Da Fedro a Trilussa gli animali sono stati i VERI protagonisti dei miti e delle favole. Non i semidei e gli eroi (umani) leggendari.

E allora, perché possiamo trovare così facilmente nella letteratura la biografia di Romolo, ma non quella della... Lupa? Sappiamo tutto della vita di S. Francesco d’Assisi, ma quasi niente del lupo di Gubbio. E come visse e morì quello di Cappuccetto Rosso?

Ma non solo dei lupi delle favole non ci hanno raccontato niente: dove e quando visse la farfalletta della Vispa Teresa? Ed il Gatto Aiò di Trilussa, ingiustamente accusato di essere di razza ebraica?

È arrivato il momento di fare giustizia!

 

Eccovi la risposta  a queste e alle altre domande ne:

 

LE BIOGRAFIE DI ANIMALI FAVOLOSI

Di quegli animali, cioè,  menzionati nelle favole, ma dei quali nessuno storico ha mai cercato di saperne di più.

 

SOMMARIO

 

La lupa di Romolo e Remo

Il lupo di Cappuccetto Rosso

La farfalla della Vispa Teresa

Il Gatto Aiò

Il lupo di Gubbio

Il leone di Androclo

Il Gatto con gli stivali

...

 

ACCA LARENTIA

(lupa)

Lazio? ca. 773 A.C –  ca. 765 A.C.

 

Non è un caso che le favole di molti popoli europei abbiano come protagonisti i lupi. In Europa non si sono mai visti né leoni, né tigri allo stato selvatico. Gli unici animali capaci di incuotere paura e rispetto all'uomo sono stati gli orsi, i chinghiali e i lupi. Gli orsi e i cinghiali, però, sono animali schivi, quindi il "re della foresta" europeo è stato da sempre il cugino del cane domestico. La "regina della foresta" rappresentava nell'antichità non solo la forza ed il coraggio tipico dell'animale, ma anche, in virtù delle  cucciolate numerose, la fecondità. Non ci deve perciò sorprendere se, a metà dell'VIII secolo A.C., alcune tribù dell'Italia centrale,  preoccupate dall'espansione di potenti vicini, scegliesssero proprio la Lupa come "santa protettrice", quando decisero di fare un'alleanza tra di loro. Il dominio delle città-stato etrusche si era provvisoriamente fermato sulla sponda destra del Tevere, ma gli Etruschi davano chiari segni che in breve lo avrebbero attraversato, per estendere la loro influenza ad est ed a sud, a spese di due popolazioni che, fino ad allora, erano vissute ognuna per conto suo, sulle due sponde dell'Aniene, il principale immissario di sinistra del Tevere. L'incarico di bloccare il passaggio fu dato ai giovani in età da matrimonio. Secondo la tradizione di quei tempi, la tribù meridionale dei Latini fornì i ragazzi, mentre quella settentrionale dei Curiti, di stirpe sabina, fornì le ragazze. All'inizio della Primavera di quell'anno lontano, un gruppo di giovani latini, con a capo i due nipoti del re di Albano, andarono in avanscoperta per sceglire il sito più adatto. Fu subito chiaro che la roccaforte andava posta su una delle tre colline a ridosso dei due più facili punti di passaggio: l'Isola Tiberina ed il guado Sublicio, a valle della stessa. Escluso il colle più alto, il Campidoglio, per mancanza di spazio, rimasero l'Aventino ed il Palatino. I due capi della spedizione si trovarono in disaccordo, finché uno prevalse sull'altro, concludendo la discussione in modo cruento. Una volta fondata la "città", i ragazzi andarono a prendere le ragazze. Sempre secondo i costumi dell'epoca, i due popoli fecero prima la... manfrina: i ragazzi latini "rapirono" le ragazze sabine. Poi, con calma, per dare tempo ai ragazzi ed alle ragazze di socializzare, i padri di queste arrivarono in armi, per controllare se quei giovanotti erano in grado di proteggere le nuove mogli. Fecero un po' di chiasso, poi conclusero la "pace" con una bella festicciola (quella che gli Arabi chiamano "sulha"), dopodiché i papà, soddisfatti, se ne tornarono in pace a nord dell'Aniene, smettendo di disturbare gli sposetti. Auguri e... figli maschi!

Parecchi anni più tardi, quando Roma diventò quello che diventò, i discendenti di quei giovanotti andarono in cerca delle radici.

 

Le principale fonte dei risultati di questa ricerca è il libro "Ab Urbe Condita" dello storico Tito Livio, ma alla stessa apportarono contributi non indifferenti anche i poeti Ovidio e Virgilio, lo storico Plutarco e molti altri autori.

 

Gli storici non fanno menzione del nome della Nostra. Forse non ne aveva uno. La chiameremo per comodità Acca Larentia, come la moglie del pastore Faustolo, dato che gli stessi storici romani identificarono spesso questa figura con "La Lupa". Non sappiamo né la data, né il luogo di nascita di Acca, sappiamo solo che abitava "sulle alture vicine", quando si imbatté in quella cesta di vimini con dentro i due gemelli umani.

Quando avvenne lo storico incontro? Accettando la classica data della fondazione di Roma, proposta da Varrone, il 21 Aprile del 753 A.C., e basandoci sull'antica tradizione romana, secondo la quale  i ragazzi diventavano maggiorenni a 17 anni, Romolo e Remo, i due gemelli, non potevano avere avuto meno di quell'età (Secondo Cassio Dione avevano  18 anni) quando andarono a fondare Roma, a capo di un gruppo di giovani coetanei. L'incontro sarebbe avvenuto, quindi 18 anni prima della fondazione di Roma, nel 771 A.C.. Alla stessa data si arriva indipendentemente sommando il periodo dei re di Roma, 244 anni, secondo Tito Livio (AUC, L. I, 60) con l'affermazione di Polibio (Storie, III, 22) che il primo trattato tra Roma e Cartagine fu stipulato dai primi consoli della repubblica, 28 anni prima della calata di Serse in Grecia, fatto avvenuto nel 481 A.C., pochi mesi prima della battaglia di Salamina. La classica data della fondazione dell'Urbe è, però, contestata dallo storico Velleio Patercolo, che ci propone una data posteriore di otto anni: il 25 giugno del 745 A.C., sostenendo che Roma fu fondata subito prima di un eclissi di sole, avvenuta proprio quel giorno al tramonto. Lo storico Lucius Tarrutius, inoltre, fa corrispondere il concepimento dei gemelli con l'eclisse del 15 Giugno 763 A.C., facendoli nascere il 2 Marzo successivo, dopo 281 giorni di gravidanza. Questa data è compatibile sia con quella della fondazione di Roma nel 745 A.C., sia con il periodo dell'anno dell'incontro di Acca con Romolo e Remo: il fatto avvenne quasi sicuramente all'inizio di Marzo, quando le acque del Tevere si stavano ritirando, dopo l'ultima inondazione stagionale. L'Inverno era già finito, altrimenti i gemelli sarebbero morti assiderati. Anzi, pare che nei giorni precedenti avesse fatto parecchio caldo, visto che Acca era scesa giù dal colle, come ci narra Tito Livio, perché era assetata. Fatto di per sé strano, perché Acca avrebbe potuto sfruttare qualche fonte nel sicuro del bosco. Noi proponiamo un'ipotesi diversa: Acca scese dal colle all'invana ricerca dei suoi cuccioli che, forse lasciati incustoditi, si erano incautamente avventurati sulle sponde del Tevere in piena, ed erano miseramente annegati. Questi presunti cuccioli non sono menzionati dagli storici, ma noi non possiamo ignorare il fatto che Acca fosse in fase di allattamento, e che quindi aveva certamente partorito di recente. Il cibo, evidentemente, non mancava ed Acca, invece di mangiare i piccoli umani, li adottò, in sostituzione dei suoi lupacchiotti.

