a Benito Mussolini, usava chiamarlo “La Buonanima”, con un sorriso malcelato. In diretta antitesi alla precedente posizione politica di Trudy.

 

Nel nostro corso c’era un altro professore di Storia e Filosofia, che venne ad insegnare definitivamente anche la nostra classe solo più avanti. Efisio Cau, un Sardo, come si capisce dal nome. Aveva già passato la cinquantina ed aveva i capelli brizzolati ed un pizzetto i cui peli crescevano a stento tra le cicatrici di una faccia terribilmente butterata. Questa sua sua apparenza fisica determinò il soprannome di Sartana (il brutto di certi films spaghetti-western).

Sartana era un Comunista vecchio stampo. Sembrava proprio uno dei Padri della Rivoluzione d’Ottobre. Cicatrici a parte, assomigliava molto (anche fisicamente) a Lenin. Sartana aveva idee pedagogiche molto liberali. Fu il primo che permise, o addirittura promosse, il cambiamento della disposizione dei banchi in classe. Invece delle classiche file messe di rimpetto alla cattedra, dalla quale gli insegnanti davano le loro lezioni frontali, nelle sue lezioni spostavamo il tutto, fino a ricavare una disposizione a forma di U, in mezzo alla quale Sartana amava inculcarci le sue materie girovagando qua e là nello spiazzo, a contatto diretto con tutti. La sua posa preferita era il sollevamento parziale di un braccio con la mano aperta, a dita distese, mignolo a parte, che rimaneva piegato in giù (credo per una forma di paralisi). Ogni tanto questa mano si abbatteva con “forza delicata” sulle spalle di qualcuno, per richiamare l’attenzione con un energico pizzicotto. Con lui avevamo la bellissima sensazione di partecipare ad un seminario o ad una tavola rotonda. Insomma ci sentivamo adulti, maturi e soprattutto attuatori di fatto di quel capovolgimento di idee sulle decrepite e draconiane regole scolastiche. Nel nostro piccolo, sotto la guida di Sartana, anche noi abbiamo dato il nostro piccolo contributo alla “Rivoluzione Studentesca”. In tutte le scuole, da che mondo e mondo è vietato fumare. Gli insegnanti erano tenuti a punire severamente gli alunni “beccati” nella “zona fumatori”, cioè vicino ai gabinetti. Sartana, anche lui un fumatore, a un certo punto permise di farlo addirittura in classe. Era un’altra forma del comportamento rivoluzionario di quei tempi, decisamente particolari, della fine degli anni ’60. La cosa però fu interrotta a metà del terzo quando Sartana si accorse che il nostro profitto nelle sue materie, in vista degli imminenti Esami di Maturità, era diventato scarsissimo. Probabilmente aveva ricevuto un cicchetto dal preside, che fino a quel momento aveva chiuso un occhio. Sartana ci fece un sermone sulle nostre responsabilità. Mi ricordo che tra l’altro disse, con quella sua voce baritonale dalle o tutte chiuse dell’accento sardo: “Ma no, Ernesto, ma no! ... E io passo la cicca a te, e tu passi la cicca a lei. Ma no, Giovanni, ma no! Voi siete i migliori della scuola, voi siete intelligenti, maturi, ma capite! Non si può andare avanti così...”. Ascoltammo il sermone in silenzio. Sartana aveva tremendamente ragione. Ci eramavo fatti prendere la mano un po’ troppo, trascurando i nostri doveri, ma forse se lo sarebbe dovuto aspettare. Si sa che in tutte le rivoluzioni, i continuatori dell’opera dei “padri” ad un certo punto mettono questi da  parte e continuano la strada in direzione diversa dalle linee ideologiche iniziali. A noi interessava, in fondo, solo divertirci il più possibile, e passare quegli anni frizzanti senza pensare troppo al futuro. Una cosa è certa: siamo riusciti nel nostro intento.

 

 

Un po’ di sottofondo storico (ovverosia: da dove siamo arrivati...)

 

Il Classico, va detto, era stato per molti anni addietro una scuola di élite, ma alla fine degli anni sessanta, proprio mentre lo frequentammo noi, perse completamente la sua posizione di prestigio. Alcuni anni prima, con l’avvento del Cento-Sinistra e la salita dei Socialisti al governo era stata fatta la riforma didattica, che poi si rivelò un totale fallimento. Fino al ’63 la scuola media inferiore era divisa in due: Le Medie vere e proprie e Le Professionali/Magistrali. Nelle Medie si studiava il Latino, e l’indirizzo era preminentemente letterario. Andavano alle Medie i rampolli della borghesia, quelli che, per intenderci, sarebbero andati poi al Liceo (Classico o Scientifico) e di lì all’Università. Alle Professionali si studiavano, invece, i rudimenti di professioni come Elettricista, Geometra, Ragioniere, Segretaria d’Azienda o Maestra Elementare. Le Professionali erano considerate le sorelle povere delle Medie, ed erano frequentate dai rampolli del Popolino Proletario o... dai più solenni somari che non riuscivano ad arrancare alle Medie. Insomma nel Sistema della Pubblica Istruzione c’era una divisione elittistica, remora dei tempi andati, che era considerata dalle Sinistre Politiche una sacrosanta ingiustizia sociale. Con la salita dei Socialisti si decise che, a partire dall’anno scolastico ’63-’64,  fosse istituita la Scuola Media Unificata, dalla quale venne abolito lo studio obbligatorio del Latino (tranne a lasciarlo facoltativo a partire dalla seconda, per chi volesse andare al Liceo Classico) e con l’aggiunta di uno studio più serio delle lingue vive (Inglese e Francese) a discapito delle lingue morte. La riforma decretò, insomma la fine dell’elittismo “borghese” sul “proletariato” ed un indirizzo meno filosofico-letterario e più tecnico ed adatto ai tempi moderni.

La classe dei nati nel ’51 fu l’ultima a frequentare la Vecchia Scuola Media. Ciò significa che quando arrivammo al Quarto Ginnasio avevamo già tre anni di Latino alle spalle. Per quanto riguarda lo studio delle Lingue Moderne, meno della metà aveva fatto Francese, gli altri Inglese. Comunque al Classico le Ligue Moderne si studiavano solo al Ginnasio. A partire dal Primo Liceo il Greco, il Latino, la Storia dell’Arte e la Filosofia non lasciavano posto a quelle amenità, e questo spiega il perché gli Italiani al di sopra della cinquantina non sanno l’Inglese. Sarebbe più giusto dire che gli ‘Italiani che contano – sopra i cinquanta’  (cioè quelli provenienti dal Classico) l’Inglese non l’hanno mai studiato.

 

Parecchi genitori della media borghesia, abituati ancora a considerare il Classico “La Scuola per Eccellenza”, furono parecchio preoccupati di questo cambiamento e, chi poté, fece saltare un anno ai rampolli, per aggregarli anzitempo alla Vecchia Scuola Media, in vista del Classico. Nel caso più prosaico della nostra classe, avvenne che diversi ragazzi (Sergio, Pepe, Gabriele, Paolo e Armando) fossero della classe ’52, più giovani di un anno della media.

Nel sistema didattico di quei tempi, poi, chi non riusciva a superare le difficoltà degli studi, non passava ad un istituto professionale, ma veniva bocciato e ripeteva l’anno. La cosa poteva accadere anche alle medie inferiori, ma nel caso nostro avvenne soprattutto al Ginnasio, a causa della Zona. Fatto sta che in Primo Liceo lo scarto di età variava di tre anni, da Pasqualone (nato nella Primavera del ’49) ad Armando (Primavera del ’52).

 

La Zona era “La Professoressa” con la “P” maiuscola del Ginnasio. Fu lei che determinò la composizione ed il carattere della nostra classe. Sarebbe meglio dire che fu lei ad attuare quella “selezione” che ridusse il numero delle ragazze rispetto a quello dei ragazzi, e cristallizzò quella che fu senza dubbio “La classe più casinara della storia dell’Istituto”. Con la Zona eravamo stati sotto pressione, specie disciplinare. Quando arrivammo al Primo Liceo, la pressione esplose (in faccia a Berta, purtoppo per lei, che non se lo sarebbe – vero-  mai aspettato –vero-).

 

Al nostro arrivo dalle Medie, la Zona era già una leggenda. Donna d’acciaio. Di  media statura, sulla cinquantina, aveva il segno di una cicatrice da labbro leporino che le deturpava il labbro superiore, conferendole un aspetto leonino. Non alzava mai la voce. Sapeva farsi rispettare senza averne il bisogno: bastava che ti guardasse un attimo dritto negli occhi per farti smettere immediatamente qualunque fesseria stessi facendo in quel momento. Sia detto ben chiaro, con lei si rigava dritto e si studiava non solo per paura, ma perché era un’insegnante preparatissima. Basta pensare che riuscì a far piacere anche a Dario, che con le lettere non aveva la minima confidenza, quell’immane mattone della Letteratura Romantica Italiana, che sono “I Promessi Sposi”.

La Zona era una di quelle che credeva nella missione di insegnante. Quella sua, in particolare era di “selezionare” i ragazzi e le ragazze provenienti dalle Medie e di portarli a farsi onore nel Liceo Classico “di una volta”. La Zona si dedicava alla sua missione con la massima coscenza: ogni due anni prendeva un Quarto Ginnasio nuovo  e ne bocciava, anzi “trombava”, come si diceva allora, un terzo della classe, tutti quelli che lei riteneva “non maturi” a sufficienza per continuare al Liceo. Intendiamoci: “Maturi” per la Zona non significava necessariamente “intelligenti” o “secchioni”. Come poi riuscisse nell’arte di distinguere le future capacità dei quattordicenni era un mistero simile all’arte dei Giapponesi di distinguere il sesso dei pulcini. A rigor di logica, essendo stata l’insegnante di Lettere della classe dell’anno precedente, non sarebbe dovuta toccare a noi, ma a quelli di un anno sotto di noi, ma il caso volle che la Zona, disgustata dalla Riforma Didattica, decise improvvisamente di non continuare ulteriormente la sua missione coi i ragazzi provenienti dalla Media Unificata, ed invece di “prendere sotto la sua egida” in Quinto proprio la nostra classe, per portarla agli esami di Ammissione al Liceo, con gran rammarico del Dardo e di altri due compagni che, “trombati” dalla Zona in quarto, se la ritrovarono, loro malgrado, due anni dopo, in Quinto. La Zona aveva le sue teorie, una delle quali era che le ragazze erano “intrinsecamente” più immature dei ragazzi. Il risultato fu che ai nostri esami di Quinto fece un’ecatombe specie del sesso debole, ma non solo: Paolo, della classe ’52, che aveva saltato un anno ed era stato il migliore della sua classe agli esami di Terza Media, fu solennemente bocciato come “immaturo” in Quinto, cosa che non gli impedì, poi, di farsi onore alla maturità, con un anno di ritardo.

C’è chi sostenne che la Zona facesse delle preferenze ingiustificate ed avesse le sue simpatie. Una di queste presunte simpatie era il Dario. Decisamente portato per le Scienze, era arrivato al Classico per sbaglio, anzi per “prigionia coatta”, cioè per imposizione paterna (il padre era un altro di quelli che al Classico elittistico dei vecchi tempi ci credeva ancora). Il Dario  era completamente negato per le Lingue, sia morte che vive, specialmente per l’Inglese.  Fu ammesso agli Esami di Quinto per il rotto della cuffia, con quattro insufficienze: Italiano, Latino, Greco e, naturalmente, Inglese. Non si sa come ebbe un colpo di fortuna agli scritti e si destreggiò sufficientemente agli orali, tranne in Inglese, dove fece semplicemente “scena muta”. Fu così, ingiustamente, promosso a Giugno, per voto di Consiglio. Si disse perché era il “coccolino” della Zona. Se c’è stato del vero, certamente la Zona fece tutto di testa sua, come al solito, d’altronde. Questa immane ingiustizia fece andare in bestia non pochi compagni, presenti agli Orali, specie Paolo che, rimandato a Settembre, si ripromise di pestarlo ben bene “per dargli una lezione”. Al Dario  fu consigliato da alcuni compagni di stare alla larga da Paolo, almeno per quell’Estate. Paolo poi fece pace in primo, quando entrambi parteciparono attivamente alla lotta contro Berta, Dario  aiutò un po’ tutti in Chimica ed, alla fine dell’anno, fu rimandato in Italiano e Greco (gli abbonarono il Latino). A dir la verità c’era una piccola nicchia letteraria in cui il Dario  eccelleva: lo scrivere in versi. Un difetto che non gli è ancora passato. In Quinto Ginnasio aveva scritto un’ode sulla forma del naso dei suoi compagni, in Primo aveva vinto la gara di “poesia” con una serie di sonetti romaneschi contro la burocrazia scolastica, che fecero sbellicare di risa compagni e professori e, finalmente in Secondo, per vendicarsi di essere stato rimandato in Italiano, compose una lunghissima parodia dell’Inferno Dantesco, mettendo tutti i compagni e professori nel loro girone. Ogni tanto leggeva in classe le ultime terzine Dantesche create, mentre ognuno aspettava il suo turno ed il suo girone. Quest’opera sublime andò, sfortunatamente, perduta quando alla fine del Secondo (facendo un’altra delle sue regolari coglionate) “prestò” l’unica copia esistente al Sartana, che, naturalmente non gliela restituì mai più.

Eh sì, perché il Dario  era fatto così: viveva in un mondo scientifico-intellettuale tutto suo, uscendosene spesso di fronte ai compagni ed ai professori con elucubrazioni filosofeggianti ed incomprensibili, non solo per i compagni, ma spesso e volentieri, per lui stesso. Ad ogni sua “uscita” veniva “severamente ammonito” da Giacomo  con un solenne:  “Cheppalle!”. Qualche volta la smetteva subito, qualche volta no, nel qual caso si beccava un “CHEPPAAAAAALLE!!!!” da tutta la classe in coro. E fu così che il suo soprannome rimase “Cheppaalle  !”....

 

Il Dario  non è stato l’unico a comporre opere in versi sulla scuola. Questa capacità fu, infatti, condivisa con altri tre o quattro ragazzi del corso. Ovviamente fu espressa soprattutto in forma di graffiti sconci, scritti sulla porta interna del gabinetto (dei ragazzi). Questa volta dobbiamo ringraziare il falegname che ha costruito la carpenteria dell’istituto: appena un ignoto fece il primo tentativo di lasciare un ricordo delle sue azioni in quel luogo recondito, scrivendo a penna biro il classico verso: “In questo luogo ameno e giulivo/ho fatto uno [censura] che pesa un kilo”, fu subito chiaro che la vernice color verde acqua non impediva affatto, anzi aiutava, a tenere l’inchiostro (di solito in quei luoghi ameni si usava mettere una pittura ad olio, che costringeva a grattare la penna profondamente nel legno). La risposta al versetto fu immediata. Senza scendere in particolari, dirò che il peso aumentò in serie esponenziale, finché qualcuno decise di ammonire l’esagerato. Così l’ode prese la piega di un battibbecco in versi a cui si unì più tardi, ovviamente, anche il Dario.

Contemporaneamente a queste elucubrazioni di carattere matematico-chimicho in versi, scritte in ben ordine in colonna sulla sinistra della porta, sulla colonna di destra ignoti presero a compilare il “Bignami” di Storia della Filosofia: un memorandum sulle verità assolute enunciate dai filosofi greci. Il distico d’apertura non potè essere se non il famosissimo: “Lo disse un giorno Socrate, lo confermò Santippe/È  meglio una [censura] di centomila [censura]”. Seguì un riassunto dei Presocratici, non meno famoso: “Lo disse Anassimandro, lo confermò Zenone/La forma della Terra è simile a un [censura]”. Gli altri filosofi seguirono a ruota, fino ad aggirare la maniglia e continuare più sotto. In pochi mesi, insomma, la porta interna del cesso fu letteralmente sfruttata da cima a fondo. In caso di “bisogno” ci si poteva comodamente sedere e leggere per una mezz’oretta quelle amenità letterarie, scritte in stampatello su quattro colonne ordinate. L’amena lettura, purtroppo, fu censurata ad un certo punto dal preside che, dovendo urgentemente esplicare i suoi bisogni fisiologici, dopo aver fatto il suo solito cicchetto settimanale in classe nostra, entrò inpunemente nei gabinetti degli alunni, invece che in quello dei professori, e scoprì l’opera letteraria. Il giorno dopo il bidello verniciò a nuovo la porta, con una vernice ad olio super-resistente, sulla quale fu impossibile scrivere i graffiti, senza rompere le penne. Peccato...

 

Ritornando a bomba, cioè a Berta, va menzionato che le capacità di “verseggiatore” del Dario  gli procurarono dei problemi anche con lei. Berta, infatti, tra le tante fissazioni, aveva anche quella di essere fermamente convinta di saper leggere la metrica latina meglio di qualunque altro essere umano. Quando incominciammo a “studiare” (si fa per dire) l’Eneide di Virgilio, infatti, ci toccò di sorbirci il quotidiano quarto d’ora di lettura in metrica di Berta. Ligi al detto di “non svegliare il Nino che dorme” la lasciavamo fare, concedendole qualche minuto di narcisistico autocompiacimento nel recitarci, anzi nel recitarsi, quegli esametri epici. Insomma, l’ora di lettura era anche l’ora della tregua. L’esametro epico, va ricordato, è un verso estremamente monotono, (la miglior ninna-nanna per Nino) che suona, nel novantanove per cento dei casi così:

 

Pà-parapà-parapà’- [piccola interruzione] – parapà-parapà-parapàppa

 

Molto raramente, però, il verso fa eccezione e si recita facendo due piccole interruzioni, invece di una sola.

