Un’avventura all’inglese nello Yorkshire Dales

 

di Assunta Trapanese

 

 

 

 

Nel primo venerdi di maggio, come uno dei tanti fine settimana inglesi, quando il cielo oscilla tra il soleggiato ed il nuvoloso, tra una brezza ed un forte tipico vento inglese, aspetto paziente Marcus. Inglese e con accento dello Yorkshire, ha accettato gentilmente di venirmi a prendere a casa (a Bradford, West Yorkshire) in quanto dopo qualche anno mi si è presentata l’occasione di esplorare le grotte inglesi. Tutto è cominciato nel mese di marzo di quest’anno, durante un viaggio di lavoro a Madrid, siedo di fronte ad un inglese, un ricercatore del mio Network europeo di ricerca, in un ristorante italiano. Andrew (Andy per tutti) mi racconta delle sue avventure in Sud Africa, in Messico e delle tante visite alle grotte spagnole e francesi. Quindi penso che forse sarebbe ora di provare a visitare una grotta qui nel Nord dell’Inghilterra. Dopo un mese di trattativa, tra impegni lavorativi e weekend al mare (da queste parti comincia a fare caldo ed il fresco della brezza marina con la visione dell’acqua richiamano l’attenzione) decidiamo di spendere il primo fine settimana di maggio in grotta, in quanto Andy partirà per tre anni per l’Australia in cerca di nuove esplorazioni.

Finalmente Marcus arriva alla 7.20 del pomeriggio (però, ho sempre immaginato che gli inglesi fossero on time), mi aiuta a caricare qualche bagaglio in macchina e mi mette davanti agli occhi una mappa per cercare di capire come uscire da Bradford, dato che vive a Leeds, distante soli 20 minuti. Si parte. Si parla del lavoro, scopro che si laureato in Geologia (non l’avrei pensato!), di come gli inglesi si ubriacano prima di andare in grotta (sopravvivrò?, penso) e in meno di un’ora arriviamo in una zona collinosa (purtroppo montagne vere e proprie non ne esistono qui, si deve arrivare in Scozia per trovare la cima più alta, il Ben Nevis di soli 1200 m). Il pernottamento è in tenda, in un camping ben attrezzato con tanto di docce e toilets. In fondo al camping Marcus mi fa notare l’accampamento di diverse tende ed auto parcheggiate in fila: è quello degli speleologi, che ritroveremo, come lo si poteva immaginare al pub.

       Al pub infatti, rivedo Andy insieme a molta altra gente che non conosco assolutamente di giovani e qualcuno ormai cinquantenne, tutti con un boccale di birra. La serata trascorre fino all’una di notte tra un racconto di passate avventure, di conoscenze ed ovviamente un sorso di birra. A notte fonda ritorniamo alle tende, sotto un buio pesto, senza l’aiuto della luce delle luna, ed aiutati dalle strisce bianche delle carreggiate che ci portano in 15 minuti a piedi al camping. Andy ha provveduto a tutto l’equipaggiamento ossia tenda e sacco a pelo (ma questo equipaggiamento non sarebbe finito lì, come avrei scoperto il girono dopo). Sfinita, essendo anche venerdì, mi inoltro in un sonno pesante, mentre alcuni trascorrono la notte a bere e parlare (qualcuno si sentirà male la mattina seguente, vomitando come nel puro stile inglese tutto l’alcool ingerito la notte prima e rinunciando a quella che sarà davvero una eccitante esperienza).     

            La mattina è soleggiata e leggermente pungente dal freddo. Una delle prime attività è la colazione: gli inglesi amano caricarsi di energie prima di un tuffo in grotta, con un’abbondante e delizioso breakfast all’inglese (appunto!). Nei loro piatti vedo solo uova, salsicce, pane tostato al  burro, fagioli in salsa e bacon naturalmente. Il tutto accompagnato da una tazza di te. Io da buona continentale cerco un croissant o qualcosa di dolce, ma tra il menu riesco solo a trovare un leggero pane al formaggio con un caffé per ricaricarmi. Si ritorna al camping e seconda operazione è svuotare l’auto di Andy piena di equipaggiamento per la grotta. Ad Andy mostro la mia tuta rossa che indosso generalmente in Italia con un bel paio di guanti verdi per coprirmi dal fango. Molto gentilmente Andy mi dà una tuta di pialle, per cominciare, e la mia attrezzatura. Fin qui tutto scorre abbastanza normale. Finalmente si parte, in auto, per le grotte se nonché una improvvisa e forte grandinata (i chicchi erano di mezzo centimetro di diametro) si scagliano su di noi. A questo punto mi sono capacitata di come è  strano questo paese, di come è imprevedibile e di come gli inglesi abbiano imparato bene a copiare e imitare il loro clima, variazioni comprese. Riprendiamo il nostro cammino ed Andy (da buon archeologo) mi spiega un po’ la geografia del luogo, arricchita di qualche nozione di geologia e di speleologia.