Secondo la leggenda tradizionale, i gemelli furono poi trovati dal pastore Faustolo, che li affidò alla moglie.  Gli storici ci raccontano come questa "pastorella" mettesse frequentemente le corna al marito, ma evidentemente la cosa non dava molto fastidio a Faustolo. Non possiamo giudicare il dubbio comportamento morale dei due pastori alla luce della morale giudaico-cristiana: anche nella cultura romana posteriore, il padre biologico aveva meno importanza del padre adottivo: Pater is est, quem nuptiae demonstrant. Faustolo, come sappiamo, in qualità di pastore delle greggi del re, aveva capito benissimo che Rea Silvia era la vera madre di Romolo e Remo e, giunti i gemelli in età, ritenne opportuno metterli al corrente. Quello che fecero  i gemelli poi, tuttavia, non è l'argomento di questa biografia, e lo lasceremo da parte. Circa la veridicità della diceria che fece di Acca una lupa di costumi libertini, la cosa non ha molta importanza, in quanto, come si è detto, può darsi che ciò faccia parte di remote tradizioni locali legate alla fecondità. Anzi, forse tutta la storia può avere un collegamento con tradizioni medioorientali del periodo, il che ci suggerisce addirittura che queste tradizioni potrebbero avere radici ancora più antiche. Nella Bibbia, che non fa certo parte della tradizione italica, troviamo la storia di Rahav di Gerico, chiaramente definita una meretrice. La sua professione, però, è vista sotto una luce tutt'altro che negativa: Rahav infatti, secondo la Bibbia, non solo ospita le due spie Israelite che erano venute da lei, possiamo immaginare con quali... intenzioni, ma è anche l'unica che si salva e salva tutta la sua famiglia  dalla distruzione di Gerico, proprio per aver avuto il buon senso di allearsi con i più forti. Nell'antichità, insomma, a differenza di quanto ci è stato taramandato posteriormente dalla tradizione cristiana, è proprio il più forte ad essere il più buono...

E, se vogliamo, è anche la più forte ad essere la più buona: La temuta regina della foresta europea è al tempo stesso la Grande Madre e la Santa Protettrice.

Il legame tra la storia di Acca e quello di Rahav è un legame molto debole, ed è bene acettarlo con la dovuta precauzione. Ma non ci sfugge un legame molto più solido: quello di Mosè salvato dalle acque del Nilo in piena ed adottato dalla Figlia di Faraone. Qui la somiglianza è veramente sorprendente, se consideriamo che la storia di Mosè Bambino fu probabilmente messa per iscritto almeno due secoli prima della fondazione di Roma. Anche qui ci si chiede se il primo racconto abbia influenzato quello posteriore. La cosa sembra poco verosimile, perché la tradizione Giudaica venne in contatto con quella Romana solo nel secondo secolo A.C., A meno di accettare una "trasmissione letteraria" fatta dai Fenici i quali avevano certamente contatti con i loro vicini meridionali già nel XI secolo A.C. e, molto prima della fondazione di Roma, colonizzarono le grandi isole del Tirreno.

Benché ci sia difficile trovare fonti attendibili al di fuori della Storia Romana e della Bibbia, siamo propensi ad accettare un'origine comune della tradizione del salvataggio dalle acque, anche alla luce di altre tradizioni, quali il Diluvio ed Atlantide e alle varie storie moderne di inondazioni e tsunami vari.

 

Ritornando alla nostra Acca, purtroppo i pur scrupolosi storici romani non ci dicono nulla della sua vita, dopo l'allattamento di Romolo e Remo. Possiamo presumere, alla luce della vita media dei lupi, che essa sia vissuta una decina d'anni, o giù di lì. Percui abbiamo stabilito putativamente l'anno della sua morte attorno al 765 A.C.

 

Interessante notare, in appendice, che i Romani si curarono di tramandare scrupolosamente i ricordi tangibili della via e dei fatti di Acca: per esempio si curarono di trasferire nel foro l'albero di fico, tra le radici del quale Acca trovò la cesta di vimini con i gemelli. E qui forse possiamo vedere un altro legame Latino-Biblico, che ricollega la storia della Nostra al culto della fertilità. Nella tradizione mediterranea, infatti, il fico è senza dubbio simbolo di fertilità, specie femminile. E forse non a caso, tanto in Ebraico che in Latino (ignoriamo se anche in Fenicio) il nome dell'albero è al femminile... per non parlare del connotato... pornografico, ancora esistente nei dialetti dell'Italia centrale. Tralasciamo qui, per mancanza di spazio, l'ipotesi avanzata già dagli Antichi Romani, secondo la quale dal vocabolo Lupa sia derivato quello di Lupanare. Nuovamente: bisogna ricordare che al tempo in cui la stroria di Acca fu tramandata, in Italia non era ancora in vigore la morale Giudaico-Cristiana dalla quale il mondo occidentale è stato condizionato da duemila anni a questa parte.