Fatto sta che una volta successe che Berta si incagliasse su uno di questi rari esametri fuori del comune. Dopo il quinto inutile tentativo di venirne a capo, Berta, tutta rossa di vergogna, alzò gli occhi nervosamente sopra gli occhiali a mezzaluna, in cerca dell’ispirazione. Fu allora che il Dario  fece il più grosso errore della sua carriera scolastica: alzando umilmente la mano per prendere la parola “osò” correggere Berta, recitando il fatidico verso nella maniera giusta (cosa volete farci, il Dario  aveva la metrica nel sangue). Berta non glielo perdonò mai. Da allora in poi, ogni volta che le capitò di recitare qualche pezzo, alla fine alzava un’occhiata severa in direzione del poveretto e chiedeva con sarcastica soddisfazione “Ealora – vero - , Dario  – vero – ho letto bene questa volta? – vero – Mi promuovi – vero?”. Non è da escludere che Berta si fosse legata al dito il fatto di essere stata “pizzicata” nel Sancta Sanctorum delle sue lezioni di Latino. Comunque questa non fu la causa per cui, alla fine dell’anno il Dario  avrebbe dovuto essere rimandato nelle sue materie. A parte la capacità di leggere la metrica, infatti tra il Dario  ed il Latino-e-Greco non c’era la minima simpatia reciproca.

 

Dotti, Dottori e... figli

 

I pochissimi, e giustamente esigenti, lettori di questa storia (per dirla alla Manzoni) vorranno ora perdonare l’umile cantastorie della stessa, se egli si vede costretto, suo malgrado, a fare un piccolo excursus di carattere veramente... preistorico. Si spera che ciò possa aiutare ad inquadrare meglio alcuni componenti della nostra classe. Se, poi, il cantastorie dovesse aver fallato nel suo giudizio, al rigoroso lettore resta sempre il diritto di replicare con il sonoro “CHEPPAAALLE” d’uopo.

 

Il nostro quartiere in riva al mare fu fondato agli inizi del secolo ventesimo in una zona di bonifica, per permettere alla Borghesia cittadina di allora di andare a “fare i bagni” nella stagione estiva. Per quasi mezzo secolo la popolazione stabile si aggirò su non più di ventimila anime (in inverno), per quintuplicarsi temporaneamente nei mesi di Luglio-Agosto, con il sopraggiungere dell’invasione dei bagnanti, buona parte dei quali avevano una “casa per le vacanze” di proprietà o da dare in affitto. Le cose cambiarono drasticamente agli inizi degli anni ’60, con la costruzione del nuovo Aereoporto Internazionale, distante una decina di chilometri. Essendo il nostro quartiere ormai popolato in buona parte dalla piccola e media borghesia, fu preso d’assalto dai nuovi venuti, ed in capo a quattro-cinque anni la popolazione stabile triplicò o quadruplicò. Questo succedeva più o meno quando la classe ’51 finiva le Elementari. In origine il quartiere si estendeva per due o tre chilometri in lunghezza in riva al mare, su cinque o sei file di case, raggiungendo in profondità non più di mezzo chilometro. La Via del mare, proveniente dalla città, lo tagliava in due parti, orientale ed occidentale. Ancora alla fine degli anni cinquanta la maggior parte della popolazione medio-borghese era concentrata nella zona est, tra il mare e la ferrovia, che ne era il confine naturale settentrionale, mentre la zona ovest, con spiagge meno curate ed attraenti, era occupata da una popolazione meno abbiente. Ai suoi confini estremi c’era una zona di case abusive, costruite al di fuori del Piano Regolatore e popolata di manovali, braccianti e dai cosiddetti “Sardegnoli”.  Quando la nostra classe incominciò a frequentare le Medie Inferiori, dunque, la maggior parte di noi faceva parte di famiglie di nuovi immigrati. Pochi erano quelli nati nel quartiere: solo Emma, il Dario, Sergio “il Secco” e forse Giovanni. Va ricordato che il nucleo originale degli “indigeni” era formato dai discendenti degli operai che avevano fatto la bonifica agli inizi del secolo. Questi pionieri erano tutti originari delle Romagne. Alcune remore di quei tempi lontani dei nostri bisnonni si possono trovare ancora in certi nomi come “Via dei Ravennati”, “Piazza Romagna” e “Via delle paludi rosse”, nonché dal Canale della Pescaia, che segnava l’estremo confine orientale del quartiere. Tra le due guerre alcuni pionieri si guadagnarono una certa posizione sociale, pur senza dimenticare, almeno ideologicamente, le loro origini proletarie. Una di queste “vecchie famiglie” era quella di Sergio “il Secco”. La nonna, la sóra Giulietta, era la proprietaria dell’unica merceria ben avviata del quartiere. Mandò il figlio a studiare Medicina. Il Dr. D., padre di Sergio, era uno dei tre medici di famiglia del quartiere. Data la posizione sociale, stava molto bene economicamente, ma era di idee Socialiste. Non Comuniste, sia ben chiaro, Socialiste. Agli inizi degli anni ’60 fu, anzi molto attivo nella politica locale, lottando per la costruzione di un ospedale che non fu mai fatto, se non negli anni settanta. Nel nostro quartiere (si badi bene con quasi duecentomila bagnanti nei mesi estivi), esisteva solo un attrezzatissimo Pronto Soccorso, alloggiato in un edificio completamente inadatto. Ci si deve levare il cappello a tutti i medici, paramedici ed infermiere che lo fecero andare avanti così bene per così tanti anni, con l’ospedale più vicino a trenta chilometri di distanza. Ritornando al nostro “Secco”, per lui la carriera era predestinata. Era ovvio che dopo le Medie ed il Classico, sarebbe andato a fare Medicina che, come tutti sanno, è una tara ereditaria. Sergio era un buon amico con tutti. Crebbe in una casa dove non gli mancava niente. Fece le più belle Feste della classe, ma fu educato a rispettare fin da piccolo i meno abbienti, e non si comportò mai da snob, benché fosse il più ricco della classe. Peccato che al secondo anno di Università se lo sia portato via un incidente stradale.

Sergio era sempre stato “il figlio del Dottore”. In classe nostra c’erano altri due “figli di”... Insegnanti, nella fattispecie. Eh sì, perché nel nostro “piccolo” quartiere l’élite borghese era formata anche da alcuni “pilastri” nel campo della Pubblica Istruzione. Uno di questi pilastri fu il padre di Maria, per tanti anni insegnante di Italiano e Latino della sezione B del nostro liceo, mentre Giovanni era figlio (materno) dell’insegnante della rinomata sezione E delle Medie Inferiori e figlio (paterno) del Prof V., indomito pilastro didattico della sezione A del nostro liceo (anche l’eterno vice-preside) e poi preside per molti anni, quando noi avevamo già finito gli studi. Che Giovanni sia diventato un insegnante di liceo non sorprende, visto la genetica familiare. Sorprende un po’ di più che Maria sia andata a studiare Medicina.

 

Come quei due figli di professori siano finiti in classe nostra è presto detto: nel nostro liceo c’erano tre sole sezioni. Una, la A aveva fatto Francese alle Medie. Le altre due, la B e la C, avevano fatto Inglese. In Quarto Ginnasio c’era anche una D (Inglese), che l’anno successivo, però, venne sciolta e divisa tra le altre due. Se non l’avete ancora capito, noi eravamo quelli della famosa, anzi Famigerata Sezione C. Quelli senza i “pilastri”, con insegnanti non stabili, spesso e volentieri supplenti o di seconda categoria. Eravamo, insomma, la bestia nera del Liceo. Perfino la lista dei nostri cognomi non cominciava dalla A, ma dalla G!

La povera Maria, proveniente dall’Inglese, non poteva essere messa certamente nella B, dove insegnava il padre, e Giovanni anche lui finì il più lontano possibile dalla A. Questa distanza più alfabetica che fisica dai “pilastri” non impedì certe dicerie di favoritismo nei confronti di Maria che, essendo un’ottima alunna (anche estremamente secchiona), si vide contestare dagli invidiosi gli ottimi voti. Per questa ragione, e perché la nostra scuola era ormai diventata un casino, si vide costretta a lasciare il nosto Liceo ed a terminare gli studi in una scuola più seria, conseguendo la Maturità con il massimo dei voti, come si meritava, senza essere tacciata di essere “Figlia di papà”. Per Giovanni le cose furono più facili. Essendo anche lui un rispettato casinaro ed un alunno buono, ma non eccezionale, non ci fu nessuno che osò tacciare il padre di nepotismo. Detto tra noi, non credo che, conoscendo tutti molto bene  il Vicepreside, Prof V.,  si sarebbe potuto trovare qualcuno tanto stupido da insinuare una simile bestialità. E lo dice uno che ha condiviso con Giovanni otto anni sui banchi (Medie e Liceo).

 

Oggi come oggi le persone “arrivate” sono quelle che si occupano di Informatica, Marketing ed Economia e Commercio Internazionali, ma ai nostri tempi (non esistevano ancora i Personal Computers) l’élite medio-borghese era ancora formata dalle classiche professioni liberali: Medici, Avvocati e Professori di Liceo. I ragazzi e le ragazze delle famiglie medio-borghesi erano ovviamente indirizzati alle professioni dei padri e delle madri. I genitori del proletariato intelligente e della piccola borghesia, per la maggior parte  arrivati dalle piccole cittadine della periferia, sognavano ancora per i loro rampolli quella Carriera Universitaria che era stata negata loro per ragioni di classe sociale: il loro sogno era quello di avere un figlio “Dottore” od “Avvocato” ed una figlia “Professoressa”. E ci mandarono al Classico, perché allora non poteva esistere un Medico che non sapesse di Latino, e nemmeno un Avvocato che non usasse regolarmente i temini “Sub Judice” e “Dura Lex, sed Lex”...  !!!

Non è stato, quindi, un caso, ma una questione di genetica sociale, se la maggior parte di noi siano diventati poi quello che i genitori avevano sognato prima. Dalla nostra classe sono usciti, infatti, quattro medici, almeno un avvocato (la cosa si dovrebbe controllare, ma purtroppo abbiamo perso i contatti con molti compagni) e diversi insegnanti di liceo. Comunque lo specifico indirizzo professionale divenne chiaro alla maggior parte di noi solo in vista della Maturità vera e propria, visto che prima eravamo troppo occupati a divertirci a scuola, da pensare seriamente al domani. Il destino futuro fu chiaro fin dall’inizio, solo a tre persone: il Dario  sarebbe andato a studiare Chimica, il Secco Medicina ed il Dardo a fare la Carriera Militare. Il Dardo era uno dei Veterani. Trombato dalla Zona in Quarto Ginnasio, era il figlio di un Brigadiere dei Carabinieri della stazione del quartiere. A quanto pare era cresciuto in un clima molto austero e militaresco, anche se, detto tra noi, osservato con gli occhi di un compagno di classe, era la cosa più lontana dal “Leader” di quanto ci si potesse immaginare. Secchione, si barcamenava alla bell’e meglio tra le ostiche e pallose materie scolastiche. Era anche piuttosto grassottello, e soffriva di una lieve balbuzie. Forse per questo difetto di pronuncia era anche piuttosto “imbranato” con le ragazze, tanto da beccarsi l’insinuazione di essere un po’..., come dicevamo allora: “Sicofante” (la spiegazione del termine segue tra un po’ ). Il Dardo però sorprese tutti: appena liberato dal guscio del Liceo, nel quale non si sentì mai a suo agio, andò all’Accademia Militare. Lo rivedemmo l’anno dopo, magro, senza la minima ombra di balbuzie,  sicuro di sé e sulla via di diventare un ufficiale di carriera. Finalmente rintracciato, ora sappiamo che è diventato un Alto Ufficiale.  “aT-TEnti!..., presentAT-ARM!!!”.

 

 

Un altro “Figlio di Carabiniere” era Ernesto “il Grasso”. Il padre di Ernesto era un Maresciallo Maggiore, il comandante della piccola stazione di ***, distante cinque chilometri da noi. Il Maresciallo P. Era una persona simpaticissima, la cui maggiore attività era probabilmente quella di occuparsi dei piccoli problemini quotidiani di un agglomerato di qualche migliaio di pacifiche persone, asserragliato attorno agli Scavi Archeologici, che si estendevano in superficie più del borgo stesso. Qualcosa di molto simile a Vittorio de Sica nel film “Pane, Amore e Fantasia”. Quando andavamo a visitare Ernesto in casa sua, cioè nella caserma, venivamo salutati militarmente dal Carabiniere di Guardia, cosa che ci faceva un po’ sorridere. La madre di Ernesto era una persona simpatica e silenziosa, che sicuramente amava molto il marito ed i tre figli maschi. Ernesto era il maggiore e gli altri due erano nati a... nove mesi di distanza, uno dopo l’altro. Ernesto, comunque, non ebbe mai la minima inclinazione per il militarismo, né fu spinto dai genitori, a differenza del Dardo, a seguire la carriera del padre.

 

Sicofanti ed hobbies minori

 

Constatato che di prendere gli studi liceali seriamente non se ne parlava nemmeno per idea, a scuola e dintorni occupavamo il nostro tempo nei vari hobbies dell’epoca e dell’età. I nostri hobbies pricipali erano, quello di “fare casino, tanto per farlo” e, naturalmente, l’interesesse per l’altro sesso. Tralascio momentaneamente l’argomento “Casino” che, come avrete ormai capito, pervade tutta la nostra storia. Per quanto riguarda i rapporti con l’altro sesso, come ho già scritto, tra le ragazze ed i ragazzi della nostra classe non ci sono stati romanzi veri e propri, tranne la breve eccezione di Sergio e Donatella, che in Primo stettero insieme per qualche settimana. Le ragazze “bone”, cioè Donatella, Rossella e... Rossellina, preferivano gli Universitari. “Giorgia” e Genoeffa (le racchie), sembravano indirizzate a diventare vecchie zitelle, e per Emma, che cadeva nel mezzo, si farà un discorso a parte.

Per quanto riguarda i ragazzi, in società quello che contava di più non era la bellezza fisica in se stessa, ma la dimostrazione di saperci fare con le donne, in genere di uno o due anni minori di età. La maggior parte di quelli che avevano la ragazza fissa, se la trovarono al di fuori della nostra scuola o mantennero la riservatezza: si sapeva che la ragazza c’era, ma la si vedeva di rado in giro. Fu certamente così per i due “più bei fichi riconosciuti” della classe, cioè Remo e Giacomo. Ma anche Dario, che era considerato altrimenti un imbranato, se la faceva in segreto con una ragazza della grande città. Altri ragazzi erano, invece, play-boys riconosciuti. Avevano molte ragazze, ma nulla di troppo serio. Quando la ragazza c’era veramente, nessuno mise il naso negli affari privati del prossimo. In certi casi, poi, non era consigliabile fare apprezzamenti sacastici sull’argomento, se non si cercavano grane. Questo discorso valeva principalmente per le ragazze di Nino.

Noi ragazzi amavamo moltissimo prendere in giro gli altri sulle loro performances amorose, vittoriose o meno, oppure inventate che fossero, come nel caso di Enzo il “Mandrillo” che, poveretto, era bersagliato quasi quotidianamente dai nostri sollazzi. Ma se lo meritava certamente. Alcuni soggetti della classe, come Armando e soprattutto il Dardo, erano stati amichevolmente bollati di tendenze, come dire... diverse. Nulla di vero, naturalmente, ma chi non dimostrava di saperci fare con le donne, era automaticamente catalogato dalla parte opposta, cioé in quella dei “Sicofanti”. 

L’origine di questa strana terminologia va ricercata in uno dei Dialoghi di Platone, il “Critone”, che avemmo la sfortuna di sorbirci a scuola: Berta tradusse il termine con la parola “delatori” e ne spiegò così il profondo significato: “L’Attica –vero- era una terra povera –vero- la cui unica ricchezza agricola erano – vero – gli alberi di Fico – vero -. Atene aveva messo una tassa sull’esporttazione di questi frutti – vero -. Per non pagare le tasse, i contadini del posto facevano – vero – contrabbando di fichi. Il Fisco Ateniese, quindi, mandava dei delatori, fare la ricerca ed a scoprire i contrabbandieri. Questi delatori – vero – erano, appunto, - vero – “quelli che andavano alla ricerca/scoprivano i fichi, cioè i Sicofanti”.

La definizione ci piacque così tanto –vero – che da allora in poi chi non ci sapeva fare con le donne divenne “uno che va in cerca dei fichi”, ovverosia un “Sicofante”.

 

Oltre agli hobbies principali non ci mancavano, però, anche hobbies minori, quali la politica e... le mostre. Prendendo come punto di riferimento l’anno scolastico ’68-’69, cioè quando noi eravamo l’ormai ben noto e “Famigerato II C”, La nostra classe era composta da membri di tutta la gamma politica. All’Estrema Sinistra c’era Pasqualone, il Maoista; seguivano due o tre ragazzi di Centro-Sinistra, alcuni “Democristiani” e i tre Fascisti di estrema Destra: Remo, Enzo “il Mandrillo” e Dardo. Gli altri erano “simpatizzanti” che non si sbilanciavano troppo apertamente: Giacomo era di tentenze vagamente Liberali e Maria si dava da fare nell’Azione Cattolica, ma a dire il vero le donne della classe non espressero mai un interesse per l’argomento Politica, che pure in quegli anni era così attuale. Pare che la maggior parte di loro seguisse vagamente quelle dell’uomo con cui stavano in quel momento (se ce n’avevano uno). Non vorrei eseere tacciato di misogenia, ma con le ragazze, si sa, noi ragazzi preferivamo parlare di tutt’altri argomenti...