In effetti, come scoprirò durante la mia passeggiata sotterranea, in Inghilterra le grotte sono collegate in enormi sistemi fitti ed anastomizzati, sviluppati principalmente in orizzontale secondo dei cunicoli alti mezzo metro nelle zone canalizzate di alto ordine e che confluiscono in canali principali la cui altezza raggiunge il metro. L’obiettivo della nostra esplorazione è uscire vivi dalla Simpson’s Pot. Questa grotta fa parte del West Kingsdale nel Parco Nazionale dello Yorkshire Dales (nel Nord Ovest dell’Inghilterra), con una profondità di 112 m ed una lunghezza totale percorribile di 885m. Fu esplorata per la prima volta dall’Associazione Speleologica Britannica (BSA) nel lontano 1940. Curiosità a proposito dei nomi dati: da queste parti non si usa molto un corrispondente di grotta o grava, ma si preferisce pot che un sembra significare una grande pentola che inghiottisce e quindi l’attività di esplorare e visitare le grotte viene definito come Potholing.

            Dopo aver lasciato la strada principale che da Settle porta ad Ingleton (dove si trova la grotta più lunga in Inghilterra) ci inoltriamo nel cuore della valle glaciale modellata ad U del Kingsdale dove e’ ubicata la nostra grotta, affacciata ad una distesa enorme di pascolo verde che diventa a cespuglio di colore marrone come arso dal sole sui pendii alti e ripidi. La grotta si trova sul pendio della collina Whernside, che insieme a Ingelborough e Pen-y-ghent hùHill sono le tre cime piu’ alte del Parco, ma piatte come tutto il paese. La statigrafia e’ costituita da calcari, in cui si snoda la Simpson’s Pot, che proseguono verso l’alto verso calcari massivi in banchi sub-orizzontali, e termina con una successione di arenarie, scisti e calcari.

Andy parcheggia l’auto e comincia a svuotare la sua auto. Intanto avevamo incontrato dei giovani speleologi con tanto di tuta impermeabile e la cosa che mi ha incuriosito sono state delle ginocchiere che portavano. Avrei capito più tardi ed anche ora che scrivo capisco quanto sarebbe stato meglio averle. Tutti vestono una muta ed una tuta impermeabile con tanto di casco ed equipaggiamento speleologico salvavita, oserei dire. Addirittura Andy resta solo in muta. Io invece me la cavo con un abbigliamento non adatto né per il bagnato né per l’asciutto. Solo ai piedi mi danno dei pedalini di una muta, una tuta impermeabile, un ulteriore pialle sopra la tuta usuale speleologica in quanto mi fanno notare che incontreremo anche 2°C. Comincio a riflettere che se mi dicono una cosa del genere sarà pure vero e che venendo da un paese caldo (il bellissimo sud dell’Italia) immagino che sentirò tipo -3°C. Il momento che mi getta nello sconforto è l’equipaggiamento per l’illuminazione. Occorre sapere che generalmente qui non usano molto l’acetilene, in quanto in alcune grotte ne è proibito l’uso (ricordate che gli inglesi amano tutelare anche le più piccole sciocchezze) ed inoltre le grotte sono ultra bagnate per cui non c’è modo di salvarsi dall’acqua. Mi attaccano al fianco una batteria pesante, e per un secondo mi sento in disequilibrio. Penso che durante la visita alle grotte italiane mi sia sentita come un angelo che vola leggera, mentre ora mi sentivo come lucignolo caduto sottoterra.