 

Bibliografia:

1.                  "Ab Urbe Condita"- Tito Livio, Liber I,

2.                  "Aeneides" – Virglio,

3.                  in "Vite Parallele – Teseo e Romolo" -   Plutarco

4.                  in "Antiquitates..."   M.T.Varrone

5.                  in "Historiae Romane " – Valleio Patercolo, Liber I, 7

6.                  in "Oroscopo di Romolo?  " – Lucius Tarrutius Firmanus

7.                  Polibio (Storie, III, 22, 1-2)

8.                  La meretrice Rahav (Giosuè, 2)

9.                  Mosè salvato dalle acque del Nilo,  (Esodo, 2)

 

 

 

COMPèRE LE LOUP

(lupo)

Lorena? ca. 1620 – 1630

 

Le due fonti più autorevoli della sua biografia sono i “Racconti e storie del tempo passato” (meglio conosciuto come “Racconti di Mamma Oca”) di C. Perrault e le “Fiabe per bambini” dei fratelli J. E W. Grimm.

 

Le due fonti, per quanto affidabili, differiscono in un particolare molto critico della biografia. Siamo propensi ad accettare la versione di Perrault come quella più attendibile, in quanto molto più vicina al perido storico in cui avvennero i fatti. La versione dei Fratelli Grimm, infatti, è posteriore di ben 115 anni. Non è escluso che Perrault abbia fatto ricevuto le informazioni che ci tramanda, da animali o da persone che conobbero personalmente i protagonisti.

 

Perrault non ci tramanda alcun particolare che ci permetta di rintracciare né la regione della Francia in cui visse Compère, né tantomeno l’anno della sua nascita, Egli parla solo di “tempi antichi”, cioè di diverse decine di anni prima della pubblicazione del racconto. Tuttavia, sia il vestiario descritto in modo particolareggiato, sia gli usi e costumi della famiglia di Cappuccetto Rosso, ci fanno pensare che il fatto avvenne non prima della prima metà del XVII secolo.

 

Dunque Compère potrebbe essere vissuto in qualunque regione boscosa della Francia. Per la scelta della Lorena ci siamo basati sul fatto che la storia è stata poi ripresa dalla narrativa tedesca.

 

In base a quando ci scrive Perrault, possiamo stabilire che la famiglia di Compère vivesse in una zona vicina ad un corso d’acqua o a campi di grano (la presenza del mulino) ed anche che la mamma di Cappuccetto Rosso possedesse almeno una mucca. Perrault ci narra, infatti, che Cappuccetto Rosso portò alla nonna gallette e burro.

 

Circa Compère, possiamo dire con certezza che si trattava di un lupo molto furbo, sagace e pignolo. Infatti non si dimenticò di richiudere la porta, dopo aver divorato la nonna. Inoltre, sempre stando a questa fonte, non ci risulta che dopo aver mangiato anche Cappuccetto Rosso, Compère sia stato catturato da un cacciatore.

 

Al contrario di quanto ci dice Perrault, abbiamo buone ragioni per screditare, nei particolari, la versione di Jakob e Willhelm Grimm. Innanzi tutto siamo restii ad accettare che Compère fosse in realtà un lupo tedesco di nome Rotkopf (Testarossa) o Weißkopf (Testabianca) Wolf. I fratelli Grimm, inoltre, ci narrano che Cappuccetto Rosso portò delle paste e del vino alla nonna, la quale avrebbe mangiato e bevuto con soddisfazione alla fine della brutta avventura. Questo particolare della storia sembra inventato di sana pianta: Anche nei tempi passati si sapeva che è molto sconsigliabile bere alcolici per una persona anziana, malata e, soprattutto, appena reduce da un forte stress.

 

I Fratelli Grimm ci vogliono far credere anche che Compère fosse un lupo piuttosto stupido, e che si dimenticò perfino di chiudere il lucchetto, dopo aver mangiato la nonna. La cosa è inverosimile, considerando che nel periodo storico di cui trattiamo, in quella zona geografica si aggiravano soldataglie ed animali feroci. Difficile credere che Compère avrebbe tralasciato di chiudere la porta col lucchetto.

 

Di carattere diverso è, invece, la probematica della presunta morte di Compère.

Il Perrault, infatti, non ci scrive niente a proposito, mentre i Fratelli Grimm ce ne fanno una descizione a dir poco... fantasiosa!

Secondo la versione di Rotkäppchen, infatti, Wolf (Compère) sarebbe morto di... ostruzione intestinale, causata dai sassi introdotti nel suo addome da Cappuccetto Rosso, dopo essere stata salvata dal cacciatore. Questa versione è, però inconsistente con il fatto che Compère aveva subito poco prima, sotto anestesia, un taglio cesareo, nel quale gli erano state praticate ben quattro incisioni, e che non gli erano state ancora applicate le suture. La causa della morte di Compère andrebbe attribuita semmai ad una possibile emorragia post-operatoria, piuttosto che ad occlusione intestinale.

 

Benché molto lacunosa, la versione dei Fratelli Grimm getta un po’ di luce sulla famiglia di Compère. Sembra, infatti, che un suo parente stretto, forse un fratello od un cugino, di nome Testagrigia (Graukopf) sarebbe andato alla ricerca di Compère, a causa della sua lunga assenza, e avrebbe trovato la morte in seguito ad un incidente: secondo la versione dei Grimm, sarebbe caduto dal tetto della casa della nonna di Cappuccetto Rosso, ed affogato un un pentolone. La credibilità di questa versione è però nuovamente sminuita dall’inconsistenza tra la tipologia dell’incidente (caduta dal tetto) e la causa della morte (affogamento invece di trauma da caduta ed ustioni multiple).

 

Tralasciamo di riportare in questa biografia le versioni apocrife di Freud e di Fromm, che hanno voluto interpretare  l’assenza del padre di Cappuccetto Rosso nelle versioni di Perrault e dei Fratelli Grimm, e la sua identificazione con Compère, alla luce di un presunto Complesso di Elettra.

 

Bibliografia:

1.         “Le Petit Chaperon rouge”  in Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités” (Contes de ma mère  l'Oye) – Charles Perrault – (1697) – ed J Barchilon, 1956.

2.         “Rotkäppchen” in “Kinder und Hausmärchen” – Jakob & Wilhelm Grimm - ed. ? Abel & Müller Verlag, Leipzig – 1812.