Le altre classi della scuola, e della sezione in particolare, avevano idee politiche più cristallizzate: il III C, per esempio era di spiccate tendenze rivoluzionarie. Fu quello che portò avanti la ‘lotta di classe’ nel nostro liceo, almeno fin a quando noi gli prendemmo la mano con il casino “in sé e per sé”. Quelli del I C, invece erano una classe estremamente conservativa e secchiona, che non fece affatto onore al nome della sezione. Il V C, infine era di nuovo una classe rivoluzionaria, donne comprese, con le quali alcuni di noi avevano ottimi rapporti di amicizia. Noi ragazzi specialmente eravamo tenuti in palmo di mano dalle ragazze del V, e facevamo un po’ i galletti. Ci sarebbe molto da scrivere su Visca, la “Margutte” del V C, (anche la più rivoluzionaria), ma inutile perdersi a fare la storia di tutta la sezione. Meglio limitarsi alla nostra classe. Va ricordato che con la sezione B, di tendenze conservative, non avevamo molti rapporti, tranne le sfide a bigliardino (dove li suonavamo regolarmente). Con la A, poi, non c’erano rapporti affatto. Questo perché provenivano dalle classi di Francese e, quindi non c’erano tra noi ex-compagni di classe in comune. Anche quelli della A, credo, erano per la maggior parte bigotti e conformisti.

 

Conformisti, forse, ma qualche idea buona ce l’ebbero anche loro. Una di queste fu la “Mostra dell’Hobby”. Alcuni alunni delle altre due sezioni, con la collaborazione di alcuni membri del loro corpo insegnante e la benedizione del preside, un bel giorno indissero la prossima apertura di una mostra, nella quale tutti gli alunni dotati di tendenze artistiche furono invitati a presentare le loro opere: quadri, collages, statue ed opere poetiche. La mostra ebbe un successo strepitoso, grazie ai quadri ed alle sculture di alcuni alunni della B, che erano veramente dotati di capacità artistiche.  Le poesie, invece lasciavano piuttosto a desiderare. Erano per lo più brutte copie di certi autori romantici che ci sorbivamo nelle lezioni di Italiano. La nostra sezione decise all’inizio di boicottare la mostra, perché era stata organizzata dai “bigotti” della scuola, ma fu convinta proprio dal Sartana a parteciparvi: “Dimostrate a tutti che voi siete i migliori! Vi hanno lanciato una sfida. Fategliela vedere!”. Pasqualone ed il Dario  raccolsero il guanto.  

Un bel giorno la palestra, già ben allestita a mostra (tra quadri ad olio e poesie sulle pareti e sculture di terracotta sul linoleum), subì l’occupazione proletaria: Pasqualone vi trasferì una mezza dozzina di sculture moderne composte da enormi pezzi di rami e avanzi di falegnameria (il padre faceva il carpentiere in un ministero), completamente avvolti con nastro isolante multicolore. Queste sculture sembravano per lo più scheletri di animali martorizzati, ed esaltavano in netto contrasto con le fattezze Neoclassiche delle altre sculture. Erano brutte, ma certamente molto originali. Prima di allora nessuno si sarebbe minimamente aspettato che Pasqualone avesse qualche talento artistico. Delle sue sculture non aveva fatto mai parola con nessuno.

Il Dario  non fu di meno. Si mise di buzzo buono ed in pochi giorni produsse la classica “Pasquinata”. Una decina di sonetti satirici in perfetto dialetto romanesco, che mettevano in ridicolo le decrepite istituzioni scolastiche e sociali dei tempi. Uno spiegava l’inutile ingiustizia di dare i voti, un’altro invitava scherzosamente certi professori a  non vergognarsi di venire a fumare nei gabinetti degli alunni e un altro prendeva in giro i genitori troppo protettivi di certe ragazze. Il sonetto diceva che le ragazze di buona famiglia potevano farlo anche... di giorno, di nascosto dai padri severi. L’idea gli era venuta da Emma. Figlia unica di genitori più anziani della media, era piuttisto bassa di statura, ma niente male di fattezze. Aveva dei bellissimi capelli corvini, lunghi fino alla schiena. Insomma avrebbe potuto avere un certo potenziale, se non si fosse comportata in modo così scontroso nei riguardi dei ragazzi, guardandoli severamente dal didietro di due grossi occhialoni. Era un tipo troppo “quadrato” per i nostro gusti. Secchiona, matematica, di poche parole e soprattutto completamente priva di femminilità. Questo suo carattere era molto probabilmente solo una scorza esterna, causata dal comportamento super-protettivo dei genitori. Il padre l’accompagnava a scuola in macchina tutte le mattine e la veniva a prendere alla fine delle lezioni, per riportarla a casa, impedendole di unirsi all’allegra “fiumana” che si formava all’uscita dal liceo, che era la migliore occasione (insieme alle feste) per tutti  noi di “incominciare” con l’altro sesso.

Ad un certo punto, però, anche Emma fece la Rivoluzione: si mise le lenti a contatto ed un bel giorno fece una scenata al padre, venuto a prenderla a scuola. Da allora in poi si unì alla nosta fiumana, ma ormai lo stigma di “noli-me-tangere” ce l’aveva già, e fino alla fine del Liceo non glielo tolse più nessuno.  

 

Quando arrivò il giorno della premiazione della Mostra dell’Hobby, il Sartana aveva evidentemente fatto bene il suo ‘lavoro di corridoio’ con gli altri insegnanti, perché i giudici accettarono con filosofico umorismo i sonetti del Dario, assegnandogli il Premio Poesia. Il Premio Pittura vesse assegnato ad un alunno della B, mentre il Premio Scultura finì agli animali martoriati. E qui Pasqualone fece la sua Dimostrazione Ploretaria. Rifiutò di accettare la pergamena, contestando il riconoscimento ‘borghese’. Non solo, ma, imitando due atleti americani delle ultime olimpiadi, alzò il braccio sinistro, guantato di nero, a mo’ delle Pantere nere, mettendo in imbarazzo alunni, genitori ed insegnanti, Sartana compreso, che lo convinse poi ad accettare il premio, spiegandogli che “Ma no, Pasqualino, ma no! Hai dimostrato di essere il migliore, Va benissimo, ma queste scene non c’entrano niente con la lotta Proletaria!”. Il Sartana, laureato anche in Psicologia, sapeva che Pasqualone, anni dopo, avrebbe guardato con nostalgia quel pezzo di pergamena ritrovato nel cassetto, unico testimone dei bei tempi andati.

 

E parlando dei bei tempi andati, non si può se non ritornare a Berta che, ormai a sess’antanni passati, ai “tempi di una volta – vero -, quando c’era più rispetto” ci credeva veramente. E credeva veramente anche alla Medicina di un tempo. Benché la cosa non fu mai verificata in profondità, da certe sue frasi frammentarie, venimmo a capire che la Nostra aveva avuto una carriera eroica. A quanto pare proveniva da una famiglia molto benestante o comunque molto rispettata del nord. Pare che il padre fosse stato un alto magistrato. Facendo i conti dell’età, probabilmente da prima dell’Era Fascista. Berta si era laureata in Lettere Antiche negli anni trenta, ma non aveva avuto bisogno di insegnare, grazie alla sua posizione sociale. Si era quindi dedicata ad opere di beneficenza o a qualche altra forma di volontariato per molti anni. Pare che abbia fatto la Crocerossina in Africa Orientale e poi, nella Campagna di  Russia sia stata addirittura la direttrice di qualche ospedale militare. A furia di stare in mezzo ai dottori si era fatta una cultura medica molto approssimativa, ma atrettanto efficace (almeno a parole). Per nostra fortuna non ebbe mai occasione di mostrarci le sue qualità di infermiere, ma una volta se ne uscì con una perla molto interessante: Il Dario, che portava anche allora gli occhiali, un bel giorno si stava letteralmente addormentando. Tra un passo di Cicerone ed un altro, provò l’impellente bisogno di stropicciarsi ben bene gli occhi. Berta lo osservò dal di sopra degli occhiali a mezzaluna e gli dette la sua lezione di Medicina: “Ealora, Dario  – vero – Lo sai qual’è l’unica cosa con la quale – vero - si possono stropicciare gli occhi?”. “Con una garza sterilizzata...?” Azzardò il poveretto. “Sbagliato – vero - !” Ribbatté Berta. E poi aggiunse trionfante, con il suo classico sorrisetto idiota: “Solo con i GOMITI!!!”.  Non si può negare a Berta che, almeno per quella volta, avesse reso  l’idea in modo efficace.

Berta non fu l’unica ad esprimere pareri ‘medici’ gratis. Questa storia ce l’ha ricordata Emma:

Trudy una volta chiamò alla lavagna Nino, per interrogarlo. Ovviamente lui non era preparato. Si inventò una strana ferita che si era procurato il giorno prima e per la quale aveva passato il pomeriggio dal dottore. Trudy allora se ne uscì con una ricetta di altri tempi che prevedeva l'utilizzo di quella specie di laniccia mista a ragnatele che si deposita sotto il letto e che sarebbe stata sicuramente un toccasana, salvo poi tacciare la padrona di casa di non essere all'altezza del suo compito. Speriamo che Maria, Armando, Enzo e Genoeffa abbiano appreso all’Università sistemi terapeutici più aggiornati di quelli di Berta e di Trudy!

 

Nel nostro Liceo non ci furono mai attività culturali extra-scolastiche organizzate dalla scuola. Non so se questo fosse un fatto legato al Sistema Scolastico di quei tempi, o perché il nostro era un insignificante Liceo di periferia. Gite scolastiche, per esempio, non se ne fecero mai, ed anche le ‘visite di classe’ a musei o mostre furono avvenimenti più unici che rari, avvenuti grazie all’iniziativa di qualche insegnante di larghe vedute. La cosa, a pensarci bene, sorprende un po’, se pensiamo che l’Italia ha (secondo una statistica dell’UNESCO) non meno di un terzo dei beni culturali mondiali! Durante gli anni di scuola non partecipai mai ad una scena come quella che mi capitò alcuni anni fa in un museo di Parigi: in una sala vidi una ventina di bambini dell’asilo, non più di quattro o cinque anni, seduti all’indiana, a braccia conserte sul parquet, di fronte ad un quadro ad olio gigantesco, che occupava tutta la parete. Mentre la maestrina dava le spiegazioni sull’opera, quei piccoli ascoltavano in religioso silenzio. Un paio di loro fecero anche… domande!

La nostra classe, in cinque anni di liceo, fu portata una sola volta dall’insegnante di Storia dell’Arte a visitare il Museo d’Arte Moderna. Un’altra volta andammo in gruppo a vedere una mostra di tecnologia, dove gli Americani avevano esposto un modello del modulo Apollo (si era negli anni dei voli sulla Luna). L’unico insegnante che ebbe un’iniziativa personale fu il Paguro. ‘Bernardo l’Eremita’ faceva l’insegnate solo temporaneamente. Pare, infatti, che fosse uno scienziato ricercatore, al quale era scoppiato in faccia qualche apparato durante un’esperimento di Chimica. Ebbe il suo soprannome, per via che durante le prime lezioni, quando qualcuno faceva una domanda, si avvicinava a due millimetri per sentire e vedere meglio. Penso che ancora fosse in convalescenza da quel brutto incidente di laboratorio, perché in seguito si comportò normalmente. Il Paguro, dunque, avendo ottimi rapporti con I suoi ex-colleghi, ottenne un permesso speciale dall’università, per farci visitare il museo di Geologia e Paleontologia, che normalmente non era aperto al pubblico, ma solo agli studenti universitari ed ai ricercatori. La cosa che ci fece più impressione fu l’enorme scalinata di accesso alla Facoltà, una costrizione tipica dell’Era Fascista. Nel museo, tra i minerali e fossili vari, la cosa più interessante fu una teca con lo scheletro di una Mammuthessa nana, grande come un cane danese, con accanto lo scheletro di un Mammuthino grande come un barboncino. Questa visita al Museo dell’Università conclude la lunga lista delle attività culturali extra-scolastiche di quei tempi, in un Liceo Classico, dove le scienze teoretiche erano all’ultimo posto. Per le scienze applicate, in classe nostra si andava un po’meglio. In spirito coi tempi, infatti, avemmo una troika di emulatori di Verner Von Braun: Nino, Remo e Giacomo erano esperti nel lancio dei razzi. La zona di Cape Canaveral, cioè la rampa di lancio, era il davanzale della finestra di fondo, che veniva lasciata “inaccuratamente” aperta per l’occasione. I missili, costruiti accuratamente dai nostri tre ingegneri, erano composti da tre cerini, le cui capocchie venivano unite e racchiuse strettamente con la carta stagnola. La delicata operazione di messa in opera consisteva nell’allargare I tre ‘gambi’ dei cerini, lasciando un’infinitesima intercapedine per l’ugello di scarico. Uno dei gambi veniva appogiato su una moneta, per creare un angolo leggermente inclinato sulla verticale ed indirizzare il volo in direzione della strada. Dopo il conteggio alla rovescia l’ignizione veniva provocta dall’accensione di un quarto cerino sotto la rampa. Il più delle volte il lancio faceva cilecca, o perché i gambi del razzo prendevano fuoco sulla rampa, o perché gli ingegneri avevano usato troppa carta stagnola, creando un sovrappeso, che impediva il decollo verso lo spazio. Nei rari casi in cui il missile partiva bene, la nostra classe accompagnava con un applauso il lancio riuscito. Ma gli esperimenti dovettero essere temporaneamente sospesi dopo quella volta che Remo (o Nino) fecero un errore di calcolo di bilanciamento. Il missile partì, in direzione del soffitto della classe. Due secondi dopo, a propellente solido esaurito, compiendo una perfetta parabola balistica, atterrò senza danni proprio al centro del registro di classe dell’insegnante di Fisica. Quella volta ci andò buona: il missile non creò nessun cratere da impatto, e l’insegnante la prese con filosofia scientifica. Figuriamoci cosa sarebbe successo se la traiettoria, leggermente alzata, avesse portato il missile ad allunare sulla testa della Prof…

 

La perfetta traiettoria del missile “Cerino 11” fu resa possibile dal fatto che il lancio fu effetuato da un banco dell’ultima fila. Come in tutte le classi che si rispettano, i posti erano occupati secondo la logica dell’altezza e della secchioneria. Durante gli anni di liceo ci furono alcuni cambiamenti di posto, ma, almeno fino alla ‘rivoluzionaria’ disposizione a U operata dal Sartana, la nostra classe era divisa in tre file di quattro o cinque banchi ciascuna, disposti di fronte alla cattedra. Guardando verso quest’ultima, la porta stava a destra e le grandi finestre a vetri stavano a sinistra. Tra la cattedra e la porta troneggiava una lavagna nero di vecchio tipo, montata su un’intelaiatura di legno, con la ‘pagina a righe’ sul davanti e quella a ‘quadretti’ sul retro. La lavagna, superfluo dirlo, non fu mai girata. Per essere precisi ci provò una volta l’insegnante di matematica, ma la cosa si dimostrò così elaboriosa (probabilmente le viti erano completamente arruginite dall’inattività) che la prof. ci rinunciò, accontentantosi da allora in avanti di disegnare il seno ed il coseno alla bell’e meglio sul lato ‘a righe’. Sul muro alle spalle dell’insegnante era appeso il Crocifisso e, un po’ più in là il ritratto del Presidente della Repubblica che, come ho avuto modo di raccontare all’inizio di questa storia, era stato sottratto varie volte. Alla fine del Terzo il Dario  riusci ad asportarlo defitivamente, ma visto che, emigrando, non se lo poteva portare all’estero, partendo lo regalò a Gabriele, il secondo classificato alla gara di asportazione.  Ed ora, se i ricordi non fanno cilecca, alla disposizione dei banchi:

Nella fila di sinistra sedevano al primo banco Donatella e Rossella (per farsi vedere meglio dalla strada?), al secondo Giacoma e Genoeffa (sperando di non farsi veder troppo dalla strada?), al terzo Dardo ed Enzo (il nucleo fascista) ed infine nel banco di fondo i ragazzi più alti: Giacomo e Remo (con Pasqualone e “K”). La fila centrale fu più dinamica: al primo banco sedette per tutto il liceo Emma che, essendo bassa, secchiona ed occhialuta, aveva tutti i requisiti per sedersi proprio di fronte agli occhi degli insegnati. Insieme ad Emma sedeva una delle due Gabrielle. I due banchi di mezzo furono occupati a seconda degli anni da Carlo e da altri “temporanei”. In fondo c’era Nino. Infine nella fila di destra sedevano (per esaurimento del sesso debole) Pepe e Ernesto. Cosa ci stesse a fare Ernesto al primo banco, riservato ai bassi ed ai secchioni, non si capisce bene, a meno di spiegarlo con il fatto che il suo posto era anche quello più vicino alla lavagna (Ernesto era l’addetto ai “graffiti”) e, soprattutto alla ... porta d’uscita. Dietro a Pepe sedeva Armando (con Sergio), poi il Dario  ed infine, dietro di lui Paolo, pronto a tirargli qualcosa addosso, in concomitanza con gli ammonimenti “Cheppallosi ” (a distanza) di Giacomo. In terzo venne aggiunto un ‘banco zero’ davanti a quello di Pepe e Ernesto, per far posto alle due nuove donne (si fa per dire) arrivate: Tonia ed Allegra. Poi venne il Sartana e l’intera disposizione cessò di esistere.

 

 

Professori Minori

 

Come già scritto in precedenza la sezione C era una sezione di passaggio. Molti insegnanti erano gente in attesa di avere un posto migliore oppure erano supplenti. Alcuni stettero con noi così poco da non lasciare la minima impronta nei nostri ricordi, nemmeno un soprannome.

Per l’insegnante di Matematica-Fisica si dovrebbe fare un discorso a parte. Fu la nostra insegnante per tutti e tre gli anni di Liceo, anzi fu addirittura ufficialmente la nostra Insegnante di Classe e, come tale, fece parte della commissione agli Esami di Maturità. Metterla, quindi, tra i ‘professori minori’ è un po’ ingiusto, ma il fatto sta che erano le sue materie di insegnamento ad essere considerate ‘materie minori’ in un Liceo Classico, dove tutto girava attorno alle Lettere. Per la maggior parte di noi la Tangente era allora (venticinque anni prima della “Seconda Repubblica”) solo un qualcosa di vagamente obliquo, ed il Seno era un bella parola riguardante le due prominenze femminili anteriori. Che poi invece sia un errore di traduzione dall’Arabo al Latino, lo venne a sapere molto più tardi solo quel rompipalle del Dario, così adesso lo sapete pure voi (CHEPPAALLE!).