Finalmente si parte (sono appena le due del pomeriggio), e prendiamo di petto una salita ripidissima, e non immaginate che caldo (strano a sentirlo dire, ma quel giorno c’era il sole) inglobata in quella tuta ermetica. Dopo una quindicina di minuti arriviamo su un pianoro e giriamo un poco per cercare di trovare l’entrata della grotta. A questo momento Nick si ricorda di non aver attaccato il discensore (la grotta e’ costituita solo di discese), ma si decide di proseguire. Avrei dovuto capire già dall’entrata come sarebbe stata una metà della grotta. In effetti l’entrata è di forma circolare con un diametro di un metro circa, ubicata a 376 m di altitudine, come un inghiottitoio che si apre sulla cima del costone del West Kingsdale. Quindi la prima parte è percorribile camminando a gattoni e in dei punti strisciando a pancia in giu’, essendo uno stretto canale, ma penso che sia solo un piccolo tratto: la mia valutazione era completamente sbagliata. Infatti per una cinquantina di metri striscio, e mi dicono che mi trovo nel punto di immissione dell’acqua nella grotta. Questa comincia ad allargarsi e la prima discesa e’ comunque all’insegna della cascata, chiamata Five Steps. L’acqua poi fluisce verso la Bobs Pit (che significa pozzo in questo caso), scende verso la Chandelier, seguita  da Camel e Stake Pot (un salto di 6 m) ed finisce in un canyon stretto bagnato dalla cascata dello Storm Pot, che e’ alto 9 m e termina in una pozzanghera bella piena di acqua colorata. Nel cuore della montagna la grotta diventa sempre più stretta e comincio a pensare: meno male che quest’anno mi sono risparmiata tutte le mince pie (i dolci tipici natalizi di queste parti), di cui sono ghiotta. Essere snelli, agili e scattanti aiuta a sopravvivere nelle grotte di stampo inglese. In genere il gruppo prosegue a processione (Andy, Catherine, Io, Nick e chiude James), con una leggere interruzione alle mie spalle in quanto il discensore viaggia a più non posso tra Nick e James. All’inizio non mi rendo conto di cosa sono costretta a fare, a come devo imparare a vincere la paura e a ricredermi che non ce l’avrei fatta: tanto non sarei potuta rimanere lì incastrata, no? In fondo mi sono anche divertita come al mare: un sifone in verità mi ha dato qualche brivido, quando mi stendo completamente (sempre nell’acqua, questa è una costante durante questa gita, non lo dimenticate) e striscio con la pancia in su in modo da avere solo il viso fuori! Infatti questa zona si chiude a becco in un passaggio dove a mala a pena ci sono i centimetri per tenere aperta la bocca e respirare, prima di andare a finire in un altro pozzo di 11m. Il cammino prosegue inesorabilmente tra lo stretto Shuffle Pot di 5 m in discesa e un momentaneo allargamento verso il Lake Pot (di altri 5 m) che termina in una vasca di acqua; usciti salvi dalla vasca, ci avventuriamo verso un’altra stretta e lunga sezione di un passaggio scavato dal torrente che conduce verso il Aven Pot alto 8 m e lo Slim Pot di 24 m. Ricordo che in Italia, mi lamentavo sempre per le difficili traversate, il dover arrampicarmi ed a volte stendermi completamente sulla roccia per attraversare un meandro e non rimanere incastrata. Nel caso della Simpson’s Pot, ho dovuto far pressione con schiena, e mani da un lato, e gambe e piedi dall’altra per non scivolare e lasciarmi andare giù dove mi sarei incastrata e ...non vorrei neanche pensare a come mi avrebbero dovuto tirare fuori. Ancora una volta penso alle ginocchiere. La nostra abilità non finisce qui. Nell’ultimo pozzo di 40 m (il Great Aven Pitch), ho pensato di stare al circo e di essere un acrobata. La fessura che da sul pozzo è molto lunga in altezza ma larga poco più di dieci cm. Il primo a sfidare l’avventura e’ soprattutto a misurare quanto sia stata abbondante la colazione è Nick. Ci prova due volte ad infilarsi, ed alla fine viene aiuto a spintoni, testa compreso. Quando e’ il mio turno, mi sembra di volare, quando riesco a fuoriuscire dalla fessura e a rimanere sospesa. Uno speleologo a questo punto penserebbe: bé, sei in sicura, svolgi la chiave e scendi. Magari! La corda era ultrabagnata e quindi pesava un accidenti ma cosa più importante una doccia fredda mi aspettava a metà grotta. Diciamo che mi sono divertita per 10 m sotto una cascata di acqua gelida, come quando grandina forte, e ti entra un rigolo di acqua nella schiena. Ho anche pensato che in fondo mi ero risparmiata la doccia mattutina (immaginavo di farne una gratis), tanto qui l’acqua è a volonta’ e pure al ferro, in caso che avessi un’anemia nascosta. Ai piedi del pozzo fiumi di acqua scendevano da tutte le parti e non sapevo come starne alla larga. Improvvisamente, aspettando Andy che riuscisse a comprimersi velocemente e a passare dalle fessura, Nick mi propone di proseguire. Penso: che caro, non vedevo l’ora di muovermi! Cominciavo a sentire freddo e avevo paura di un’ipotermia, essendo bagnata (alla fine non riesci più a distinguere in che condizioni è il tuo corpo tanto sei mimetizzata con l’ambiente sotterraneo). Anche qui, ci aspetta un lungo tratto a gattoni per metà nell’acqua. Comincio a desiderare la mia libertà. Ma era ancora lontana. Chiedo più volte: ma quando termina questo tratto di mezzo metro, e Nick mi dice siamo quasi arrivati al ramo principale, vedrai che si allarga. Sarà stata la voglia di tirarsi su o una visione che i geologi ogni tanto hanno, mentre camminavo a gattoni mi sono vista passare davanti agli occhi una moltitudine di ammoniti, ma sai di quelle che io definisco eleganti, il tipo Philloceras. Purtroppo erano così incastonate nella roccia anche usando un martello non sarei riuscita a cavarle. Improvvisamente la grotta da rocciosa diventa fangosa, e mentre tento di arrampicarmi su queste dense sabbie mobili, con l’aiuto di Nick penso di avercela fatta comincio a indietreggiare, ma vengo salvata. Il riposo ci attende al ramo principale, dove un torrente copioso annuncia che siamo vicino alla strada per la libertà. Siamo arrivati al ramo principale delle grotta nel punto detto Master Junction. Noto anche che il colore dell’acqua è marrone, come la roccia calcarea, piena di ferro e che in dei punti l’acqua trasporta con se una schiuma. Penso che qui l’inquinamento abbonda, ma mi spiegano che è naturale e che l’acqua è buona da bere. Sarà ma a casa in Inghilterra preferisco filtrarla, non si sa mai troppo ferro potrebbe dare effetti particolari.