 

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ETTA GENTILE   

(farfalla)

Modena? – Primavera-Autunno 1865

 

Abbiamo valide ragioni per pensare che Etta sia stata una farfalla della specie Licaena dispar, vissuta nei dintorni di Modena attorno al 1865. Sembra che usasse far precedere il suo nome da quello dell’ordine zoologico di appartenenza, e che fosse quindi generalmente conosciuta come Gentil Farfalletta. Sebbene il cognome Gentile sia tuttora molto diffuso in tutta Italia, la famiglia di Etta, si è quasi estinta nel XX secolo, ed oggi i suoi discendenti vivono solo in ristrette zone paludose del basso bacino dell’Arno. Sembra che i discendenti di Etta siano destinati a scomparire definitivamente nei prossimi anni, sia per la mancanza di cibo (il Rumex), sia per la spietata caccia alla quale la famiglia è stata soggetta da sempre. In Inghilterra la specie si è estinta al tempo di Etta. Nella Letteratura italiana troviamo una tangibile testimonianza di questa caccia crudele e spietata, proprio nella storia dell’incontro poco gradevole che Etta ebbe con la signorina Teresa Vispa che, appunto, la incontrò e la catturò in un prato, lasciandola, però, poi libera, quando Etta le fece notare che anche lei era figlia di Dio.

 

La Storia non ci dice molto di Etta, ma quanto riportato nella Vispa Teresa Allungata di Trilussa ci assicura che il colore di Etta fosse arancione o giallo, come quello che lasciò in ricordo sulle dita della signorina Vispa, e quindi non pensiamo di sbagliare, assegnadola alla specie Licaena dispar.

 

Non si hanno altre notizie sicure sulla breve vita di Etta. Anche le informazioni sull’identità  della signorina Vispa sono molto incerte. Più certo è, invece, il luogo di nascita e di residenza di Etta, che fu quasi certamente la zona umida attorno a Modena, in quanto la storia dell’incontro con la signorina Vispa è ricordato in un libro dello scrittore Luigi Sailer, milanese, che visse però a Modena ed insegnò all’Accademia Militare. Il Sailer dedicò il racconto ad una principessina Savoia-Carignano definita “incorreggibile, perché male avvezza”, incontrata, probabilmente durante una visita estiva di quest’ultima, insieme ai genitori, alla Regia Accademia, da poco facente parte dell’Italia Unita. Abbiamo ragione di pensare che il nome Teresa Vispa sia stato, però, uno pseudonimo, forse voluto dalla censura, infatti non ci risulta dell’esistenza di una principessina Savoia-Carignano di nome Teresa della giusta età.

 

Alcuni storici hanno pensato di identificare la signorina Vispa con Vittoria Vercellana, figlia naturale di Vittorio Emanuele II e di Rosa Vercellana, la Bella Rosin, favorita del monarca. Ma Vittoria nacque nel 1850, ed avrebbe incontrato Etta a quindici anni, età nella quale anche le principessine di allora non inseguivano più le farfallette, ma, semmai, erano inseguite dai... farfalloni. Questa teoria ci sembra incompatibile anche con quanto riferito Trilussa ne “La Vispa Teresa allungata”, nella quale si dice che la signorina Vispa, rimase nubile ed aprì una tabaccheria a Roma, all’età di cinquant’anni, cioè attorno al 1910.

 

Bibliografia:

1.         “La Farfalletta” in “L’arpa della fanciullezza” – Luigi Sailer –  ed. G. Agnelli, Milano 1870.

2.         “La vispa Teresa allungata” – Trilussa – ed. M. Carra e C., Roma  1917.

 

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Aiò Salustri

(gatto)

Roma 1936? – Roma 1950?

 

La madre era una gatta di razza Angora, molto pia, vivente in casa di un curato della zona di Campo dei Fiori o dei dintorni del Vaticano. In questa casa Aiò ebbe, appunto, i natali.

Il padre, invece, viveva nella zona di Portico d’Ottavia ed era di razza Siamese. Non è stato accertato se fosse un gatto randagio, comunque sembra che fosse un poco di buono.

 

All’età di circa un anno, Aiò fu adottato dal signor Carlo Alberto Salustri e da lui prese il cognome.

 

All’età di circa tre anni, con la promulgazione delle Leggi Razziali, venne sospettato di essere di origini Israelite, per cui il padre adottivo si recò da un Prefetto amico suo, con le carte di adozione in mano, per smentire questa diceria. Probabilmente il curato che aveva conosciuto personalmente la madre di Aiò, ed assistito alla sua nascita, testimoniò in suo favore.

 

Chiarito l’equivoco, il Prefetto mise la sua firma sui documenti che lo riconoscevano di razza Ariana, ma consigliò al padre adottivo di cambiargli il nome in Aià.

 

Non siamo a conoscenza della sua vita nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, se non del fatto che fu esonerato dal servizio militare. Si ignora anche quanto tempo sia vissuto con il suo padre adottivo.

 

Bibliografia:

1. “L’Affare de la razza” in “Acqua e Vino”– Trilussa – ed. Mondadori, Milano 1945.

 

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LUPO?  D’AGOBBIO

(lupo)

? ca. 1201  - Gubbio ca. 1212

 

Non sappiamo se Lupo fosse il suo vero nome od un soprannome dettato dalle sue caratteristiche fisiche.Va tenuto presente che in Italia l’uso dei nomi e dei cognomi veri e propri risale al XIV secolo. Nel Medioevo le persone e gli animali avevano un nome proprio o, più spesso, un soprannome, seguito da un patronimico o dal luogo di origine. La nostra conoscenza sulla vita dei lupi del periodo, probabilmente simile a quella di quelli dei nostri giorni, ci fa presumere che Lupo non fosse di natali eugubini, in quanto si sa che i lupi sono animali vaganti, che possono percorrere anche centinaia di chilometri all’anno nelle loro perigrinazioni. L’origine della famiglia di Lupo va cercata, quindi, in tutto l’arco appenninico, dalla Calabria alla Provenza. Il fatto, però, che Lupo fosse in grado di comprendere il Volgare Umbro, ci spinge a pensare che fosse comunque di origini dell’Appennino Centrale, a meno che non avesse imparato quella lingua in tarda età.

 

Non sappiamo nulla della sua vita fino al periodo in cui si trasferì nella campagna di Gubbio, tranne che allora era già molto anziano. Considerando che i lupi, allo stato selvaggio, vivono in media dieci anni, si può presumere che avesse già superato gli otto-nove anni quando ebbe l’incontro con Francesco da Assisi, incontro che avvenne in una data imprecisata, ma non prima del 1207 (primo arrivo di Francesco a Gubbio) e non dopo il 1211. Tendiamo a mettere questro incontro nell’autunno del 1210, durante il secondo periodo eugubino di Francesco, ponendo quindi l’anno di nascita di Lupo attorno al 1201. Abbiamo solide ragioni di pensare che, al momento dell’incontro, Lupo fosse già vedovo, in quanto i lupi sono animali sociali, che si accoppiano una sola volta nella vita e che non si risposano dopo il decesso della consorte, diventando appunto Lupi Solitari.