Il nostro rapporto con l’insegnante di Mat./Fis. fu quello di rispetto reciproco “a patto di non romperci le scatole a vicenda” e questa convenzione fu mantenuta per tutto il Liceo. D’altronde si trattava di sopportarci per due sole ore settimanali a materia. Di fatto furono molte di meno, perché Fisica si faceva solo a partire dal Secondo e, quando fu chiaro a tutti che la materia non sarebbe stata una di quelle della Maturità, in Terzo nessuno toccò il libro. Sarebbe più giusto dire nessuno tranne Emma, naturalmente. Matematica e Fisica, per chi non lo sapesse, al Classico erano materie esclusivamente orali. Non esistevano i famigerati compiti in classe. Al massimo si potevano temere le interrogazioni ed il controllo degli esercizi di fine trimestre, ma per queste piccolezze c’era il vecchissimo e collaudato sistema: si copiavano gli esercizi di Emila, o la si manda ‘volontaria’ a farsi interrogare. La Prof., poi, che era tutt’altro che stupida, era perfettamente cosciente con chi avesse a che fare, ed il più delle volte tagliava la testa al toro, rispiegando per la seconda volta, per mezza lezione, le formule della lezione precedente. A tale proposito il compito ufficiale di richiedere ulteriori spiegazioni era assunto dal noto rompiscatole: il Dario. Nel complesso i nostri rapporti con la Prof. andarono lisci come l’olio per tutto il Liceo, al punto che non le appiccicammo nemmeno un soprannome. Anche il cognome era finito nel dimenticatoio, finquando Giacomo ci ha ricordato che si chiamava La Trova.

 

Uno degli insegnanti di Italiano di passaggio fu un professore grasso e pelato. Data la somiglianza con un personaggio dei cartoni animati per bambini, fu subito battezzato Papalla. Papalla aveva insegnato per molti anni all’estero, credo in Libia, nelle scuole della “Dante Alighieri”. Quando, dopo la Guerra dei Sei Giorni, il Governo Libico buttò fuori tutti gli Italiani, il tizio ritornò in Patria, aggregandosi temporaneamente al nostro Liceo, del quale la figlia era la Segretaria da sempre. Papalla amava uscirsene con delle (Don Renzo   mi scuserà il termine) cazzate per niente divertenti. Forse in Arabo suonano meglio. La più nota era quella che lui era un genio, perché la sua fronte cominciava dalle orbite degli occhi e finiva sulla nuca. Per avere un’idea migliore del Papalla bisognerebbe, comunque, assistere alla prima occasione, all’imitazione fatta da Pepe.

 

Un’altra insegnante che non lasciò traccia fu la giovanissima neolaureata in Biologia che venne a sostituire il Paguro in Terzo. Per ragioni che sfuggono dalla nostra memoria venne soprannominata “Cavallo Pazzo”. Era una supplente alle prime armi dell’insegnamento liceale. In Terzo la materia ‘Scienze’ non era Biologia, ma Geografia Astronomica, nella quale la Prof. non eccelleva molto più di noi. Nelle sue lezioni la classe, con saltuaria eccezione del Dario, ronfava beatamente. Una volta, spiegando le Leggi di Keplero, la Prof. se ne uscì con l’infelice frase: “Keplero inventò le leggi che permettono alla Terra di girare intorno al Sole”. Il Dario, cogliendo la perla, ribbattè di rimando: “Ma, scusi, e allora... prima di Keplero, come faceva la Terra a girare attorno al Sole?”. La poverina si intrecciò e disse: “Mah... dovresti chiederlo all’insegnante di Fisica. Di queste cose se ne intende più di me!”.

Il Dario  decise che era meglio non infierire oltre.

 

Quando Berta ci lasciò in Terzo, per andare finalmente in pensione, fu cercato e trovato un’insegnante di Latino e Greco che sapesse soprattutto mantere la disciplina ad un livello, a giudizio della presidenza, almeno sopportabile. Quando il Prof. P. Catania, un Siciliano di... Catania, fece il suo primo ingresso nel Famigerato III C, aveva già alle spalle una certa esperienza in fatto di eruzioni vulcaniche, quindi partì subito in quarta con un convintissimo monologo sui reciproci rapporti futuri, concernenti soprattutto la disciplina. La sostanza era: “Patti chiari, amicizia lunga”. Il tono: “Se non rigate dritti, vi faccio vedere io. Non per nulla sono un parente di Don Corleone!”. La nostra classe, ovviamente era ormai troppo smaliziata per impressionarsi di quel monologo alla “Savonarola”, che ebbe come unico vero risultato, quello di trovargli subito il sopannome perfetto: “il Mistico”.

Il Mistico ebbe con noi la vita abbastanza facile, non tanto perché riuscisse a farci rigare dritti, ma piuttosto perché eravamo in Terzo, ed era chiaro che non potevamo ignorare il fatto che Latino e Greco sarebbero state certamente materie da presentare alla maturità. Di fatto arrivammo presto ad un ‘modus vivendi’ basato, da parte nostra sul principio: “Tu pensa a prepararci agli esami decentemente, senza renderci la vita troppo difficile con rotture di scatole superflue, e noi staremo buoni. Tu sarai forse parente di Don Corleone, ma noi siamo veterani della Bertarivoluzione  !”. Il Mistico era un insegnante preparato e fece il suo dovere, tanto è vero che non mi risulta che nella nostra classe ci furono trombati alla Maturità. Del Mistico ricordiamo soprattutto che usava assumere spesso una posa stortignaccola (per l’imitazione rivolgersi a Pepe) nella quale si metteva gli occhiali sulla fronte e, leggendo qualche passo di Cicerone, sparava la sua famosa frase, pronunciata con tutte le è e le ò aperte dell’accento Catanese: “...sòtto certi aspetti, ... ... sòtto altri, mèèèno...”

 

Le Feste

 

Ad uso e consumo delle giovani generazioni che dovessero imbattersi per caso in questa storia, racconteremo adesso qualche cosa sulle feste da ballo. Con ogni probabilità i giovani di oggi, ormai abituati ad un mondo libero e smaliziato in fatto di sesso, leggeranno con un malcelato sorrisetto di sufficienza il nostro comportamento quasi ingenuo di allora, ma sia permesso ricordare alle nuove generazioni che proprio noi vecchi decrepiti siamo stati quelli che hanno attuato la rivoluzione sessuale tanto famosa dei famosi anni ’60. Quella rivoluzione che li ha fatti nascere nel mondo di oggi. Prima di noi c’era il Medio Evo, dopo di noi c’è stato l’Amore Libero.

Per noi “vecchi”, poi, questi sono i bei ricordi dell’età dell’adolescenza. Non guasterebbe un po’ di romantica anche ai giovani di oggi.

 

Facciamo la descrizione di una tipica festa tenuta a casa di Sergio, un 9 Gennaio  (giorno del suo compleanno), o a casa di Pepe il 19 Marzo (S. Giovanni) o dove e quando vi pare e piace.

La prima regola di una buona festa da ballo era che il numero di donne e di uomini fosse pari, quindi non potevamo limitarci ad invitare solo le donne della nostra classe. Alcuni di noi erano incaricati, quindi, ad invitare altre ragazze del ginnasio o non provenienti dalla scuola. L’incombenza di portare le altre donne veniva data in genere a Sergio o meglio ad Enzo, che era uno specialista in proposito. Enzo faceva l’entrata trionfale con tre o quattro ragazze ‘nuove’. Una di loro in genere se lo trovava appiccicato per tutta la festa, mentre le altre si dileguavano, ballando con gli altri ‘bei fichi’ di turno. Allora non esistevano i CD, ma i veri e propri dischi, quelli che si suonavano col giradischi a puntina, e che contenevano un solo pezzo per lato. Sergio forniva la materia prima, mentre una delle ragazze meno piacenti di turno si incaricava di sostituire i dischi uno dopo l’altro senza soluzione di continuità. All’inizio della festa venivano messi balli movimentati. Il Rock-and-Roll ai nostri tempi era già fuori moda. Il Twist stava dando gli ultimi respiri. Per lo più si ballava lo Shake, che è quello che oggi viene chiamato semplicemente Disco. Ognuno si dimenava senza una regola precisa. In questo già si poteva vedere la Rivoluzione Giovanile: proprio ai nostri tempi, dopo secoli, cessarono finalmente di esistere i balli con i passi obbligati, che avevano riempito le sale dal Minuetto al Rock-and-Roll.

I balli movimentati erano, ovviamente solo il preludio della festa vera e propria, che entrava nel suo meglio nei ‘lenti’. La luce veniva abbassata e si formavano le coppie. E qui lo stile di ballo dipendeva dall’età e dalla natura delle coppie. Di regola non era permesso di accaparrarsi una bella ragazza per tutta la festa, a meno che non fosse la tua ragazza riconosciuta. Le coppie fisse non erano ben viste alle feste fatte in casa. La regola era che, se volevi paccare con la tua ragazza, eri tenuto ad andartene in pineta. Le feste erano fatte per dare a tutti, fichi e meno, la possibilità di divertirsi, di ‘incominciare’ e di ‘farsi vedere incominciare’ (Enzo). Le coppie, quindi si scambiavano ad ogni ‘lento’. Di regola era il ragazzo ad invitare la ragazza. Raramente si usava fare il contrario, solo per un ballo o due, più che altro come gioco di società. Questa regola sociale, che nelle generazioni seguenti venne poi abrogata, creava delle difficoltà specie alle ragazze meno belle, perché i ragazzi non ci tenevano particolarmente ad invitarle. Esse finivano a fare da ‘tappezzeria’, come si diceva allora.

Osservando le coppiette nei ‘lenti’, si potevano notare (nella penombra) pose diverse, che indicavano chiaramente il rapporto dei due ballerini. Di norma, se la ragazza invitata era decente, ed il ragazzo possibile e più alto di lei, la posa classica prevedeva le due mani del ragazzo a metà schiena della ballerina e le mani della stessa attorno alla nuca di lui. Il contatto fisico frontale prevedeva un leggerissimo sfioramento della zona toracica, una separazione millimetrica della zona addominale e delle due guance, mentre i piedi facevano perno sulla ‘stessa mattonella’ girando in senso orario.

Se la ragazza era racchia (era buona regola invitare anche la ‘tappezzeria’ di tanto in tanto), o se la ragazza non voleva ‘incominciare’, alle mani di lui veniva consentito di poggiarsi delicatamente sui fianchi, mentre la distanza corporale si allargava fino ad alcuni centimetri. In caso di coppie fisse (o di ragazze ‘spregiudicate’), le mani del ragazzo si univano tra loro dietro la schiena, le guance si appiccicavano e così pure le parti addominali. La classica procedura del ragazzo per incominciare era quella di passare, nel buio, dalla posizione normale a quella di ‘coppia fissa’. Se la ragazza ci stava, bene. Se no usava il metodo dei gomiti: li chiudeva in modo di impedire il contatto frontale del torace di lui con il petto di lei. L’antifona veniva capita, ed il ragazzo passava a ‘provarci’ con un’altra.

 

Due parole sull’abbigliamento. Come i teen-agers di oggi, anche allora andavamo vestiti in modo molto uniforme. Per i ragazzi il vestiario era (stranamente) legato alle opinioni politiche. I pochi che si presentavano alle feste costantemente in giacca e a volte addirittura in cravatta, erano i tre fascisti della classe: Remo, Enzo e Dardo. Sergio, anche se meno “ufficiale”, sfoggiava camice costose di marca, altrimenti molto simili a quelle degli altri. Era questo il suo unico vezzo da rampollo ricco, e se lo poteva permettere. Gli altri ragazzi andavano più con il golf alla dolce vita (la Sinistra Politica invernale) o col solito completo camicia colorata e pantaloni scuri. Alle feste quasi non si usavano gli jeans, che erano ancora considerati ‘troppo sportivi’. Per le ragazze alla fine dei ’60 era di prassi il vestito corto o la minigonna e i collant in tono. La lunghezza della mini andava in relazione biunivoca alla bruttezza delle gambe: quella di Genoeffa arrivava fin quasi al ginocchio, mentre quella di Donatella non lasciava troppo all’immaginazione. Capitava spesso che le ragazze facessero sfoggia alle feste di vestiti nuovi, secondo l’ultima moda, cosa che una volta creò una situazione imbarazzante. Si era ad una festa a casa di Maria, verso la fine del quinto. L’ospite accolse gli invitati vestita con un vestito ultimo grido: un modello attillato, azzurro con il disegno ad anelli intrecciati gialli e rossi, che finiva due dita sopra il ginocchio. Bellino, ma niente di speciale su un corpo di ragazza altresì castigata, troppo seria, non troppo magra, occhialuta, che spesso faceva da ‘tappezzeria’. Ad un certo punto arrivò la bella Piera: alta, bionda, molto desiderata e dal corpo perfetto, dentro... esattamente lo stesso vestito! Beh... non c’e dubbio che gli abbigliamenti si somigliassero solo nella... stoffa. Il che dimostrò anche ai più scettici che, se l’abito non fa il monaco, fa certamente... la monaca! Ad onore di Maria e Paola diremo che le due ragazze si ripresero subito dall’imbarazzo, e che la festa fu un successone.

Nelle feste per lo più si ballava e si parlava. Raramente si facevano giochi di società o il ‘ballo della scopa’ se c’erano troppe poche ragazze (o molta ‘tappezzeria’). Nelle case medio-borghesi di allora non si fumava la droga o ci si prendeva a botte. Se ti capitava di dover fare i conti con qualcuno su qualche faccenda privata (o ragazza privata), eri tenuto ad andartene a sistemare i tuoi affari fuori. Prendersi a botte poteva succedere sì, ma erano casi rari. Uno dei casi in cui il Dario  ed Enzo ci andarono vicini, successe a casa di Giovanni. Il Dario  sostiene in proposito che, nonostante che più tardi nella vita abbia partecipato ad un paio di guerre vere e si sia aggirato spavaldamente durante la guerra civile in Libano alla guida di una jeep aperta, quelle furono quisquilie, in confronto al pericolo per la sua salute in seguito all’azione “commando” che si permise di fare nei confronti di Enzo a quella festa. Il nostro “Mandrillo” stava facendosi vedere, come al solito, nell’azione di ‘cominciare’ con una ragazza. Una ‘nuova’ che si era portato alla festa. La festa stava andando per le lente. Mancava un po’ d’azione. Il Grasso, chiacchierando con il Dario, espresse l’opinione di ‘punire’  Ezio: “Bisognerebbe calmargli i bollenti spiriti!”. Il Dario  espresse la sua: “beh? Perché non ti dai da fare?”. Giacomo ribbatté: “Ti ci vogli vedere a te, che fai tanto il saputone. Una volta tanto facci vedere che sei buono, non solo a parole”. Il Dario, punto sul vivo, rispose: “O.K.!”, prese la caraffa dell’acqua fresca e, avvicinatosi furtivamente alle spalle del Mandrillo, gli vuotò con salomonica calma, l’intera caraffa sulla testa. Dopo un paio di secondi di attonimento, Enzo ebbe una reazione decisamente esplosiva: ben trattenuto da due compagni forzuti, tentò di lanciarsi sul Dario  urlando: “Lasciatemi!... lo ammazzo!!”. Il Dario  fu ‘gentilmente’ pregato da Pepe di abbandonare la festa. Due giorni dopo si scusò con Enzo (la caraffata, con effetto ritardato, aveva calmato i bollenti spiriti) di aver esagerato un po’ troppo e, da allora in poi, i due rimasero buoni amici.

 

Il Teatro

 

Dai frammenti buttati giù finora vi potrebbe sembrare che la nostra classe fosse formata da compatte amicizie, durevoli alle intemperie dei tempi. Non è così. Ne sia testimone la storia del “teatro”, che causò uno screzio abbastanza profondo tra Giacomo e “Don” Ernesto “il Grasso”.

Quando noi frequentavamo il Terzo, in Secondo c’era un ragazzo di nome Marco, paralizzato alle gambe da Poliomielite. Marco era del nord e viveva con una sorella sposata e col cognato, che lo portava a scuola in macchina tutte le mattine, lo prendeva in braccio per le scale, per poi adagiarlo delicatamente accanto al muro dell’entrata. Da lì Marco, con l’aiuto delle stampelle, si incamminava in classe. Marco era un tipo molto cordiale e, nonostante l’invalidità, fece presto amicizia con tutti. Ovviamente non poteva partecipare con noi alle partite a pallone o ballare alle feste. Non so come un giorno gli venne l’idea di fondare un “circolo culturale”, che poi fu chiamato “il teatro”. Alcuni ragazzi e ragazze del corso si riunivano una o due volte alla settimana a casa sua, in salotto, attorno a lui, a preparare la messa in scena dell’ “Opera da Tre Soldi” di Bertolt Brecht. C’erano, oltre a Marco che fungeva da regista, Salvatore (della sua classe, fratello della nostra “Rebecca” - Mackie Messer), quattro ragazze del Primo: la bella Clara (Polly Peachum), la compassata Lidia (Celia Peachum), la piccola Donatella (Lucy Brown) e Lara Volpi, la “Genoveffa” del Primo C (chi non se... Jenny delle spelonche!). Del terzo c’erano Giacomo (Gionata Peachum), Marco (Il Capo Brown), Gabriele (Giacobbe, uno della banda di Mackie) ed il Dario  (Filch), in funzioni di comparse

La messa in opera dell’Opera da Tre Soldi non venne mai portata a termine, perché gli incontri erano fondamentalmente solo una scusa per fare compagnia a Marco e per dedicarsi in quella che allora veniva definita dalle Estreme Sinistre Popolari “Masturbazione Intellettuale”, termine di uso rivoluzionario per dire “circolo culturale della borghesia intelletualoide”.