Con i piedi nell’acqua come quando si è al mare e si cammina pensando che queste passeggiate facciano bene alla circolazione sanguigna, togliendo il fatto che l’acqua è ghiacciata e quindi non senti né il sangue né le gambe, ci avviamo ad uscire. Attraverso piccole cascatine, torrentelli, larghi canyon, arriviamo verso la risorgenza della grotta (Keld Head) che ci conduce al King Pot ed al sistema est del Kingsdale. Ma non mi avevano detto che stavamo al ramo principale? Di nuovo il tetto si abbassa e sono costretta a camminare con il corpo piegato a metà cercando di non cadere col viso nell’acqua e di non battere la testa sul soffitto. Una risalita in corda di 6 m ci porta al tetto del tunnel che conduce all’uscita attraverso un passaggio finale lungo a becco verso la Valley Entrance.  Improvvisamente riesco ad annusare un’aria diversa ma non vedo uscite. Dopo una svolta a sorpresa vedo una luce che non sa di artificiale: è la libertà. Certo, attraverso il buco di un bidone.      

 

Ringrazio Andrew I.R. Herries per avermi coinvolto in questo emozionante tour ed avermi fronito le informazioni su Simpson’s Pot.

 

 

 

 

 

In foto (di James Alker) da sinistra James Alker, Nick Lane, io, Catherine Russell e Andy Herries  all’entrata della grotta Simpson’s Pot. I miei compagni di viaggio fanno parte del Club Speleologico dell’Università di Liverpool (LUPC), Gran Bretagna.

 

 

 

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