Meno probabile, invece, che Lupo fosse stato cacciato dal suo branco da un collega dominante, in quanto la Letteratura ci descrive Lupo come un animale grande e forte più della media.

 

Abbiamo anche solide basi per pensare che Lupo fosse, oltre che molto istruito, anche di buona famiglia, o che comunque avesse avuto in gioventù un’educazione raffinata, infatti i Fioretti ci riportano che conosceva il galateo a perfezione e che usava tendere la mano destra per salutare gli amici. Comunque, costretto dalla fame, fu spinto alla delinquenza, divenendo anche assassino. In seguito all’incontro con Francesco, però, si pentì e ritornò sulla retta via.

Di certo, di Lupo, sappiamo che durante gli ultimi due anni della sua vita lasciò la sua vita girovaga, trasferendosi in città e mantenendo ottimi rapporti di vicinanza con gli uomini e con i cani di Gubbio. Questi ultimi certamente lo rispettavano e forse lo temevano ancora, tanto è vero che non usarono mai abbaiargli contro. Lupo decesse di vecchiaia in Gubbio attorno al 1212.

 

Bibliografia:

1.         “Fioretti di S. Francesco – XXI” - Tommaso da Celano.

2.         Biografia di S. Francesco d’Assisi – vari

 

 

 

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LEO AFRICANUS ANDROCLEIUS

(leone)

Tunisia ca. 35 D.C – Roma ca. 42 D.C.

 

La storia di Leo A. Androcleius è un chiaro esempio del fatto che gli scrittori, spesso e volentieri, prendono per buone delle informazioni, senza curarsi della loro esattezza. A seconda dei vari autori che ci trasmisero la storia in questione, infatti, Leo potrebbe essere vissuto tanto alla fine del V seolo A.C., quanto a metà del II secolo D.C., uno scarto di quasi sei secoli! Per la scelta della data più plausibile, quindi, ci siamo basati sul racconto più ricco di particolari, anche se, come vedremo, lo stesso racconto potrebbe essere anche quello più ricco di... inesattezze.

 

Forse il racconto è una delle favole di Esopo, ma le nostre fonti risalgono solo al Medioevo. La prima è quella del monaco Ademaro di Chabannes (XI secolo), la seconda è un codice in latino di prima del XV secolo, in versi, di un certo Gualtiero d’Inghilterra (Walter of England), tradotto in Inglese nel 1484 da William Caxton. Inquest’ultima versione La XLI favola è intitolata “De leone et pastore” e ci riporta la storia di Androclo, senza però fare nomi. Secondo Esopo, fu Leo stesso a rivolgersi ad un pastore, per farsi levare la spina dal piede. Il fatto sarebbe avvenuto in una non meglio identificata foresta. Il pastore, poi, sarebbe stato condannato a morte, per aver commesso qualche delitto. Incontratosi di nuovo sul luogo dell’esecuzione, Leo ed il pastore si sarebbero riconosciuti, con il classico lieto fine. Esopo, nella sua breve favola, come al solito aggiunge la morale: le torture dei nemici non potranno mai avere la meglio nei confronti di chi si comporta bene. Secondo questa versione, naturalmente, Leo sarebbe vissuto al più tardi nel V secolo A.C.

Ma sorge un problema: sembra che la favola non sia di Esopo, ma sia piuttosto sia un’aggiunta apocrifa, perché il noto favoliere latino, Fedro, non la inserisce tra quelle della sua nota versione latina delle favole di Esopo, anche se sembra che Seneca conoscesse la storia in questione.

 

Una versione che siamo propensi decisamente a scartare, in quanto scritta troppo lontana dall’avvenimento, è quella del drammaturgo irlandese George Bernard Shaw, che sposta la favola al tempo delle persecuzioni cristiane di Antonino Pio, a metà del II secolo D.C.

 

La più patricolareggiata fonte della biografia di Leo ci proviene dal libro “Notti Attiche” di Aulo Gellio, autore latino del secondo secolo dopo Cristo. Il Gellio ci riporta nel XIV capitolo del V libro delle “Noctes Atticae”, pubblicato nel 130 D.C., una storia di seconda mano, citando, però, nello stesso passo, con precisione, la bibliografia: il racconto citato sarebbe stato letto da Aulo Gellio nel V libro dell’opera “Aegyptiacorum” di un certo Apione, detto Plistonice. Purtroppo non ci è giunta la fonte originale, ma ne possiamo accettare la credibilità, in quanto detto Apione è citato espressamente come “fonte esterna” anche da Plinio il Vecchio, nel XXXVI libro (quello che parla dei minerali) della sua Storia Naturale, esattamente al XVII capitolo dello stesso, che tratta della Sfinge e delle Piramidi. Purtroppo non siamo in grado di stabilire con esattezza il periodo in cui visse Apione, cosa che ci permetterebbe, ovviamente, di stabilire il periodo in cui visse Leo, tuttavia possiamo stabilire dei limiti molto precisi alla data della publicazione degli “Aegyptiacorum”: non prima del 14 D.C., in quanto Apione avrebbe citato la presenza di “Cesare” al fatto avvenuto nel Circo Massimo (il termine Caesar, infatti entrò in uso, per indicare l’Imperatore, solo da Tiberio in poi). Il limite ultimo, ovviamente è il 79 D.C., anno della morte di Plinio il Vecchio. Ci sentiamo di restringere le date ulteriormente, però, basandoci su altre considerazioni: Benché Plinio avesse pubblicato nel 78 D.C. i primi dieci libri della sua Storia Naturale, quasi certamente aveva già terminato la stesura dei rimanenti, compreso il XXXVI. Anche in caso contrario, è difficile dubitare del fatto che avesse letto il testo di Apione già molto prima, e che quindi gli “Aegyptiacorum” fossero un testo noto e pubblicato almeno una decina di anni prima.  Apione, come ci riferisce Aulo Gellio, avrebbe assistito di prima persona a quanto accadde nel Circo Massimo. Possiamo credergli? Direi di sì, in quanto Apione era considerato un’autore molto... autorevole dai suoi contemporanei. Apione era considerato ai suoi tempi uno specialista in Egittologia. Insomma una persona seria, che non racconta storie romanzate. Dobbiamo, tuttavia, mantenere il dubbio: non conosciamo altre fonti, dirette od indirette del fatto accaduto nel Circo Massimo riportato da Apione. La cosa ci sembra strana, in quanto l’accaduto fu veramente una cosa fuori del comune. Ma potremmo anche accettare il semplice fatto che le altre testimonianze semplicemente non sono giunte a noi. Forse la storia di Leo e di Androclo apparve sui giornali dell’epoca, come una curiosità, ma non fu considerata degna di essere riportata nei libri delle cronache ufficiali dell’Impero, scritte su pregiati e costosi papiri.