La storia del Circolo del Teatro si riseppe, e si tirò addosso i sollazzi dei membri “popolani” della classe, primo fra tutti Ernesto, che non la smise per un po’ di fare apprezzamenti sarcastici, soprattutto in direzione di Giacomo che era, a ragione, il più intellettuale della nostra classe. Le prese in giro girarono per lo più attorno al fatto che il teatro era una scusa come un’altra per ‘incominciare’ con le ragazze del Primo, ma... con chi, poi? Una (Clara) aveva notoriamente un ragazzo fisso, un’altra (Lidia) era un tipo frigido, una terza (Donatella) era troppo bassa, da sembrare una bambina ed infine soprattutto Volpi, considerata non solo brutta, ma soprattutto la più grande rompipalle del corso. Questi apprezzamenti, non proprio “delicati” nei confronti delle ragazze e del “Circolo del  Teatro” fecero andare giustamente Giacomo su di giri, e lui probabilmente tacciò Ernesto di cafoneria e di buzzurità. Insomma, quello che era nato come una buona azione per alleviare l’infermità di Marco e stare insieme a fare un po’ di vera cultura, si trasformò in una forte divergenza di idee e di comportamento tra gli “Intellettuali Borghesi” ed i “Popolani” con a capo Giacomo da una parte ed Ernesto dall’altro. Da allora in poi, fino alla Maturità, i due si parlarono poco o niente.

 

Giacomo sostiene che più che di uno screzio tra lui e il Don (con cui per altro è rimasto in rapporti cordiali) si trattò semplicemente della presa d'atto del fatto che, passata l'età del bigliardino, si erano ormai fatte troppo forti le differenze caratteriali e di gusto, tipiche dell'età adulta. Il teatro fu solo l'occasione del divorzio, altrimenti ci sarebbe stato qualcos'altro.

Il problema, a detta di Giacomo, è che non è possibile che gente diversissima in tutto, che casualmente si ritrova insieme a 14 anni, possa poi continuare a farlo anche a 18-19 come se niente fosse. La colpa è al solito della scuola, che dura troppo. "Compagno di scuola, compagno di niente", proprio come canta il grande Venditti.

 

Non sono d’accordo con Venditti. Qualcosa è rimasto di quell’amicizia. Qualche simpatico ricordo sbiadito, che abbiamo cercato di mettere in questa storia, e la scusa di incontrarci di tanto in tanto, per chiederci come ce la passiamo, per presentare le mogli, i mariti, i figli. Per esclamare “Ma come... ha già finito l’Università?, me la ricordo ancora in carrozzina!”. La scusa per dire al Dario: “Ma dove sono finiti i tuoi capelli? Si sono bruciati, perché dalle parti vostre il sole incoccia di più, o te li sei strappati chiedendoti perché non sei rimasto in Italia”. La risposta ve la dico quando ci rivediamo.

 

Avrete certamente notato che nonostante questo racconto sia stato intitolato “La Storia di Berta & C.”, ci siamo soffermati su gli “& C.” Molto di più che su Berta. Non c’è bisogno di spiegare agli eroi chi sia stata la protagonista di questa saga, ma, ora che conoscete le comparse, è d’uopo raccontare  (magari con qualche abbellimento qua e là) il nocciolo della Bertarivoluzione  .

Come già accennato, ai nostri tempi al liceo era di moda la “contestazione”. Il Maggio Francese aveva fatto il suo effetto anche nel pacifico quartiere di periferia in riva al mare.

Ogni generazione, giunta all’età della maturità sessuale, ha bisogno di scaricare la tensione e la frustrazione delle delusioni amorose in un modo o nell’altro. Le vittime di questo processo biologico sono in genere i genitori e gli insegnanti. Purtroppo la generazione dei Padri dimentica con gli anni, e la tensione a volte esplode come un fulmine a ciel sereno sui poveri adulti, senza che loro si rendano conto del come e del perché. Anche per la nostra generazione liberale del dopoguerra le cose non sono state molto diverse, perché non è cambiato il processo biologico che permette la continuazione del genere umano: i cuccioli litigano tra di loro, i bambini delle elementari qualche volta fanno a pugni, ed i Liceali esaperano gli insegnanti.

La Natura impone il comportamento irriverente della generazione in fase di maturazione.

Cosa importa al liceale medio della trigonometria, o quanto sia interessante quel verso irregolare latino, quando proprio ieri Mariella ti ha detto di no, e poi l’hai vista sul molo, sbaciucchiarsi con Franco? E cosa ti importa la Terza Coalizione contro Napoleone se proprio il giorno prima del Derby a cui volevi portare Lucilla, il portiere bel fusto che piace a lei non giocherà, perché si è infortunato in allenamento?

 

Giacomo e Dario  decisero un giorno di mettere su un duetto di armoniche a bocca, e la logica imponeva di allenarsi durante le lezioni di Latino di Berta. Rintanati nei banchi dell’ultima fila, Giacomo e Dario  accordarono gli strumenti, nel bel mezzo di un noiosissimo pezzo di Cicerone. Enzo ridacchiò in silenzio e “Don” Ernesto approvò, con un breve colpo di tosse-foca. Berta smise di leggere ed alzò gli occhi sopra gli occhiali a mezza luna, fulminando lo sguardo sul Dario. Berta aveva l’udito fino. Dario  fece la faccia d’angelo. Berta continuò a leggere ad alta voce. Giacomo suonò una scala di semicrome alte. Una delle ragazze si lasciò scappare una risatina della stessa tonalità. Berta guardò in direzione di Giacomo con gli occhi fiammeggianti. Il compagno di banco di Giacomo, Pasqualone, stava leggendo, come al solito, un libro sul marxismo. Pasqualone, come già accennato, era di Estrema Sinistra ed  odiava tutto quello che aveva odore di Fascismo, di Antico, di Decrepito, di Borghese. Soprattutto odiava Berta, come simbolo di tutte le qualità più negative del potere costituito. E Berta odiava Pasqualone, come simbolo della rivoluzione anarchica, dell’irriverenza, eccetra... invece Giacomo “Era – vero – un ragazzo sempre educato – vero – ed ossequioso...”. Quando Giacomo tentò una scala di semicrome basse, Berta esplose: “Ma insomma, Pasqualino - vero – smettila con quel fischietto!”. Pasqualone alzò gli occhi dalla pagina con il commento sul ‘Manifesto’. “Che vuoi, Berta? Non scocciare!”, Disse, e riprese a leggere il libro. Berta allibì, ma poi si riprese: “Porta rispetto e smetti di far finta di leggere!”. “Rispetto si porta ai Compagni, non ai Borghesi!”. Era troppo anche per Berta, che buttò Pasqualino fuori dalla classe. Pasqualone si alzò, con il libro in mano e la sua mastodontica borsa nera in mano, e si incamminò verso la porta, mormorando: “Oppressione Fascista!”. Berta segnò una nota di condotta nei confronti di Pasqualino sul registro di classe.

Giacomo si sentiva un po’ colpevole del sopruso di Berta. Era stata appena commessa un’ingiustizia nei confronto del povero Pasqualone, che non c’entrava niente. Si alzò in piedi e prese le difese del compagno di banco. “Ti ci metti anche tu – vero – che sei sempre stato un bravo ragazzo!”. Il Grasso sbottò: “Come sarebbe a dire... ‘Anche tu...’, Che ‘è... speciale, Giacomo?” . “Nessuno ti ha interpellato – vero - . Fuori anche tu!”. Il Grasso spinse la sedia rumorosamente, bestemmiando. Berta aggiunse una nota di condotta nei confronti di “Don” Ernesto. Il Grasso uscì, sbattendo la porta, facendo un poderoso verso della foca. Tutta la classe mormorò al alta voce, protestando per il sopruso e facendo un chiasso infernale ‘raschiando’ le gambe delle sedie sul pavimento. Berta, esasperata, scarabbocchiò una nota di condotta generale ed uscì dalla classe, in direzione della presidenza, accompagnata dalla nota più bassa dell’armonica del Dario, quella che ricoda il suono che viene prodotto da chi ha mangiato molti fagioli la sera prima.

 

Durante la guerra contro Berta ognuno ebbe le sue incombenze militari. “Don” Ernesto, per esempio, si occupava di scrivere sulla lavagna l’Ordine del Giorno e di suonare la carica ‘Focosa’. Pepe era di vedetta: il suo compito era quello di segnalare l’avvicinamento del ‘nemico’ dalla direzione del corridoio. Enzo ed Emma si ‘sacrificavano’, offrendosi volontari di arrestare lo ‘sfondamento’ causato da qualche controffensiva nemica (interrogazioni a tradimento). Le ragazze in generale si occupavano della Sussistenza, provvedendo (involontariamente) alle cibarie necessarie allo sforzo bellico dei ragazzi al fronte. Il nostro ‘trombettiere’ Ernesto non sarebbe potuto andare avanti nell’incitamento, se non in grazia ai sostanziosi panini e cornetti forniti (cioè sottratti) da Emma, Donatella e Genoeffa.  La missione principale del Dario  era quello di distrarre l’attenzione del nemico, con domande astruse e cervellotiche, durante le azioni di salvataggio in ‘Zona Cesarini’, cioè di impedire i calci di rigore di Berta nei confronti di qualche interrogato, cinque minuti prima della campanella. Dovete riconoscere che, in questa incombenza, il Dario  si fece onore. Un altra funzione, un po’ meno nota, del Dario,  fu quello di ‘Ufficiale di Logistica’. Sussistenza a parte, lo sforzo bellico richiedeva un armamento diversificato, a seconda delle missioni da portare a termine. Nella precedente storia del duetto le armi del delitto, cioè le armoniche a bocca, erano state fornite da lui. Fu nuovamente il Dario  a fornire una delle attrezzature ausiliarie di quella che fu la più importante ‘Azione Commando’ che la storia della Bertarivoluzione   ricordi. La chiameremo in codice...

 

Operazione           “Satirata”

(Documento riservato)

 

1. Descrizione della Zona di Operazioni:

 

Berta viveva in un villino a tre piani, sul lungomare. Il villino era una costruzione degli anni trenta, intonacato esternamente di un rosa di pessimo gusto. Come molte ‘case per le vacanze’ fatte secondo il gusto dell’epoca, aveva la forma ‘a nave’: un rettangoloide con un lato lungo sul lungomare e i due lati corti adornati da terrazze a forma di ‘semicilindro’.  L’entrata principale si trovava  sul lato lungo posteriore. Il portone era di legno massiccio, adornato da due grosse maniglie di ottone, sistemate orizzontalmente a metà altezza di ognuna delle due ante.

A circa cinque minuti a piedi dal villino c’era una fermata d’autobus, dalla quale Berta scendeva, per recarsi a casa, percorrendo a piedi una strada scarsamente illuminata.

 

2. Consistenza delle Forze nemiche:

 

Berta viveva da sola. Non si sa se il villino fosse di sua proprietà, o se l’avesse preso in affitto, ma ciò non ha importanza ai fini dell’Operazione. Le difese passive del nemico consistevano in un alto ed invalicabile muro di recintazione sui tre lati principali. Sul lato posteriore, unico attaccabile, oltre alla scalinata di accesso alla ‘fortezza’ c’era il massiccio portone già descritto, munito di poderosi chiavistelli. Le difese attive consistevano in un sistema di comunicazioni efficientissimo (il telefono).

 

3. Scopi dell’ “Operazione Satirata”:

 

Definita principalmente Azione di Rappresaglia, la “Satirata” portava il fronte nel cuore del territorio nemico, ed aveva come ultimo fine quello di contribuire a convincere Berta ad andarsene in pensione e smettere definitivamente di rompere.

 

4. Il Programma generale:

 

Vista l’impossibilità di espugnare la roccaforte con un attacco diretto, fu deciso dallo Stato Maggiore (Nino?) di tendere un’imboscata al nemico, sulla via tra la fermata ed il villino.

Ora X: Tardo pomeriggio/sera, all’arrivo di Berta alla magione, di ritorno da qualche ignota incombenza.

 

5. Forze Partecipanti:

 

Il Servizio di Sicurezza non ci ha consentito ancora di rivelare l’esatta consistenza e natura del personale partecipante al “commando”, pertanto questo comma rimane TOP SECRET.

 

6. Armamenti:

 

Le armi principali consistevano in:

A.                           Lenzuoli bianchi, sufficientemente grandi da consentire sia la completa mimetizzazione delle forze del commando, sia di conferire l’aspetto spettrale di fantasmi alle stesse.

B.                            Sistema ausiliario che consisteva in vari strumenti a percussione (per fare il massimo rumore, ben s’intende, non per colpire il nemico).

 

Le attrezzature ausiliarie:

C.                           Attrezzatura di bloccaggio della ritirata: una catena ferrea lunga un paio di metri, con lucchettone Yale.

D.                           Panini della Sussistenza.

 

7. Tempi d’Azione:

 

Ora X meno quaranta minuti:

 

“Forza Cheppalle ” suona al portone di Berta, per controllare se lei è in casa. In caso negativo, procede a passare la catena 6 C tra le due maniglie, a chiudere il lucchettone ed a buttare la chiave.

 

Ora X meno trenta minuti:

 

“Forza Occhio di Lince” di avvertimento viene mandata perlustrazione all’angolo della fermata, per avvertire l’arrivo del nemico.

 

Ora X meno cinque minuti:

 

Arrivo dell’autobus e discesa di Berta dallo stesso.

Mimetizzazione della “Forza Satirica Principale”, tramite armamento 6 A di cui sopra.

 

Ora X:

 

Spiegamento della forza attorno al nemico, in abbigliamento mimetico 6 A e attivazione del Sistema Ausiliario 6 B.

 

Ora X più cinque miniti:

 

Ritirata strategica.

 

(Fine documento riservato)

 

 

 

Nonostante che l’operazione fosse stata programmata nei minimi particolari, i risultati non furono quelli sperati.

La “Forza Cheppalle ”, mandata in avanscoperta in perfetto orario, suonò al campanello con insistenza varie volte . Dopo due minuti di attesa dal di là del portone si udì una flebile voce, proveniente dal corpo di guardia: “Ma chi è – vero – a quest’ora della sera?”. La “Forza Cheppalle ” si fece riconoscere dal nemico. “Scusi l’ora, sig. Professoressa, ma volevo chiedere un chiarimento sul compito in classe di domani... a che ora sarà”. Si aprì un piccolo spiraglio incatanellato, e dall’alta parte della penombra della breccia, un paio di occhiali a mezza luna ed un naso vagamente grigio risposero all’ambasceria: “Ma non potevi chiederlo – vero – a qualche tuo compagno – vero ? Ti sembra questo il modo di venire a disturbare a quest’ora, con una domanda così stupida?”

 

La porta venne rapidamente richiusa. La “Forza Cheppalle ” tornò a riferire e lo Stato Maggiore dette il comando di “Missione Abortita” e  “Scioglimento dei Ranghi”.

 

Meno male. Figuratevi  che cosa sarebbe potuto succedere se, in consegueza alla riuscita dell’ “Operazione Satirata”, Berta fosse finita non in pensione ma... all’ospedale con un attacco cardiaco!

 

Tralasciamo di nuovo, per un po’, la “Bertarivoluzione  ”, per ritornare alle relazioni uomini-donne in classe nostra. Queste relazioni hanno avuto alti e bassi durante gli anni di Liceo, cosa perfettamente normale a quell’età. In fatto di amori, le più uniche che rare coppiette furono estremamente temporanee. Le rare “cotte”, mantenute nel più stretto segreto, specie dalle ragazze. A quei tempi se ad una ragazza piaceva un ragazzo della classe, ci faceva per lo più a pugni. Se ad un ragazzo piaceva una delle ragazze meno belle (quelle belle piacevano a tutti, ma non ti filavano), si limitava a non prenderla in giro, che era uno degli sporti preferiti dei ragazzi. Tutto questo derivò, naturalmente, dal fatto che la nostra classe era molto “maschile” e, come conseguenza, molto frizzante. Fummo, in sintesi, veramente “la classe più casinara della storia del nostro istituto”, e le profonde radici di questo fatto vanno cercate molto lontano.

Chi dovesse credere a certi strani segni del destino, avrebbe potuto notare sin dall’inizio che la nostra non sarebbe stata una classe ‘normale’. Provenivamo da una Scuola Media dove le classi Maschili e Femminili erano separate. Il fatidico primo Ottobre, alla prima ora di lezione di quel lontano IV C, ci trovammo per la prima volta in classe mista. Pochi si conoscevano da prima, e fu subito chiaro che il numero dei maschi soverchiava quello delle femmine. Questo sbilanciamento sessuale fu poi, come già scritto, esasperato dalla Zona. Quando l’insegnante di lettere cominciò a fare il primo appello, fu subito chiaro che in IV C non c’erano né Aldobrandini, né Borgia, né Caetani. Anzi non c’erano nemmeno Falconi o Ferrari. Il primo ad essere chiamato all’appello fu un biondino dall’accento vagamente toscano di nome Ganimedi Gabriele. La lettura dei nomi procedette per una buona mezz’ora, terminando con una ragazza bella, alta e bionda di nome Zucchi Piera. Dicevamo dei segni del destino che avrebbero dovuto far presentire che quella classe non sarebbe divenuta una ‘classe regolare’: Dopo aver chiamato all’appello la signorina Narcolone Emma ed il signor Narci Anselmo, la Prof. di Lettere procedette indisturbata verso il signor Olivieri Odoacre (che nome!), si dilungò poi attraverso i due Verdi (Ma che ti fai la solita domanda cretina se siamo fratelli? Non lo vedi che ci somigliamo solo... negli occhiali?) e dopo aver fatto conoscenza con la signorina Ranieri Genoeffa e con la signorina Raviani Rossella, fu chiamata la signorina Remo Nora. Fu allora che, dall’ultimo banco, si alzò uno spilungone magro che rispose il fatidico: “Presente!”. La Prof. lo guardò sospettosa. Ma tu..., lei, non è la signorina Remo? Come ti chiami... tu? Il ragazzo fece la faccia innocente e rispose con malcelata enfasi: “Remo Nora!”. Il registro di classe fu sostituito con uno nuovo di zecca, dove il nostro Remo occupò definivamente il suo posto tra Anselmo ed Odoacre.

 

I ragazzi, dunque, erano più delle donne, e si dedicarono coscenziosamente allo sport di rendere loro la vita il più difficile possibile in classe (fuori classe, alle feste, la situazione cambiava drasticamente).

Le ragazze portavano a scula con loro la ‘colazione’. In genere si trattava di un panino o di un cornetto, da mangiare alla ‘ricreazione’, cioè alla fine della seconda o (a partire dal Secondo Liceo) della terza ora. I ragazzi in genere non si portavano niente, ma sottraevano la colazione delle ragazze. Alcuni di noi, Nino, Remo e soprattutto Ernesto erano dei veri campioni. Credo che ad un certo punto alcune ragazze si portarono la colazione doppia, Un panino, messo bene in vista, veniva sottratto, l’altro, ben nascosto, sopravviveva all’operazione sottrazione e fungeva da colazione alla ragazza.

 

Ora vi racconterò un fattaccio che ho tenuto gelosamente segreto. Spero che il crimine sia caduto in proscrizione e che Donatella voglia perdonare la malefatta, dopo aver letto la confessione.

 

Il Dario  era l’unico ad avere passione (ed a capire) la Chimica. A casa si era costruito un piccolo laboratorio per gli esperimenti, racimolando vari prodotti e reagenti, vuoi in farmacia, vuoi dal ferramenta. Tra i vari idrossidi e solfuri (no, celenterati no. Sono degli animali), per la maggior parte polveri bianche di aspetto zuccherino, c’era anche il Solfato di Magnesio (Epsomite), detto anche Sale Inglese,  notissimo e potentissimo lassativo. Un bel giorno al Dario  venne la diabolica idea di ‘punire’ i sottrattori di merende, soprattutto il Don, che negli ultimi tempi si erano fatti eccessivamente sfrontati. L’idea era chimicamente semplice: mimetizzare un pizzico di Sale Inglese (la sostanza è piuttosto amara) nello zucchero di un cornetto ed attendere il risultato della ‘sottrazione’. Per l’operazione fu scelto il cornetto di Genoeffa. Il Dario  fece la cosa di primo mattino, nel massimo segreto, non mettendo al corrente nessuno. Voglia il caso che quel giorno Ernesto si assentò e Genoeffa, alla ricreazione, dette fraternamente il suo cornetto a Donatella. La poveretta fu presa da poderosi attacchi intestinali e dopo alcune visite ai gabinetti, si vide costretta ad abbandonare la lezione in pianto. Il nostro Cheppalle  chiede perdono. Come avrebbe dètto il Mistico: “L’intènziòne era buona, il risultato mèèèno”.

 

 

 

 

L’Anuro di Ranio

 

Il contesto:

 

Secondo liceo, secondo quadrimestre. I giochi si stavano compiendo e i più erano alle prese con l’affannosa conquista della salvifica sufficienza e del recupero degli “impreparati” All’epoca dei fatti, anche io avevo delle pendenze, allora, come ora un po’ tutti, anche se di altra natura, con Storia dell’Arte. Ricordo che con il K, durante le sessioni di pratica dal La Busta, americana classica chi-perde-paga, così si ripassava: <una cattedrale costruita in prossimità di un porto è probabile che abbia una navata, se ne ha due allora si chiama battistereo>. 

 

Naturalmente tale situazione di stress  era la norma per tutti, in particolare per Remo. L’eccezione in Biologia era Rossella, da sempre sogno irraggiungibile della iper-ormonizzata fauna maschile della II C. Costei, perennemente alle prese con il pressing degli spasimanti, era stata di un abilità sopraffina nel primo quadrimestre a non farsi interrogare ed era riuscita con improbabili giustificazioni e promesse di “volontariato” ad arrivare indenne alla fine di maggio, esaurendo la pazienza del non più mite Paguro.  

 

Insomma l’interrogazione di Rossellina era da qualche settimana argomento ricorrente, un atto incompiuto che vedeva ogni volta la protagonista nascondere la testa sotto la sabbia, come certi uccelli che non volano una sorta di interruptus consumato pubblicamente, tantochè una “ola” (o forse era un “olè”) collettiva accompagnava la faccia sgomenta del Paguro quando, entrando, notava per l’ennesima volta l’assenza della nostra, nonostante le promesse e i giuramenti fatti nel corridoio fuori orario, qualche ora o il giorno prima.

 

Per cui l’ora trascorreva tra le noiose disquisizioni del Dario con il prof sugli idrossidi, solfuri e celenterati, e per evitare la frammentazione degli ioni di cobalto[1] che inevitabilmente e copiosamente si formavano, si coltivava la pratica del rastrellamento dei testi con collaudato gioco di squadra spesso per restituire con gli interessi qualche nefandezza subita (reddere ationem), nel completo e complice disinteresse per le lamentazioni di Emma (redde rationem ovvero restituitemi la merenda).

 

Su altri fronti imperversava Berta che ci ammorbava con Cicerone e le sue opere Pro Caelio, Pro Ligario, Pro Milone. E’ in  questo humus culturale che avviene l’avvicinamento di molti di noi alle Pro Stitute.

All’epoca dei fatti, inoltre, era di moda la pratica del “suggerimento falso”, nata per caso a seguito di un effettivo disguido (Lucrezio in partenza dal Leopa  , Panezio il rilancio del Mellibeo all’interrogando) che causò l’ennesimo scompenso ad una Berta ormai debilitata da un anno di scaramucce e scontri frontali.

 

Il misfatto:

 

Sulla base del fatto che la scaltra Rossella aveva via via negoziato con il Paguro impegni decrescenti (tutto il programma, gli argomenti del secondo quadrimestre, l’esclusione della chimica, …) pervenendo infine al risultato di una interrogazione su un argomento a piacere, il piano elaborato dal narrante Galassi, sostenuto operativamente da Nino, era articolato in due fasi. In quella preliminare si doveva convincere Rossella che una mossa vincente era trattare un particolare argomento : i rettili e gli anfibi, con particolare riguardo per questi ultimi. Nella seconda, da attivare immediatamente a ridosso dell’interrogazione, era quella di farle dire uno “sfondone”, così macroscopico da suscitare la pubblica ilarità senza comprometterne l’esito.

 

La prima parte fu facile, quasi banale. Stante le croniche assenze della nostra alle lezioni, argomentammo il suggerimento con l’estasi quasi mistica con cui il Paguro si era soffermato nella spiegazione della metamorfosi delle rane, l’enfasi della meraviglia della natura che consentiva la trasformazione di un quasi pesce, il girino, in un individuo adulto con connotati specifici, la sonorità con il caratteristico rigonfiamento, la morfologia delle zampe del maschio e la loro funzionalità nella fase di accoppiamento, la deposizione delle uova in ammassi rotondeggianti, l’habitat terracqueo, la doppia vita con la separazione delle attività di alimentazione, svolte di giorno, dal resto delle attività relegate alla notte, la commestibilità (<ottimo il risotto con le rane consumato nel vercellese durante una gita con la fidanzata >

 

Fu invece dura il fatidico giorno attuare la seconda parte. Il sacrificio si sarebbe consumato alla quarta ora, subito dopo la ricreazione, e la poverina quella mattina si presentò dimessa negli abiti, bianca come un cencio, senza un ombra di trucco e con occhiaie da marsupiale, per la notte insonne. Virilmente superai la pena e recitai la mia parte. <A proposito della tua interrogazione – esordii, mentre lei stava ripassando seduta al banco- ho letto l’altra sera sull’ultimo numero de Le Scienze, di una scoperta effettuata da alcuni studiosi inglesi. Secondo loro, a conferire elasticità alle ossa delle zampe della rana per consentirle l’effettuazione di salti apparentemente impossibili stante la massa muscolare, è un particolare sale, l’ANURO DI RANIO che permea gli snodi e le parti gelatinose degli arti inferiori. La notizia a detta dell’articolista ha suscitato l’interesse dell’intera comunità scientifica internazionale per i risvolti e la funzionalità che tale sale potrebbe svolgere nello studio della morfologia dei vertebrati. Tale composto chimico rivela poi … Con questa primizia stupirai il Paguro, che diventerà docile come un agnellino>.  Al buon Nino il compito durante l’intervallo ricordarle di non dimenticarsi della “dritta” di Gabriele per fare una bella figura e farsi perdonare qualche lacunosità su eventuali domande di approfondimento.

 

Tesissima si avvicinò alla cattedra e dopo alcuni convenevoli del Paguro, del tipo “finalmente”,”alla fine ce l’abbiamo fatta”, “ha mai sentito parlare della Zona Cesarini ?”, iniziò la sua esposizione sugli anfibi, prima un po’ titubante poi, vedendo i cenni di assenso del prof,  sempre più sicura. A quel punto, quando le parole erano fluide ed ogni incertezza era svanita, piazzò il suo acuto. Non si preoccupò della perplessità mostrata dal Paguro quando disse che sfogliando Le Scienze, aveva letto un articolo pertinente all’argomento trattato. Quando invece referenziò l’anuro di ranio, io, Nino, il Secco e qualche altro, che era al corrente, scoppiammo a ridere.  Rossella in un attimo passò dallo stupore ad un pianto a dirotto e uscì dall’aula sbattendo la porta. Qualche compagna corse a consolarla, mentre io spiegai al Paguro la burla architettata, chiedendo scusa. Quella volta non ci furono rappresaglie e tutto finì in gloria, con me e lei promossi in Biologia.

 

Carote e finocchio

 

Continuando a narrare la storia della ‘crudeltà mentale’ dei ragazzi nei confronti delle ragazze, non si può fare a meno di ricordare quella attuata contro Flavia, anzi contro “Giacoma”, perché nessuno di noi ha usato chiamarla per nome proprio in tutti gli anni di Liceo. Non che questa fosse una sua prerogativa speciale, dato che la maggior parte di noi veniva generalmente chiamato per cognome o, meglio per soprannome, ma Flavia era una ragazza così grigia, da essere considerata dai ragazzi, più che una compagna, un mobile messo lì per caso. Flavia era uno degli alunni più anziani. Incominciò già il Quarto con noi come ripetente, ma sicure informazioni (di cui non posso rivelare la fonte) la danno di almeno due anni più anziana della maggior parte di noi. Quasi sicuramente aveva ripetuto anche una classe alle Medie Inferiori. Giacoma, l’avrete capito, non brillava in intelligenza. Si barcamenava nell’eterno grigiore di quel secondo banco vicino alla finestra. Taciturna, alta, brutta ed attrezzata di un paio di occhiali con lenti a fondo di bottiglia, che servivano solo ad accentuare il suo aspetto quasi spettrale. Aveva forse solo due anni più di noi, ma sembrava già una vecchia zitella. Ma forse la ragione di tutto questo era proprio legata a quelle lenti: ripensandoci ora, a distanza di trent’anni, Flavia era praticamente quasi cieca. Magari il suo grigiore non dipendeva da una scarsa intelligenza, ma piuttosto dalla difficoltà di leggere i testi e di seguire le spiegazioni alla lavagna. Fatto sta che, nel suo grigiore, ce la trovammo ad ogni nuovo anno come compagna, e non si perse mai per strada.

 

Fino al Pimo Liceo i giorni di scuola cominciavano verso le otto e mezza di mattina e si prolungavano per quattro o cinque ore, con un solo intervallo di dieci minuti, la ricreazione, alla fine della seconda ora. Il numero di giorni con cinque ore aumentava di anno in anno, finendo, in terzo a comprenderli tutti, meno il sabato. Non si sa per quale ragione, in Secondo, il Sordello decise di cambiare le regole, alle quali eravamo abitiati fin dalle medie, e di spostare la ricreazione alla fine della terza ora, aggiungendo altri cinque minuti. L’innovazione aveva una sua sana logica: quella di sfruttare  meglio le ore mattutine, in cui alunni ed insegnanti erano ancora svegli (a quei tempi si andava a letto presto). Ma la nostra classe, nel bel mezzo della Bertarivoluzione  , vide in quel cambiamento arbitrario un altro sopruso delle ‘Forze Costituite’. La nostra reazione (appoggiata silenziosamente dal Sartana) fu di fare una dimostrazione ‘di Non Violenza’. Appena suonava la campanella della ricreazione, tutti i banchi venivano spostati e trasformati in una grossa tavolata  Comparivano tovaglie, piatti e cibarie prelibate ed abbondanti di tutti i generi. Venivano invitati i professori di passaggio ad accettare un assaggio (ovviamente accettava solo il Sartana). Passato il quarto d’ora, al suono della campanella, il tutto veniva rapidamente ripiegato e si continuava la lezione della quarta ora. Se c’era Storia e Filosofia, si lasciava la disposizione dei banchi com’era. Da qui forse ebbe origine la Rivoluzione Sartanica di cui ho già parlato.

La cosa andò avanti per un po’, finche ci stancammo e prendemmo l’abitudine di fare le prime tre ore di filato. Proprio in questo periodo di manifestazione alla Ghandi, venimmo a sapere dell’incipiente compleanno (il diciottesimo, se non addirittura il diciannovesimo) di Giacoma. I ragazzi indissero tra di loro una competizione. Per il fatidico giorno, ognuno di noi portò a colazione una carota ed un finocchio, delle dimensioni più  grandi possibili, chiaro riferimento alla situazione di ‘Vecchia Zitella’ di Flavia. Al suono della campanella ci sedemmo tutti attorno a lei sgranocchiando i mastodontici ortaggi. Non ricordo chi vinse, ma la carota pià grossa misurava settanta centimetri in lunghezza e cinque in spessore. Crudeltà mentale, anche se non mi pare che Giacoma se la prendesse troppo. Furono le altre ragazze a portarci il broncio per un po’.

 

Proseguiamo la nostra storia. Avrete notato che gli avvenimenti raccontati non hanno un ordine preciso, né temporale, né logico. Ciò è spiegato dal fatto che su queste pagine sono stati raccolti i ricordi frammentari di tempi ormai lontani e, come si sa, i ricordi spesso si accavallano tra di loro. A volte vengono in mente particolari sfuggiti in precedenza. Nel nostro caso, poi, la Storia di Berta & c. non è stata buttata giù da una singola persona, ma da diversi ex-compagni, che hanno avuto e, spero, continueranno ad avere fino alla fine, la pazienza di collaborare con il loro ricordi personali. Grazie a questo Team-work, le rimembranze si corraborano le une con le altre ed il quadro si fa sempre più chiaro. Ma non stiamo scrivendo un libro di Storia per le generazioni future. Siamo qui solo a farci quattro risate tra vecchi “camerati”. La maggior parte di quanto è stato scritto finora, e sarà scritto nelle prossime pagine, non potrà mai essere assaporato fino in fondo da chi non l’ha vissuto di persona. Al massimo l’estraneo lettore potrà fare qualche analogia con situazioni analoghe vissute personalmente.

 

Rileggendo la prima parte di questo scritto, buttata giù più di trent’anni fa, quando i ricordi sarebbero dovuti essere più freschi, ci siamo accorti di aver detto diverse inesattezze. Non sono cose essenziali, beninteso, ma la pignoleria impone di ritornare e di ampliare alcuni avvenimenti, alla luce dei nuovi ricordi venuti a galla col tempo.

 

A tale proposito si è raccontato che dopo la “storia del gattino” e la verniciatura delle finestre di verde opaco, i “soliti ignoti” spaccarono a sassate i vetri della classe. Si è detto che ci rifiutammo per due giorni di entrare nell’aula, con la scusa degli spifferi invernali, finché i vetri furoro riparati, nostro malgrado.

I ricordi, ritornati a galla da allora, raccontano i fatti con più particolari:

La burocrazia comunale lavorò con maggiore lentezza di quanto si è detto. Il preside, dopo due giorni di sciopero, si rese conto che era necessaria una soluzione di ripiego, in attesa dell’agognato vetraio comunale, e decise di far continuare temporneamente le nostre lezioni, in mancanza di aule libere, nella biblioteca del Liceo.

Era questa una stanza non pià grande delle altra aule, per tre quarti occupata da alti scaffali metallici dal soffitto al pavimento. L’unico spazio libero era rappresentato da un lungo ‘corridoio’, largo un paio di metri, tra gli scaffali ed il muro. Lo spazio in questione era occupato da un lungo tavolo di lettura (allora non c’erano i PC). Il tavolo era di fatto costituito da tre o quattro “cattedre”, i grandi tavolini occupati, in classe, dai professori. Nelle normali aule la cattedra era posta su un rialzo (che è poi – vero – la katedra originale, come – vero - ci insegna Aristotele). La cattedra era un grosso scrittoio, chiuso su tre lati da uno spesso strato di compensato, in spirito con i preistorici costumi della vecchia scuola, (per non far vedere le gambe delle professoresse bellocce e per permette a qualche professore di grattarsi i... senza essere visto dagli alunni, a seconda dei casi).

Nella biblioteca sarebbe stato molto più pratico mettere dei tavolini ‘aperti’ da tutti e due i lati, ma, evidentemente, il Ministero della Pubblica Istruzione riteneva l’assegnazione speciale una cosa troppo complessa.

Quando entrammo a far lezione nella biblioteca eravamo già sufficietemente eccitati dalla novità. Il Sartana ed il Paguro, si sedettero, ovviamente a ‘capotavola’ ed ebbero un po’ di difficoltà a mantenere la disciplina di una classe seduta di qua e di là sui lati lunghi, una dozzina di compagni per lato.