Un altro autorevole testo, il “Contro Apione” di Giuseppe Flavio, l’autore delle più note “Guerre Giudaiche”, ci viene qui in aiuto ad indicarci che questo Apione raccontasse a volte anche delle... autorevoli... panzane. La stessa fonte ci consente anche di stabilire con maggiore precisione le date: Il fatto raccontato da Apione (sempre che non sia stato il frutto della sua immaginazione) sarebbe avvenuto durante il regno dell’Imperatore Caligola, cioè tra il 37 ed il 41 D.C., quando Apione si sarebbe trovato appunto a Roma, per una questione tutt’altro che... letteraria. Sembra infatti che fosse stato chiamato a Roma da Alessandria per testimoniare contro certi presunti riti obbrobriosi (e falsi) perpetrati dai Giudei della Palestina, compresa l’accusa di fare sacrifici umani. Insomma questo Apione, sebbene considerato dai contemporanei romani un autorità in fatto di storia dell’Egitto e dintorni, fu anche il prototipo del libellista antisemita. Giuseppe Flavio, nel suo “In difesa degli Ebrei – Contro Apione” si scaglia contro lo stesso con veemenza, nonostante che Apione stesso non fosse ormai più in vita. E c’è chi potrebbe vedere un segno della Giustizia Divina nel fatto che Apione fosse morto di gangrena, proprio come sarebbe morto Leo, se non fosse stato curato da Androclo!

Quando avvenne, dunque, sotto gli occhi di Apione, l’incontro di Leo con Androclo? Non sbaglieremo di molto, proponendo il 40 D.C., a metà del regno di Caligola. E qui è bene far notare che questo fatto smentisce categoricamente la credenza popolare posteriore, riportata anche dallo Shaw, secondo la quale Androclo fu un Martire Cristiano: Il fatto avvenne prima della prima persecuzione cristiana, avvenuta, notoriamente al tempo dell’Imperatore Nerone. Inoltre Apione Plistonice, per penna di Aulo Gellio ci dice chiaramente che Androclo era stato destinato ad essere dato in pasto alla fiera, perché era stato condannato a morte, non per ragioni di credo religioso, ma per essere uno schiavo fuggiasco ricatturato dalle autorità. Apione ci dice chiaramente che la fuga di Androclo era avvenuta tre anni prima, in Tunisia, dove il padrone di Androclo, un tipo molto severo e crudele, aveva la funzione di Proconsole, e viveva, quindi nella capitale della provincia dell’Africa. Cosa possiamo dire di Leo, oltre a quello che raccontò Androclo in persona all’Imperatore Caligola? Ben poco. Se accettiamo il 40 D.C. come la data più probabile dell’avvenimento al Circo massimo, allora possiamo fissare al 37 D.C. il primo incontro di Leo con Androclo e, assumendo che a quell’epoca Leo dovesse essere stato già un leone adulto, possiamo stabilire la sua data di nascita nel 35 D.C., ovviamente in Tunisia, o forse nell’odierna Libia. Di certo sappiamo, stando al racconto che avrebbe fatto lo stesso Androclo all’Imperatore, sempre secondo la nostra fonte, che Leo viveva non lontano dalla capitale della provicia d’Africa (Tunisia e Libia odierne), al tempo in cui incontrò Androclo nella grotta dove questi si era rifugiato per sfuggire al sole cocente, dopo la sua fuga dal padrone. Abbiamo i nostri dubbi che Leo abitasse stabilmente nella detta grotta, dato che i leoni sono animali che vivono all’aperto, ma in ogni caso vi entrò, almeno per cercare un rifugio temporaneo, a causa della ferita al piede, causata da una grossa spina o scheggia. La ferita in questione era certamente recente, dato che non era ancora andata in suppurazione, ma, stando alla tipologia descritta da Androclo, molto dolorosa e certamente impediva a Leo di correre per cacciare. Dal comportamento di Leo durante il primo incontro con Androclo, dobbiamo presumere che Leo fosse un leone relativamente mite, nei limiti della razza, in quanto, pur essendo ferito, non attaccò immediatamente l’indifeso Androclo. Possiamo inoltre presumere che al momento dell’incontro Leo fosse sufficientemente sazio. Riguardo, poi, ad Androclo, non sappiamo quale fossero le sue mansioni di schiavo. Anche se evidentemente aveva qualche infarinatura di medicina empirica, le vessazioni subite dal padrone, che lo indussero alla fuga, ci fanno pensare che Androclo fosse un domestico personale od un cuoco, piuttosto che una guardia del corpo, altrimenti, una volta riacciuffato, sarebbe stato probabilmente mandato a fare il gladiatore o, se avesse avuto qualche mansione ufficiale, sarebbe stato crocifisso. Comunque presumiamo che non si trattasse di una persona troppo gracile, in quanto  nel periodo in cui visse nella grotta con Leo, si cibò principalmente di carne. Come ci racconta  lui stesso, Androclo fu ricatturato durante l’assenza di Leo, uscito per la caccia, altrimenti Leo avrebbe certamente cercato di proteggerlo dai poliziotti. Lo stesso Leo fu certamente catturato poco dopo, mentre Androclo era già stato trasferito a Roma per subire il processo che lo condannò alla pena capitale. I due si riincontrarono, ovviamente, sulla sabbia del Circo Massimo.

 

La storia della vita di Leo si ferma qui. Apione ci racconta solo che, donato a Furor di Popolo al graziato Androclo, prese ad aggirarsi per le bettole di Roma. Non possiamo escludere che in breve tempo potesse essere diventato un disoccupato affamato ed alcolizzato insieme al suo padrone. Quindi temiamo che possa non essere vissuto a lungo, dopo quel momento di gloria. Vogliamo sperare che sia vissuto almeno fino al 42 D.C circa, ma, purtroppo ne dubitiamo.