Quando, alla terza ora, Berta entrò per la prima volta a far lezione, decise che il posto a capotavola non le consentiva sufficiente spazio per mettere il registro e le scartoffie personali e, spavaldamente, fece alzare uno di quelli che sedeva dalla parte del ‘lato aperto’ del tavolo centrale. In men che non si dica attorno a lei si fece il vuoto. Tutti i ragazzi che sedevano fino a quattro sedie di distanza alla sua sinisrta ed alla sua destra, si alzarono e trasportarono le loro sedie sul lato opposto, il più lontano possibile da Berta, prendendo posizione in seconda fila, in ‘galleria’. Inutile dire che quelli davanti non volevano concedere un po’ spazio a quelli di dietro, e che le due ‘file’ incominciarono a darsi un po’ di spinte sotto la linea dell’orizzonte, gli uni contro gli altri. A un certo punto un ignoto della fila posteriore sferrò un calcetto in avanti e la tavola di compensato produsse un rimbombante suono di “Tamburo principal della banda d’Affori”, amplificato dalla risonanza dei tavolini limitrofi. Fatta la scoperta, il concerto di Tam-Tam andò avanti ad ogni nuova ‘perla’ di Berta, dapprima in sordina (Adagio ma non troppo), per passare ad Allegro vivace, e per finire a mo’ del “Bolero di Ravel” in un  Finale in crescendo Maestoso con brio, che fece crollare definitavente i nervi di Berta.

 

Mi pare che quella fu la volta che lei ci lasciò temporaneamente per fare un tentativo di insegnare alla sezione A, prima di andare definivamente in pensione.

 

E poi c’è di dice che visitare le biblioteche non serve a niente!!

 

 

Lambrette, Vespe e... portajella

 

Il nostro liceo era situato in posizione ‘fuorimano’, all’estremo Est del nostro Lungomare. I compagni più vicini abitavano a diverse centinaia di metri di distanza, la maggior parte di noi ad un chilometro o due, per non parlare di quelli che, come Pasqualone, Kappa, Don Ernesto e Borsa, dovevano prendere il trenino o due autobus ogni mattina. Dato che c’era da scarpinare un bel po’, il ritorno a casa alla fine delle lezioni era sempre una festosa fiumana, specie nelle belle giornate primaverili. Spesso e volentieri la fiumana si spezzettava in piccoli gruppetti od in timide “coppiette”, dove un ragazzo cercava di attacare discorso con qualche ragazza libera, e di “incominciare”. La fiumana si frammentava strada facendo, specie al Cavalcavia, passaggio obbligato per quelli che abitavano dietro la ferrovia. Se la fine delle lezioni ci vedeva uscire gioiosamente in formazione compatta, l’arrivo mattutino ci vedeva sopraggiungere a piccole gocce, più o meno secondo un ordine stabilito: Primo tra tutti Pasqualone. Quando arrivavano gli altri era già lì, come se ci avesse dormito la notte. Gli altri arrivavano un quarto d’ora prima della campanella (venti minuti prima, per copiare gli esercizi di Latino da Giacomo). Emma arrivava in macchina, accompagnata dal padre, alla campanella meno dieci, ed il Dario  arrivava in eterno ritardo, due secondi prima dell’inizio delle lezioni.

 

Verso il Quinto cominciò la motorizzazione. La patente di guida si poteva prendere solo a 18 anni, ma già dai 16 era consentito andare in motoscooter di 50cc di cilindrata (senza targa). Si formarono subito due partiti: quello della Vespa e quello della Lambretta. Le Vespe erano più maneggevoli, erano colorate in una vasta gamma di colori pastello alla moda, ma erano considerate meno sicure sulla strada. Le Lambrette erano più solide, affidabili e, soprattutto, avevano più posto per un secondo passeggero (tra l’altro vietato dal codice della strada fino ai 18 anni).

Non tutti i padri si potevano permettere il lusso di motorizzare il propri rampolli, ancora meno erano quelli che acconsentivano, pur potendolo, di dare in mano ai ragazzi un aggeggio pericoloso, anche per quei tempi di traffico relativamente modesto sulle strade.

 

In classe nostra il primo a raggiungere l’età della motorizzazione fu Ezio. Optò per la Lambretta. Bianca. La parcheggiava proprio di fronte alla finestra ed, almeno all’inizio, sbirciava ogni cinque minuti, per controllare se era ancora al suo posto. C’era sempre. Al ritorno a casa si dedicava all’accensione con noncelataffatto soddisfazione, tra un nugulo di compagni (finché ci stancammo di seguire la “scena”) e la ragazza ‘accompagnata di turno’. Non che Enzo ci facesse di più, con la ragazza, ma, sapete com’è: era una buona scusa per farsi abbracciare. La ragazza era pur costretta ad appigliarsi a qualcosa, per non cadere per strada dalla Lambretta...

 

Enzo poi, arrivato ai 18, fu anche il primo a prendersi la patente ed a farsi la macchina, una cinquecento, naturalmente bianca anche quella, ma la portò a scuola una volta sola: ricevette il nostro benvenuto trovando subito una ruota a terra, cosa che lo fece andare in bestia sul serio. Ma era di prassi. In Israele i piloti dell’Areonautica che fanno il primo “solo”, ricevono catinelle d’acqua in testa e calci in... dai colleghi veterani.

 

Quando arrivarono all’età, altri si aggregarono al club dei motorizzati. Il Secco optò per la Vespa, ma la maggior parte rimasero appiedati. Qua e là venivano fraternamente caricati dai motorizzati (se il posto non era già occupato da qualche ragazza).

Non tutti optarono per la macchina. Giacomo si comprò una Lambretta 150 e  Vito, un “Roscio” del Primo una ‘Gilera’ tutta cromata (come la canzone di Battisti). E fu qui che il Dario  si beccò la fama di essere un “Portajella”.

 

Il Dario  era uno degli ‘appiedati’. Arrivato ai 18 non tentò nemmeno di prendere la patente, per non correre il rischio di fare qualche incidente, che gli avrebbe causato il ritiro del Passaporto. La Capiteneria di Porto (Sì, era stato chiamato in Marina, pur non sapendo nuotare!) glielo aveva concesso per soli tre mesi, e lui avrebbe avuto pochissimo tempo per uscire dalla patria, come turista, immediatamente dopo la Maturità, per segnarsi all’Università estera. Non era il caso di correre rischi.

Verso la fine degli studi, nel giro di due o tre giorni, in due occasioni diverse. Vittorio e Giacomo ‘caricarono’ il Dario  per dargli un passaggio. Sulla via del ritorno, subito dopo averlo ‘scaricato’ a destinazione, “ingripparono”. Vittorio si ruppe un braccio e Giacomo si presentò a scuola con un vistoso cerotto sul sopracciglio.

Fino alla fine dell’anno nessuno corse più il rischio di dare un passaggio a quel Portajella.

 

Ci ricorda il Dardo che la questione “portajella” aveva avuto un precedente più serio. Nell’Agosto del ’68, durante le vacanze tra il Primo ed il Secondo, ci ritrovammo, un gruppetto di compagni nella Pineta di Caltelfusano. Il Dario  era attrezzato della sua solita bicicletta priva di freni. Uno di noi (non ricordo chi) era motorizzato con un ciclomotore “Ciao”, un mezzo privo di marce, con le maniglie del manubrio fungenti l’una da freno, l’altra da accelleratore. Allora il casco non era d’obbligo. Il Dardo chiese ed ottenne di provare il “Ciao” e, presa (troppa) confidenza, sorpassò spavaldamente il Dario  sul vialetto. Per sfregio lo salutò focosamente, abbandonando la mano dall’accelleratore. Il “Ciao” protestò, riducendo improvvisamente la velocità. Il Dardo si aggrappò al manubrio con l’altra mano, azionando... il freno. Risultato: Fu portato d’urgenza al Pronto Soccorso e poi all’Ospedale, con una commozione cerebrale. Per sua fortuna (e per la bassa velocità) se la cavò con poco. La causa dell’incidente, naturalmente era stata la vicinanza del Dario...

 

Tifosi e sportivi

 

Saltiamo di palo in frasca. Con immenso rammarico dei pochi lettori, abituati alle nostre spesso comiche avventure liceali, avverto che questo pezzo della Storia non sarà particolarmente ilare. Direi, addirittura che, per alcuni di essi, che non ne sono stati gli eroi, sarà persino noioso, ma, visto e considerato che la nostra storia, originariamente pensata come l’epopea della guerra contro Berta, è diventata, a furor di popolo, l’epopea della nostra classe, non possiamo fare a meno di menzionare le attività sportive, che per alcuni di noi, sono state parte indivisibili delle esperienze di quei giorni.

Come in tutto il mondo, nella nostra classe c’erano due tipi di sportivi, quelli che lo sport lo facevano per davvero, e quelli che lo dicevano soltanto.

Il nostro sport principale era ovviamente il calcio, praticato da tutti i ragazzi e da qualche ragazza. Il calcio veniva giocato in tre forme diverse. Quello vero e proprio, praticato principalmente sul campo sterrato della Parrocchia, aveva in Nino ed in Enzo i principali campioni. Un secondo, quello di tipo “Balilla”, detto comunemente bigliardino, era giocato sul campo “Lambusta”, al “Buco” o dal “Fantasma” e veniva praticato a coppie difensori-attaccanti, secondo un regolamento draconiano: Divieto di fare “girello” (cioè di far ruotare le stecche più di 360°) e di toccare la palla in gioco con le mani. I trasgressori venivano puniti con il classico “rigore”, che obbligava la squadra punita ad alzare gli attaccanti, mentre il difensore dell’altra squadra “sparava” un tiro micidiale con i terzini, tiro che, se sparato da Giacomo, piegava la “mano” del portiere ed entrava in rete nel 100% dei casi. Giacomo era, appunto, il miglior difensore della scuola, e per questo in genere giocava in coppia col Dario, che pur essendo un pessimo giocatore, sapeva alzare tempestivamente (non sempre) i suoi mediani ed attaccanti, prima del colpo da terzino di Giacomo. Superfluo dire che in caso di eccessiva lentezza da parte del Dario, la palla veniva rimbarzata all’indietro, causando spesso un autogol e l’ammonimento CHEPPALLE! Da parte di Giacomo.

Altri ragazzi, specie il Mandrillo, il Secco e Paolo, se la cavavano più che bene, chi in attacco, chi in difesa, per cui la nostra classe era l’indiscussa campionessa del liceo. La partita consisteva in dieci palline da giocare, con una moneta da cinquanta lire. Quando la palla andava in gol, era persa. In alcuni casi era possibile estrarla con velocità e destrezza dalla “rete” e rimetterla in gioco. Don Ernesto era un esperto in proposito. Il metodo veniva attuato dalla rapidissima introduzione in porta della mano sinistra dell’attaccante avversario, mentre contemporaneamente il portiere si spostava di lato con rapidità, per consentire l’accesso della stessa, prima che la pallina scomparisse nel buco. Questa tecnica veniva applicata, però, raramente, solo in caso di momentanee ristrettezze economiche, perché era oltremodo pericolosa: spesso e volentieri il portiere veniva spostato istintivamente dalla parte sbagliata, acciaccando ineluttabilmente e dolorosamente le dita dell’estraente. La normale “sessione” giornaliera consisteva in una dozzina di partite, sponsorizzate equamente (alla Romana) da tutti i giocatori, centocinquanta lire a testa. Questo per le partite “amichevoli”. Per le partite di campionato si usava il metodo “Chi perde paga”. Durante le sfide ufficiali uno degli spettatori fungeva da arbitro. Le nostre vittime preferite erano quelli della B, meno bravi di noi, che “spellavamo” regolarmente, facendo le dodici partite a spese loro.

Il terzo modo di giocare al calcio era quello classico del tifo per la squadra preferita, fatto davanti alla televisione o, meglio, allo stadio la Domenica. Il tifo non era limitato solo ai ragazzi. Per i più giovani va ricordato che alla fine deglio anni ’60 l’Italia era in cima alla graduatoria mondiale di questo sport. I nostri eroi avevano nomi leggendari: Rivera, Mazzola, Riva, Facchetti e chi più ne ha, più ne metta. Un mese prima della maturità (e chi avrebbe potuto realmente studiare?) ci fu quel famoso Mondiale in Messico che vide l’Italia battuta in finale per 4 a 1 dal Brasile del grande Pelè, dopo la sofferta vittoriosa semifinale contro la Germania di Haller e Schnellinger e Beckenbauer (3 a 2 per l’Italia ai supplementari). Il Brasile si portò a casa definitivamente, ma giustamente, con nostro grande rammarico,  la Coppa Rimet a casa[2].

La nostra classe era formata da una compatta maggioranza Romanista, eccezion fatta per Melibeo, che era nientepopodimenoché... Laziale. Il fatto è totalmente inspiegabile. Interista o Juventino si sarebbe potuto anche capire, ma Laziale? La ragione di questa strana preferenza forse ce la potrà dare lui. A quei tempi il campanilismo calcistico era molto ben definito: o eri per una squadra di successo nazionale (Inter, Milan, Juve), oppure eri per una squadra locale. Da noi la maggior parte del ‘popolo’ preferiva i colori sanguigni Giallorossi, mentre gli snob dell’alta borghesia, optavavano, per antitesi, per gli eterei colori Biancazzurri. Laziali erano pure i ‘paesani’ originari dei paesini del circondario. Don Pulci era Laziale, ma questo era un fatto accettato amichevolmente, perché il simpatico Sacerdote era nato a Rocca Di Papa.

Anche le ragazze partecipavano blandamente al ‘tifo’, per lo più in relazione alla presenza di un calciatore particolarmente ‘fico’ nella squadra del cuore. Maria, per esempio, era Interista. Bisognerebbe chiederle se in questro c’entrasse il famoso Facchetti.

 

Pochi e rari furono i ragazzi che si dedicarono ad altri tipi di sport, soprattutto Atletica. A quei tempi alle Olimpiadi potevano partecipare solo atleti “dilettanti”. Lo sport di professione era ancora (in teoria) riservato al calcio, alla pallacanestro ed al ciclismo. Naturalmente in tutte le nazioni del mondo si provvedeva ad aggirare questa regola anacronistica, col medoto ‘militare’. I campioni olimpici erano segnati a società sportive dell’Esercito o della Polizia, ricevendo un sostanzioso salario da graduati istruttori sportivi. Di fatto passavano il loro tempo, allenandosi in attrezzatissimi apparati paramilitari, preparandosi per le Olimpiadi e per i Campionati Europei e Mondiali di atletica. Una di queste società sportive, Appartenente alla Guardia di Finanza, le “Fiamme Gialle”, era basata nella grande caserma, situata sul viale omonimo. La caserma era ufficialmente la Scuola Sottufficiali della GF, ma in pratica comprendeva un attrezzatissimo campo sportivo con prato curatissimo e pista olimpica di tartan, l’ultimo grido di quei tempi in fatto di piste sintetiche.

Le Fiamme Gialle accettavano (forse per obbligo) di allenare una guardia di giovani atleti, provenienti dalle scuole locali, su proposta degli insegnanti di ginnastica. Alcuni della nostra classe, dal quinto al secondo liceo, andarono ad allenarsi in quel magnifico campo sportivo un paio di volte alla settimana, in varie branche di Atletica. In Terzo, poi, quasi tutti smisero, dovendo riservare le forze ed il tempo libero, chi per studiare per la Maturita’, chi per dedicarlo alla ragazza. Quattro di noi frequentarono gli allenamenti con una certa costanza: Pasqualone ed il Dario  nella corsa veloce (100 e 200 metri piani e 110 mmetri a ostacoli), Remo (Mezzofondo e Corsa campestre) e Dardo (Marcia).

Entravamo nella caserma, presentando il cartellino di riconoscimento, salutati dalla sentinella, che usciva dalla garitta, battendo i piedi sull’attenti. La cosa, all’inizio ci fece un po’ ridere, ma poi ci abituammo persino a rispondere al saluto militarmente. Qualche volta uno zelante ufficiale di picchetto, col nastro azzurro a tracolla, si degnava di salutarci e ci chiedeva le tessere per un controllo. Sulla pista a volte ci capitava di vedere qualche vero olimpionico in allenamento. Una volta trovammo un disco, apparentemente dimenticato e facemmo una piccola gara, a chi riusciva a mandarlo più lontano. Sì e no riuscimmo a lanciare quei 7 kili a una decina di metri di distanza. Poco dopo apparve il camione europeo Simeoni (quel disco non era stato lasciato lì per caso). Ci venne istintivo abbassare la testa, vedendo quell’ UFO (Disco Volante) volare sulle nostre teste da una parte all’altra del campo (in lungo), durante il “riscaldamento” di quel campione. Ci ridimensionammo subito, ritornando alle nostre modeste attività agonistiche.

 

Alla fine del Primo il nostro insegnante di Educazione Fisica riuscì ad organizzare una vera e propria competizione sportiva del Liceo, coronata da una partita di pallone dei Liceali contro gli Universitari provenienti dalla scuola. Non mi ricordo il risultato, ma fu una bella festa, tenuta allo stadio locale, con tutto il Liceo che faceva il tifo sugli spalti. Non mi pare che le ragazze partecipassero in costume da Cheerleaders.

La sessione di Atletica fu ricca di avvenimenti agonistici, con la notoria rivalità tra la sezione C e la B, che aveva anche lei una nutrita squadra di velocisti. Ma noi avevamo Pasqualone, l’Invincibile. Vinse senza contestazione i 100 e i 200 metri piani, lasciando dietro di lui di alcuni metri il secondo ed il terzo classificato, della B. Poi ci fu la cigliegina: la staffetta 4x100, della sezione C contro la B (con la IV C in veste di comparsa). L’esito era incerto, per la presenza dei due ottimi velocisti della B (Argento e Bronzo nei 100 m) da una parte, e del nostro Pasqualone dall’altra.