 

Un’ultima considerazione: la serietà degli autori delle nostre fonti (Gellio e Plinio) potrebbe farci pensare che tanto Leo che Androclo siano realmente esistiti, e che quindi la “Storia di Androclo e del leone” non sia affatto una favola, ammesso che la storia stessa non sia stata inventata di sana pianta da Apione, come le altre contestate con veemenza da Giuseppe Flavio, o plagiata  da una favola di Esopo, non conosciuta da Fedro e da Aulo Gellio.

 

Bibliografia:

 

1.         “Il pastore ed il leone” – Esopo.

Nota:    La favola in questione, accennata in Seneca e ripresa da Gellio (ref. 5.), è assente in Fedro. Essa si tramanda, tuttavia, all’età medievale nell’ambito del corpus "esopiano" (Rom. III,1; Cod. Wiss. III,1). Vedi anche ref. 2.

2.         In: “Favole” - Ademaro di Chabannes (XI secolo) - a cura di F. Bertini e P. Gatti, Genova, 1988

3.         Fable 41 in:  “De pastore et leone” - Walter of England.

4.       Of the lyon / & of the pastour or herdman in:  “Aesop's Fables”: 3.1. - Caxton (1484) by reprint Robert Lenaghan (Harvard University Press: Cambridge, 1967).

5.         Per i suddetti 3. e 4. si veda anche: Perry number 563, in “Index to the Aesopica  - Perry -  in: Babrius and Phaedrus for the Loeb Classical Library (Harvard University Press: Cambridge, 1965).

6.         “Noctis Atticae” - Aulo Gellio, Liber V, cap. XIV – Pubblicato a Roma nel 130 D.C.


7.         “Naturalis Historia” -Plinio il Vecchio, Liber XXXVI – Naturae lapidum, cap. xvii - Sphinx Aegyptia. Pyramides.       Pubblicato a Roma postumo attorno all’85 D.C. 

 

8.         “Aegyptiacorum”  - Apione Plistonice, Liber V (bibliografia indiretta citata nella 6.)

 

9.         “In difesa degli Ebrei (Contro Apione)” – Giuseppe Falvio – a cura di F. Calabi – Marsilio Editori, Venezia 1993, 1:9.47-1:10.56.

10.       Androcles and the Lion"  -  George Bernard Shaw - (1912)

           

 

 

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GATTA CAGLIUSO-CARABAS

(gatto)

Napoli ca.1600 – Lombardia ca.1615

 

 

Nonostante la cosa possa sorprendere, G. Cagliuso-Carabas non fu un gatto con gli stivali, ma una gatta... senza stivali o scarpe di sorta.

 

Questa affermazione potrebbe sembrare alquanto azzardata, se approfondite ricerche storiche non ci avessero rivelato una grossolana inesattezza della fonte più autorevole,  generalmente accettata, quella dei "Racconti di Mamma Oca" di Charles Perrault.

 

Va subito detto, a difesa del grande novellista francese, che il Perrault non ci ha fornito di sua penna alcun dato fuorviante: non è certo colpa sua se molti oggi credono che il gatto con gli stivali sia stato, appunto, un gatto maschio, vissuto nei dintorni di Parigi, attorno all'inizio del XVII secolo.

In effetti il Perrault riscrisse in francese una novella scritta in Volgare Napoletano da Giovan Battista Basile, vissuto a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo. Nel "Trattenemiento Quarto de la Iurnata Secunna" del suo "Lo Cunto de li Cunti", pubblicato postumo attorno al 1635, e conosciuto anche con il nome di Pentamerone, il Basile ci narra la storia di un certo Pippo, poveraccio napoletano, e della sua Gatta.

Il Perrault, nella sua versione francese, non solo cambiò il sesso della Nostra, ma aggiunse anche gli stivali. Questi stivali rappresentano il lato più oscuro della vicenda: il Perrault non ci dà la minima spiegazione circa il perché di questa insolita  richiesta del gatto al suo padrone, né è detto esplicitamente che funzione avessero questi stivali in tutto il racconto. La nostra teoria è che il Perrault abbia voluto prendere in giro, senza farlo, ovviamente, in modo esplicito, la nuova moda della Corte Francese. C'è di più: pare che il Perrault abbia voluto fare ironia sul metodo allora in voga tra i baronetti: quello di farsi strada alla Corte di Francia, dove qualunque "illustre sconosciuto" poteva diventare "qualcuno", se sapeva far mostra di possedere un cavallo e di avere dei soldi. Gli stivali, dunque non rappresentano, nella nostra storia, solo una moda di vestire, ma soprattutto un simbolo di status. Il Perrault,  adattò il racconto del napoletano Basile alla società francese del suo tempo, cambiando anche il sesso della Nostra. Presumiamo che il cambio di sesso, operato dal Perrault, fu una necessità dettata dai fini del racconto: notoriamente le donne si facevano strada a Corte in altri modi, più femminili di quello di andare a caccia a cavallo.

Non possiamo tacciare di plagio il Perrault, perché lui stesso non si appropria esplicitamente della storia, né cita esplicitamente i luoghi in cui avvennero i fatti. Il Perrault, inoltre, non fa il nome dei personaggi. Non escludiamo che egli abbia agito in questo modo sia per prudenza, sia per lasciare alla fantasia dei suoi lettori la scelta di "appiccicare" i fatti raccontati a persone note dell'epoca.

 

Non conosciamo con certezza né il nome della Nostra, né il periodo in cui sia vissuta. Per il nome proprio abbiamo scelto quello di Gatta, mentre per il cognome ne abbiamo creato uno doppio, composto dai due riportati come inventati dalla stessa Nostra nelle versioni di Basile e di Perrault: Cagliuso-Carabas.

 

L'unico particolare della vita di Gatta di cui siamo certi è il luogo di nascita: Napoli. Per la presunta data di nascita, abbiamo scelto il 1600, anche se questa data, come vedremo, potrebbe essere stata erroneamente  posticipatata dagli storici addirittura di un secolo: Gatta, cioè, potrebbe essere vissuta attorno al 1500.

La versione del Perrault è molto fedele a quella originale del Basile, con poche differenze, senza dubbio create ad hoc dall'autore francese per adattare la storia al suo pubblico. L'esame di alcune di esse ci permette di aprire un interessante spiraglio sulle differenze tra la vita quotidiana napoletana e quella parigina del XVII secolo.

Nella versione del Basile il padre morente è un poveraccio, mentre in quella del Perrault è un facoltoso mugnaio. Nella prima versione i figli sono due, in quella posteriore tre. Forse non è un caso che in entrambi le versioni della storia non ci siano figlie femmine. Nella versione napoletana la Nostra, come abbiamo detto, è una gatta femmina, cosa abbastanza comprensibile, tenendo presente che anche oggi i gatti maschi napoletani sono per lo più gatti randagi, mentre le gatte femmine sono abitualmente casalinghe. Ignoriamo quale fossero le abitudini dei felini francesi del periodo, ma abbiamo già accennato che il cambio di sesso voluto dal Perrault fu probabilmente un artificio letterario necessario.

 

Nella versione del Basile, Gatta si procura gli animali da portare al re alla maniera tipica e naturale dei felini napoletani: sottraendola. All'inizio porta, naturalmente, dei pesci. Da notare come il Basile addolcisca il misfatto felino con una descrizione a dir poco poetica: "... ogne matina che lo Sole co l'esca de la luce posta coll'ammo d'oro ne pesca l'ombre de la Notte, se consignava o a la marina de la Chiaia o a la Preta de lo pesce e abbistanno quarche cefalo gruosso o na bona aurata, ne la zeppoliava e portava a lo re...". Non vi sembra di sentire la musica di "O' Sole Mio" sullo sfondo?

Più in là, il Basile non si preoccupa di addolcire il misfatto e ci dice esplicitamente che "... Quarch'autra vota correva sta gatta dove se cacciava, a le padule o a l'Astrune, e comme li cacciature avevano fatto cadere  o golano o parrella o capofuscolo, ne l'auzava e lo presentava a lo re..."

 

Il Perrault, si rivolge evidentemente ad un pubblico di benestanti buongustai francesi, e preferisce i conigli  " … Voilà, sire, un lapin de garenne que monsieur le marquis de Carabas..." e le pernici. Interessante notare altre due differenze con il racconto napoletano: gli animali vengono cacciati personalmente dal gatto con gli stivali e l'ambiente è quello di una ricca società agricola (la rinomata conigliera ed il campo di grano, dove vengono catturate le pernici).

 

Il seguito della storia è pressoché identico nei due autori, ed alla fine il padrone della Nostra sposa la figlia del re. Il finale è però un po' diverso e, specialmente quello originale, oltremodo interessante.

 

A questo punto è essenziale fare una precisazione storica, perché ciò potrebbe portare indietro di un secolo la vita ed i fatti di Gatta: Attorno al 1600, a Napoli... non c'era il Re! Napoli, in quel periodo, si trovava sotto il dominio spagnolo, che aveva anche il possesso di Milano. È possibile che il Basile si riferisse ad una storia accaduta almeno un secolo prima, quando a Napoli il re c'era? Noi pensiamo di no. È molto più probabile che il Basile abbia usato il termine re per semplificare il racconto, infatti siamo certi che l'autore napoletano facesse riferimento al XVII secolo, ed alla dominazione spagnola. Un'altra ipotesi, più che plausibile, è quella che si trattasse proprio del re di Spagna, forse in visita a Napoli. Come siamo arrivati a questa conclusione? Dallo stesso racconto, che ci rivela, tra l'altro, un altro fatto interessantissimo. Gatta racconta al re come il suo padrone, il Segnore Cagliuso, avesse  "... recchezza granne che se trovava pe le campagne de Romma e de Lommardìa...". In Lombardia, tra l'altro, alla fine del racconto, Cagliuso va a stabilirsi con Gatta e con la moglie (la figlia del re), dopo aver acquistato, grazie alla dote di quest'ultima, sufficienti terre da diventare barone.

Questa "emigrazione" in Lombardia ci rivela due fatti estremamente interessanti: la facilità di movimento che avevano i residenti dei possedimenti del dominio spagnolo e che il trasferimento dei "Terroni" nel Milanese era già un fatto compiuto quattro secoli fa.

 

Per il Perrault il re naturalmente non costituisce un problema. Diverso è invece il metodo con il quale il gatto si "procura" i  presunti "possedimenti" del marchese di Carabas. L'autore francese inventa qui la figura dell'Orco, propria della narrativa francese dell'epoca. Il Basile, invece, conoscendo la mente dei suoi compatrioti, diffidenti per natura, preferisce usare un'astuzia tutta napoletana, mettendo in guardia i contadini sulla possibilità che i messi del re li avrebbero depredati, se essi non avessero raccontato la balla che il padrone era il Cagliuso.

 

La storia si conclude diversamente nelle due versioni, con  "la morale della favola" appropriata al carattere dei lettori. Non sbaglieremo di molto nel sostenere che questa "morale della favola" ci rivela come i Francesi ed i Napoletani non siano cambiati in questi quattro secoli: Secondo il Perrault il gatto diventa un gran signore, che si dedica alla caccia ai topi per puro diletto, non avendo bisogno di farlo per sostentamento, mentre nella versione napoletana, Cagliuso rivela una sporca ingratitudine verso Gatta, la quale, giustamente offesa, lo abbandona, borbottando la morale: "Dio te guarda de ricco 'mpoveruto / e de pezzente quanno è resagliuto".

Nella versione francese, invece, la morale ineggia all'industriosità e... all'amore per le belle ragazze...

 

Non ci sono rimaste, purtroppo, testimonianze della vita di Gatta nel periodo posteriore all'abbandono della casa di Cagliuso. Presumiamo che abbia trovato una casa più accogliente nella zona, e che sia morta di vecchiaia, attorno al 1615 in qualche paese della Lombardia.

 

È interessante notare, in apppendice, come probabilmente il Perrault conoscesse il Volgare Napoletano, scritto dal Basile, peraltro, in una forma piuttosto "italianizzata".

 

Tralasciamo di prendere in seria considerazione, in quanto sicuramente apocrifa, l'ipotesi avanzata da alcuni storici di una presunta oscura congiura di Palazzo, nella quale il Cagliuso avrebbe sostituito il re di Spagna, conosciuto anche come Federico III di Napoli, basata sull' identità della figlia del re, moglie di Cagliuso con l'omonima moglie di Federico III : nelle molto tarde versioni italiane della storia essa si chiama, è vero, Isabella, come la moglie di Federico III di Napoli, ma il nome Isabella, a quei tempi, era troppo comune, per rendere verosimile la versione di una tale romanzata congiura di Palazzo.

 

Bibliografia:

 

1.         "Cagliuso – Trattenemiento Quarto de la iornata secunna" in "Lo cunto de li cunti" – Giovan Battista Basile – Napoli, 1634-1636. edito anche da Einaudi.

 

2.         “Le Maître chat ou le chat botté in Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités” (Contes de ma mère  l'Oye) – Charles Perrault – (1697) – ed J Barchilon, 1956