La nostra sezione poteva presentare solo tre ragazzi che si allenavano regolarmente: Pasqualone, il Dario  ed un ragazzo del III C, di cui non ricordo il nome. Ma era questione di Onore. Per quel tipo di gara non potevamo fare affidamento né su Remo, né su Dardo, che erano mezzofondisti. Chiamammo in aiuto Nino, allenandolo, pochi minuti prima della gara, alla bell’e meglio, alla tecnica di passaggio del testimone (fase critica nella staffetta), assegnandogli la seconda frazione (rettilineo) e lo spassionato consiglio: “Tu prendi il testimone dal Dario, afferralo bene (il testimone, non il Dario) e corri, sempre dritto, come un matto. Alla fine del rettilineo ti aspetta ... , che lo passerà ad Pasqualone. Se non sbagli, è fatta, e l’Onore è salvato!”.

Il Dario  era l’unico (con Pasqualino) che conosceva la tecnica della partenza. Pur non essendo molto veloce, non c’era scelta se non di dare a lui la prima frazione. Pasqualone aveva da poco ricevuto in regalo un paio di scarpe chiodate “Adidas” nuove di zecca dalla Società, per partecipare ad una imminente gara regionale. La fortuna voleva che la sua misura di scarpe e quella del Dario  fossero uguali. Pasqualone concesse al Dario, per quell’occasione fatidica le sue scarpe chiodate vecchie. Gli altri corsero con le normali scarpe da ginnastica. Grazie ai chiodi il Dario  si sentì volare. Passò il testimone (contemporaneamente al primo frazionista del IV C e della sezione B). Nino afferrò il testimone con tecnica perfetta (il che dimostra che, quando voleva, sapeva imparare presto e bene) e corse come un matto dritto davanti a sé. Passò il testimone con cinque metri di vantaggio al terzo frazionista. Il resto è Storia. Un errore all’ultimo cambio della B, ed Pasqualone tagliò il traguardo quasi al passo, seguito all’onorevole distanza di trenta metri dal... IV C !  Vittoria schiacciante della nostra sezione, cadetti compresi!

 

La meritata medaglia d’oro non  fu mai messa al collo dei vincitori: la staffetta era stata l’ultima gara, e di medaglie ne erano state aquistate dalla scuola quattro di meno. Il Preside ci chiese gentilmente di rinunciare alle nostre, a favore dei giovani del Quarto. Niente Patacche, ma ci è rimasta la Gloria!

 

La Maturità

 

In “Zona Cesarini”

 

Nonostante quanto possa pensare il Dardo, l’Unità d’Italia esiste solo sui libri di Storia. Il Popolo che occupa quella regione del mondo a sud delle Alpi è solo un’apparenza, un complesso mosaico di minoranze etniche, che hanno in comune solo il “sì”. Anche questo con riserva: basta andare in su ed in giù per la Penisola, per sincerarsi che la lingua cambia ogni pochi chilometri. Anche lo stomaco e le altre parti del corpo: ogni città ha i suoi piatti tradizionali, i suoi vini speciali, e soprattutto la sua Squadra del Cuore.

Ma qualcosa in comune gli Italiani ce l’hanno: gli spaghetti al dente, il caffè ristretto, le calze nuove nel primo cassetto, la Bandiera in tintoria... Come si fa a spiegare ad un Francese, ad in Inglese o ad un... Israeliano il profondo significato di quest’ultima sacrosanta verità: “La Bandiera in tintoria”?

Il Nazionalismo italiano dorme da sempre il sonno dei giusti. Si risveglia solo quando la Nazionale Azzurra va’ a difendere l’Onore ai Mondiali di Calcio. E lì si ritira dalla tintoria il Tricolore (che si era sporcato all’ultima partita allo Stadio), si spiega al vento e... ci si siede davanti alla televisione a fare il tifo. E allora, guai a disturbare “l’Italiano Vero” con le piccolezze di questo mondo...

 

Giugno 1970. La nostra classe si prepara agli Esami di Maturità. “Si prepara... ??”. Come ci si può preparare agli Esami, quando la Nazionale e’ impegnata nella fatidica conquista definitiva della Coppa Rimet?

Nona Edizione. Sedici squadre, suddivise in quattro gironi. Tre squadre con due conquiste ciascuna (Italia, Brasile, Uruguay), due con una singola conquista (Germania ed Inghilterra). La regola del campionato dice che chi vince tre volte, si porta a casa la coppa definitivamente. Il girone italiano comprende Svezia, Uruguay e la cenerentola Israele, alla sua prima ed unica apparizione, in rappresentanza dei Paesi dell’Asia-Oceania. I compagni fanno qualche allusione sarcastica in direzione del Dario: “Allora chi vince, Italia od Israele?”. Cheppalle  risponde con un diplomatico: “Io sono per il pareggio, purché l’Italia salga ai quarti di finale!”. Italia-Israele finisce 0-0 e tutto va a posto. Ai quarti si supera l’ospite Messico e si arriva alla fatidica semifinale contro la Germania. La più sofferta partita della storia del calcio italiano: 4 a 3 per gli azzurri, dopo i tempi supplementari.

Come si fa a studiare Cicerone, quando la voce è finita, urlando: “Forza Azzurri!” e le forze sono esaurite sbandierando il tricolore in quella notte insonne dopo la favolosa vittoria contro i “Crucchi” di Beckenbauer?

Siamo esausti. Come si fa ad affrontare il “Paradiso” di Dante, quando i “Diavoli” gialli di Pelè si portano giustamente la coppa Rimet a casa, dopo aver strapazzato in finale una Nazionale Azzurra completamente svuotata di energia, dopo la vittoriosa battaglia contro i discendenti del Barbarossa?

La Bandiera ritorna in tintoria, si sfilano i “Bignami” dallo scaffale più alto e si cerca di consolarci, ripassando la Storia: “... 1938 – La Germania occupa la Cecoslovacchia – I patti di Monaco. La Francia protesta...”. Ma va’... “1938 – l’Italia vince per la seconda volta la coppa Rimet, in Francia, dopo averla vinta per la prima volta quattro anni prima contro la Cecoslovacchia...”. La commissione d’esame accetterà questa versione della Storia?

 

 

I Calcoli

 

Ripensandoci bene, i “nostri” Esami di Maturità, in quella fatidica sessione di Luglio 1970, furono una barzelletta. Non bisogna denigrare sempre quelli del Ministero della Pubblica Istruzione per la mancanza di lungimiranza e per voler sempre fare difficoltà agli esaminandi. Ne sia la dimostrazione il fatto che il Ministero fece del suo meglio per renderci la vita facile, affinché i nostri esami di Maturità non venissero a distrarci dall’impegno di fare il tifo per gli Azzurri. Il Ministero si dette da fare con ben due anni d’anticipo, dimostrando una capacità di organizzazione notoriamente inesistente nella Storia del nostro Paese. 

 

Negli anni 1969 e 1970 fu fatto un curioso esperimento didattico: fino ad allora gli Esami di Maturità erano stati una cosa molto seria. Al Classico si facevano tre prove scritte e si portavano all’orale i programmi di tre anni di tutte le materie. Chi superava l’estenuante prova, veniva considerato veramente “maturo” per andare all’Università e diventare uno della Classe Dirigente del Paese.

Con la Riforma didattica che aveva creato la Media Unificata, qualcuno al Ministero si accorse che i primi rampolli della riforma avrebbero dovuto affrontare gli Esami di Maturità nella sessione del 1971. Ma la Media Unificata non era più l’anticamera del Liceo elittistico di una volta. Anche i metodi per misurare “La maturità” erano cambiati completamente. Bisognava adattare i fatidici Esami ai tempi. Fu così deciso di cambiare completamente la formula degli Esami di Maturità, in forma “sperimentale” per due anni, per poi decidere se applicare il nuovo sistema in forma definitiva. Fu messo l’accento sulla “qualità” invece che sulla “quantità”. Ci si era ben resi conto che milioni di date di battaglie e chilometri di letteratura latina dal “De Bello Gallico” a Tacito, non dimostravano minimamente quanto lo studente fosse capace di affrontare la vita moderna. In concomitanza con la Rivoluzione Studentesca, si era arrivati finalmente alla conclusione che il/la ragazzo/a diciottenne dovevano soprattutto dimostrare di saper pensare con la loro testa, invece di dimostrare di essere dei pappagalli.

Si cominciò, quindi con la riduzione dei  “programmi” da portare. Per ogni materia, solo quelli dell’ultimo anno. Per il Classico le prove scritte furono ridotte a due, e due sarebbero state pure le materie all’esame orale, sulle quattro decretate dal Ministero a Pasqua. In teoria bisognava studiarle tutte per ottenere l’Ammissione, ma in pratica chi si sarebbe sognato di toccare le materie “non decretate”? Bastava ottenere la sufficienza, facilmente ottenibile dall’insegnante in questione, che avrebbe messo, naturalmente, l’accento sulla materia d’esame. Non solo, ma delle due materie orali d’esame, una veniva “portata” dall’alunno, mentre la commissione poteva sceglierue una qualunque delle tre restanti, a patto che non fosse quella (secondo il “suggerimento ministeriale”), “nella quale l’alunno era più debole delle altre. Come dire: “lo potete bocciare solo se è un solenne somaro”.

 

Per il 1969, primo anno dell’esperimento, il Ministero decretò Italiano e Latino scritti ed Italiano, Greco, Filosofia e Fisica orali. Una decisione logica: Italiano non poteva mancare. Latino e Greco non potevano essere esclusi (uno di qua, uno di là). Rimanevano le “materie minori”, l’una umanistica, l’altra scientifica. Probabilmente al Ministero tirarono a sorte, come per gli accoppiamenti delle squadre ai Mondiali.

 

Agli orali si poteva accedere se si erano superati gli scritti. La commissione d’esame era formata da sei membri, cinque esterni più l’Insegnante di Classe. La commissione doveva decidere, innanzi tutto, se l’alunno avesse passato gli esami con successo, se, cioè era “Maturo”, dopodiché ogni commissario dava un voto tra il 6 ed il 10, così che, se si superava l’esame, il voto andava da 36 a 60.

 

Gli Esami del 1969 furono ancora “tosti”. Non tutti i commissari avevano ancora capito lo spirito della Riforma. Qualcuno infierì sui poveri esaminandi, e ci furoro alcuni “caduti”. Nel nostro Liceo furorono “trombati”, tra gli altri, Cecco, Tina ed Angelina, che si unirono gloriosamente alla nostra classe in Terzo, per riprovarci di nuovo (per Cecco, terzo tentativo).

 

L’anno successivo dimostrò che al Ministero della Pubblica Istruzione c’era gente che aveva capito lo spirito dei tempi cambiati. Gli Esami di Maturutà, a rigor di logica, dovevano controllare “la maturità” dell’esaminando. Quale poteva essere la miglior  prova di maturità, se non quella di poter dimostrare di non lasciarsi confondere le idee dai trucchi ministeriali?

Il Ministero fece con noi la prova del nove. Chi ci fosse cascato, avrebbe dimostrato di non comprendere la Logica Italiana e, giustamente sarebbe stato considerato un’Immaturo.

 

Le due domande d’esame più importanti, forse le uniche domande reali, furono poste con la conclusone della Maturità del 1969:

1. Quali saranno nella sessione del 1970 le due materie scritte e le quattro orali?  

2. quale sarà la materia che ti chiederà la commissione?

 

La Risposta alla prima domanda sarebbe stata data a Pasqua, quella alla seconda domanda, il Giorno del Giudizio, all’ora x.

 

Veramente? ... Manco pe’ gnente!

 

Si trattava di un tranello, per vedere se eravamo maturi:

 

Le materie scritte erano scontate: Italiano e Greco. Italiano non poteva mancare. Era d’obbligo. Latino e Greco si sarebbero scambiate di posto. Dunque Greco scritto e Latino orale, insieme all’onnipresente Italiano. Due materie “principali”. Rimanevano le materie “minori”. Storia, ovviamente avrebbe preso il posto di Filosofia (uscita l’anno prima). Per le Materie Scientifiche c’era più scelta: o Matematica o Scienze. Scelta apparente, perché l’insegnante di Matematica-Fisica insegnava ben quattro ore settimanali, contro le due dell’insegnante di Scienze. Quindi, Matematica.

A Storia dell’Arte si poteva fare a meno: il Ministero poteva controllare con comodità l’andamento dell’esame di questa materia al Liceo Artistico.

 

Dunque la risposta alla prima domanda era lapalissiana.

 

La seconda domanda era più difficile solo in apparenza. Ovviamente dipendeva dalla materia scelta dall’esaminando, ma si ricorda l’esplicita circolare ministeriale, che “pregava” la commissione di NON interrogare l’allievo su quella delle restanti tre materie, nella quale fosse più debole...

Per qualche alunno particolarmente dotato (o particolarmente idiota) sarebbe potuto, sì, accadere di essere interrogato su una delle materie maggiori, dopo aver portato l’altra, ma era chiaro che per la maggior parte di noi ci sarebbe stata una materia “pesante” ed una “leggera”. Bisognava quindi preparae solo due materie e non quattro.

Per portare una “materia minore” ed essere interrogati sull’altra, si avrebbe dovuto avere (Don Renzo   mi perdoni l’espressione) un culo grande come il turbante di Solimano il Magnifico.

 

L’esame del Dardo

 

Come volevasi dimostrare: fu proprio quello che successe al Dardo. Portò Storia, la sua materia preferita, e la commissione scelse per lui Matematica.

Ma le cose non stanno proprio così. Come lui stesso ci racconta trent’anni dopo, La scelta della commissione fu “concordata” dal Dardo stesso con la Prof La Trova, di Matematica, l’insegnante di classe, membro interno della commissione. Mafia? Non proprio. Mentre noi tutti facevamo finta di prepararci, tra una partita di Mondiale e l’altra, a quegli esami da barzelletta, il nostro Dardo stava studiando molto seriamente, per prepararsi ad una prova ben più impegnativa: gli Esami d’Ammissione all’Accademia di Modena, per i quali Matematica era materia d’obbligo. In vista della dura prova, chiese ed ottenne dalla Prof. di essere interrogato agli Esami di Maurità, nella materia che, in ogni caso, stava studiando molto seriamente, per tutt’altra ragione. E, giustamente, fu accontentato.

Il sudore che uscì dalle meningi spemute del nostro futuro colonnello, per ottenere quel suo meritato 49, fu solo un piccolo anticipo di quello che sarebbe sprizzato da tutti i pori del Dardo nei prossimi anni.

 

L’esame del Dario

 

Superati gli scritti, grazie ad una prova di Greco piuttosto facile ed alla innata capacità del nostro cantastorie di trovare sul vocabolario le “parole chiave”, quelle che si accompagnavano alla traduzione di intere frasi bell’e pronte, il Dario  presentò agli Orali, ovviamente, Matematica. Non cadde nel tranello, quando gli chiesero di usare la formula di Erone, per calcolare l’area di un triangolo con lati lunghi tre, quattro e sette[3]. E finalmente arrivò il fatidico momento della scelta della commissione: Italiano, come previsto. Sapendo della prossima emigrazione, furono oltremodo benevoli: “Ci parli di un argomento a piacere”. Sia per solidarietà professionale, sia per campanilismo, Cheppalle  aveva preparato un poeta minore: Giovanni Gioacchino Belli. Il Dario  partì subito in quarta con una erudita dissertazione “apacica” sulla scrittura fonetica inventata da quel rinomato scrittore di Sonetti Romaneschi. La commissione stette ad ascoltare annoiata: tra i commissari non c’era nessun romano, probabilmente i professori, il Belli non lo avevano neanche letto. Per qualcuno di essi il monologo del Dario  sembrò quasi sicuramente una dissertazione sulla semantica ostrogota. Dopo un buon quarto d’ora di pallosa attesa che il nostro la finisse (se lo avessero saputo, gli avrebbero gridato in faccia: “CHEPPAALLE!”), il capo commissione, sbirciò l’orologio, sospirò e lo interruppe: “Bene, ora ci dica del XXXIII canto del Paradiso...”. A causa dei Mondiali, Il Dario  aveva fatto a tempo a leggere sul “Bignami” solo il riassunto dei primi trenta. “Mah, non mi ricordo molto bene...”. Allora ci racconti del XXXII...”. “A dire la verità, nemmeno quello me lo ricordo...”. “il XXXI...”. “Mah, credo... forse... non sono sicuro...”. Il presidente della commissione dette un occhiata significativa  agli altri insegnanti e liberò il nostro dalla tortura. “Va bene, vada, vada pure...”. Il Dario   aveva fatto la seconda, dopo l’esame di quinto Ginnasio. Scena muta sulla Divina Commedia. Sarebbe Bastato?

Bastò.

La commissione lo promosse con un misero 37/60, forse il voto più basso della classe. Ma anche la commissione sapeva che al nostro ‘Cheppalle ’ sarebbe servito solo il pezzo di carta. In Terra Santa nessuno gli avrebbe contestato la sua ignoranza sul Paradiso dantesco.

 

E qui concludiamo la nostra Commedia, in ringraziamento alla Divina Provvidenza che permise agli eroi del Terzo C di disfarsi finalmente del Verdi , mandandolo in Medio Oriente, con le parole del Sommo Vate, che il nostro “Cheppaalle!” non fece in tempo a leggere sul “Bignami”:

A l’alta fantasia qui mancò possa:
anche l’Cheppalle  è a corto di favelle,
per narrar come andammo alla riscossa,

e come giunse ‘l Terzo C alle stelle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] L’elemento chimico Cobalto ( simbolo Co) è notoriamente bivalente. In soluzione libera ioni positivi: i Co++ ioni.

[2] Non racconterò in questa Storia ciò che successe al Dario  due mesi dopo: appena entrato nella camera assegnatagli ai dormitori dell’università estera, si trovò di fronte il suo compagno di stanza, un Brasiliano, che lo accolse con un eloquente gesto “all’italiana” (quello che si fa ponendo e staccando ritmicamente la mano sinistra sulla parte interna del gomito del braccio destro, disteso in avanti), ed un sonoro saluto, in perfetto Italiano: “UNO-DUE-TRE-QUAAATTTRO!!!”.

[3] Per chi non lo sapesse, tale triangolo ha area zero!